Cass. Sez. III n. 16953 del 2 maggio 2022 (UP 19 gen 2022)
Pres. Ramacci Est. Aceto Ric. Cuomo
Urbanistica.Rilevanza delle risultanze catastali

La proprietà può essere provata, come tutti i fatti, anche con presunzioni e quindi anche attraverso il ricorso alle risultanze catastali. Ne consegue che le risultanze catastali possono costituire, anche in sede penale, valido indizio, valutato ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., della proprietà dell’area di sedime.

RITENUTO IN FATTO

        1. La sig.ra Vincenza Cuomo ricorre per l’annullamento della sentenza del 21/06/2021 della Corte di appello di Salerno che, in parziale riforma della sentenza del 25/05/2020 del Tribunale di Vallo della Lucania, da lei impugnata, l’ha assolta dai reati di cui ai capi C (artt. 64 e 71, d.P.R. n. 380 del 2001) e D (artt. 65 e 72, d.P.R. n. 380 del 2001), perché il fatto non sussiste, ha confermato nel resto la condanna per i reati di cui ai capi A (art. 44, comma 1, lett. c, d.P.R. n. 380 del 2001), B (art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004), E (artt. 93 e 95, d.P.R. n. 380 del 2001), F (art. 734 cod. pen.) e G (artt. 13 e 30, legge n. 391 del 1991) della rubrica, e ha rideterminato la pena nella misura di cinque mesi e venti giorni di arresto e 19.000 euro di ammenda.
            1.1. Con il primo motivo deduce il vizio di contraddittorietà della motivazione sotto il profilo del travisamento della prova per invenzione, non essendo sufficienti, per stabilire la proprietà dell’area di sedime, le risultanze della visura catastale da cui, peraltro, risulta la contitolarità dell’area stessa. E’ evidente, afferma, che il convincimento della Corte di appello si fonda su una prova che non esiste.
            1.2. Con il secondo motivo deduce l’erronea applicazione della legge penale in relazione al d.P.R. n. 380 del 2001.
A prescindere dalla questione posta con il primo motivo, la mera proprietà dell’area di sedime non è di per sé sufficiente a provare la diretta realizzazione dell’abuso, tantomeno la committenza dei lavori visto che l’art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001, non attribuisce al proprietario dell’area la posizione di garanzia dell’altrui condotta, pena la surrettizia introduzione, in assenza di altri indici di consumazione del reato (presenza sui luoghi, esclusiva disponibilità dell’area, richieste di autorizzazioni amministrative, istanze di sanatoria), di una forma di responsabilità oggettiva per fatto altrui.
            1.3. Con il terzo motivo deduce il travisamento della prova.
Richiamando le considerazioni sviluppate con il precedente motivo, allega l’assenza degli indicatori della propria responsabilità, come sopra indicati, e spiega che la presenza al sopralluogo di tal Batti Alfonso, arbitrariamente indicato dalla sentenza come “delegato”, non è sufficiente a comprovare l’interesse di una persona ultraottantenne, oltretutto affetta da gravi patologie che la costringono a rimanere a casa, alla realizzazione di un manufatto ad uso agricolo nel quale impegnare energie e risorse anche economiche.



CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il ricorso è inammissibile.

    2. L’imputata risponde dei residui reati a lei ascritti per aver abusivamente realizzato, in zona sismica, sottoposta a vincolo paesaggistico e rientrante nella perimetrazione del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in assenza del permesso di costruire, dell’autorizzazione dell’autorità preposta al vincolo, del nulla-osta dell’Ente Parco, del deposito dei progetti esecutivi presso lo Sportello Unico e del preavviso scritto, un manufatto in cemento armato delle dimensioni in pianta di mt. 12,40x7,98, alto alla gronda m. 2,65 e al colmo mt. 3.
        2.1. Incontestata la materiale realizzazione dell’opera, la sua penale rilevanza, sotto tutti i profili indicati dalla rubrica, e la sua attitudine ad alterare la bellezza dei luoghi, il Tribunale aveva ritenuto la personale responsabilità dell’imputata in considerazione: a) della proprietà dell’area di sedime; b) delle dimensioni del manufatto (la cui realizzazione aveva comportato anche una notevole spesa); c) della presenza al sopralluogo di persona delegata dalla stessa imputata (il genero, tal Batti Alfonso); d) della accettazione da parte del delegato della nomina a custode; e) della residenza dell’imputata nello stesso comune; f) della assenza di un interesse di terzi a realizzare l’opera su area altrui.
        2.2. In appello la ricorrente aveva dedotto che: a) la proprietà dell’area di sedime è stata insufficientemente desunta da una visura catastale dalla quale, semmai, risulta che la stessa è comproprietaria (e non titolare esclusiva) dell’area in questione; b) autore del reato può essere anche un soggetto diverso dal proprietario; c) non v’è alcuna prova che avesse l’esclusiva disponibilità dell’area di sedime o che fosse in qualche modo coinvolta nell’esecuzione del manufatto (non era presente sui luoghi, non aveva avanzato richieste di autorizzazioni amministrative, né di sanatoria dell’abuso); d) non v’è prova nemmeno che il Batti fosse stato delegato da lei, non essendovi certezza sul fatto che quest’ultima fosse stata contattata a seguito di sopralluogo (nessuno aveva saputo riferire se il Batti fosse stato delegato o addirittura contattato direttamente a seguito di informazioni assunte sul posto, né a che titolo detenesse le chiavi della proprietà); e) il proprietario dell’area di sedime (o il titolare di altro diritto reale sulla stessa) non può di per sé essere considerato autore dell’abuso, né è costituito dall’art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001, garante delle altrui condotte sul proprio terreno; f) l’età avanzata (ultraottantenne) e le precarie condizioni di salute (che le avevano impedito di recarsi sui luoghi) escludevano la piena signoria sul bene e l’interesse alla realizzazione di un manufatto che impegnava notevole risorse ed energie.
        2.3. La Corte di appello ha disatteso le doglianze difensive facendo esplicito e pieno rimando alle argomentazioni del primo Giudice.

    3. Tanto premesso, il primo ed il terzo motivo sono manifestamente infondati e proposti al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
        3.1. Va in primo luogo ricordato che, secondo l’insegnamento delle sezioni civili della Corte di cassazione, la proprietà può essere provata, come tutti i fatti, anche con presunzioni e quindi anche attraverso il ricorso alle risultanze catastali (Cass. civ., Sez. 2, n. 7567 del 18/03/2019, Rv. 653289 - 01; Cass. civ., Sez. 2, n. 16094 del 27/10/2003, Rv. 567698 - 01). Ne consegue che le risultanze catastali possono costituire, anche in sede penale, valido indizio, valutato ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., della proprietà dell’area di sedime. Nel caso di specie, peraltro, è la stessa ricorrente a riconoscere la valenza probatoria di tale indizio allorquando, sulla base dello stesso documento in questione, afferma la contitolarità del bene con altra persona.
        3.2. Nel resto, le deduzioni difensive sono inammissibilmente fattuali.
        3.3. Oggetto di cognizione in sede di legittimità non è il fatto come ricostruibile in base alle prove assunte nella fase di merito, bensì il fatto come ricostruito (e descritto) nel provvedimento impugnato. Il vizio di motivazione, deve essere apprezzato in base alla lettura diretta e immediata del testo del provvedimento impugnato senza la “mediazione” di elementi spuri ad esso estranei (inequivoco il riferimento al “testo del provvedimento impugnato” contenuto nella lettera “e” del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen.). L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202903).
        3.4. La Corte di cassazione può conoscere «gli atti del processo specificamente indicati» (art. 606, lett. e, cod. proc. pen.) quando ne viene dedotto il travisamento, vizio configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758 - 01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).
        3.5. In tal caso è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il "fumus" del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 dell’11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. F. n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302). Non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell'atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall'indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, Savasta, Rv. 263601; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994, secondo cui la condizione della specifica indicazione degli "altri atti del processo", con riferimento ai quali, l'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen.). E’ necessario, pertanto: a) identificare l'atto processuale omesso o travisato; b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035).
        3.6. Il principio di autosufficienza del ricorso trova applicazione anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall'art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, che si traduce nell'onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l'allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato ove a ciò egli non abbia provveduto nei modi sopra indicati (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Rv. 280419 - 01; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Rv. 276432 - 01).
        3.7. Inoltre, poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata utilizzando la prova travisata, se l’errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell'appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d “doppia conforme”, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Sez. 5, n. 48703 del 24/09/2014, Biondetti, Rv. 261438; Sez. 6, n. 5146 del 2014, cit.), a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (nel qual caso il vizio può essere eccepito in sede di legittimità, Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi, Rv. 258438).
        3.8. In conclusione: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne deduce il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli; d) non è consentito, in caso di cd. “doppia conforme”, dedurre il travisamento della prova mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni fattuali già devolute in appello sopratutto quando, come nel caso di specie, la censura riguardi il medesimo compendio probatorio non avendo la Corte territoriale attinto a prove diverse da quelle scrutinate in primo grado.
        3.9. Orbene, la ricorrente, a sostegno del primo e del terzo motivo deduce il «travisamento degli atti per invenzione» (primo motivo) e il «travisamento della prova» (terzo motivo) senza allegare gli atti (a suo dire) travisati dei quali, peraltro, sollecita una sostanziale (quanto inammissibile) rivalutazione nel merito. Resta, dunque, il fatto così come accertato in sede di merito con conforme valutazione dei mezzi di prova assunti nel corso del dibattimento di primo grado.

    4. Il secondo motivo ripropone la questione della prova della responsabilità penale del proprietario dell’area di sedime sulla quale è stato realizzato il manufatto abusivo; si tratta, in particolare, di stabilire se la qualità di proprietario dell’area: a) è sufficiente ad affermarne la penale responsabilità penale per la realizzazione dell’opera; b) in caso negativo, se sia sufficiente a dimostrarne la committenza.
        4.1. Al primo quesito è agevole rispondere ricordando che l’art. 29, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, non attribuisce al titolare del diritto reale sull’area di sedime o sull’immobile abusivamente realizzato alcuna posizione di garanzia; ne consegue che il proprietario (o il titolare di altro diritto reale) non può essere per ciò solo ritenuto responsabile dell’abuso commesso sul proprio immobile, nemmeno facendo ricorso al meccanismo di imputazione causale di cui all’art. 40, cpv., cod. pen. (Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Rv. 268014 - 01; Sez. 3, n. 52040 dell’11/11/2014, Rv. 261522 - 01; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625, che ha affermato che la responsabilità del proprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l'inapplicabilità dell'art. 40, secondo comma, cod. pen., ma dev'essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all'interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato; nello stesso senso anche Sez. 3, n. 47083 del 22/11/2007, Tartaglia, Rv. 238471; in senso contrario, ma con pronuncia isolata sul punto, Sez. 4, n. 19714 del 03/02/2009, Assante Di Ponzillo, Rv. 243961).
        4.2. L’art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001, individuando la figura del “committente” e del “costruttore dei lavori” (oltre quelle del titolare del permesso di costruire, quando rilasciato, e del direttore dei lavori, quando nominato), predilige situazioni fattuali che ampliano la sfera delle responsabilità a chiunque si sia ingerito, anche solo di fatto, nella realizzazione dei lavori, al di là ed oltre qualifiche o rapporti formali (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 43608 del 15/09/2015, Rosati, Rv. 265159 secondo cui il committente ben può identificarsi in colui che ha la materiale disponibilità del bene oggetto dell'intervento abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato; nell’affermare il medesimo principio, Sez. 3, n. 537 del 10/12/2014, Toschi, Rv. 261957, ha precisato come committente possa essere anche il titolare di altro diritto reale, come l’usufruttuario o il titolare del diritto di abitazione; per Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Spataro, Rv. 257676, la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che ha la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori).
        4.3. Il concetto è stato ben espresso da questa Sezione con sentenza n. 47083 del 22/11/2007, cit., che ha affermato il principio secondo il quale i reati previsti dall'art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, salvo che per i fatti commessi dal direttore dei lavori e per la fattispecie di inottemperanza all'ordine di sospensione dei lavori impartito dall'Autorità amministrativa. Ne consegue che anche il proprietario "estraneo" (ovvero privo delle qualifiche soggettive specificate all'art. 29 del richiamato decreto: committente, titolare del permesso di costruire, direttore dei lavori) può essere ritenuto responsabile del reato edilizio, purchè risulti un suo contributo soggettivo all'altrui abusiva edificazione da valutarsi secondo le regole generali sul concorso di persone nel reato, non essendo sufficiente la semplice connivenza, attesa l'inapplicabilità dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., in quanto non esiste una fonte formale da cui far derivare un obbligo giuridico di controllo sui beni finalizzato ad impedire il reato.
        4.4. La questione, dunque, riguarda la prova della responsabilità del proprietario (ovvero del suo concorso nel reato commesso da terze persone sul suo immobile) che non può essere risolta, senza rispolverare forme criptiche di responsabilità oggettiva, in base alla mera titolarità di situazioni giuridiche attive sul bene. La giurisprudenza di questa Suprema Corte è restia a sostenere che la titolarità di un diritto reale sull’immobile abusivamente realizzato possa di per sé dimostrare che il proprietario sia anche il committente dell’opera, quand’anche solo a titolo concorsuale.
        4.5. Nè tale prova può essere desunta dal sol fatto che il proprietario o altro diritto reale di godimento sia il destinatario dei provvedimenti amministrativi sanzionatori/demolitori/ripristinatori, questi sì collegati alla sola qualifica formale del destinatario e non a comportamenti positivamente da egli eventualmente tenuti.
        4.6. Il diritto reale sull’immobile costituisce un indizio grave, ma pur sempre un indizio che, a norma dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., deve essere valutato insieme con altri tenendo conto: a) della disponibilità giuridica dell’immobile, e dunque del dominio finalistico che su di esso può essere esercitato dal proprietario; b) dell’interesse al mutamento di un bene che, restando nella titolarità giuridica del proprietario e non dell’autore della condotta, normalmente corrisponde a quello del primo.
        4.7. La gravità dell’indizio può risentire di molteplici variabili; per esempio, alla disponibilità giuridica può non corrispondere il possesso e dunque l’effettiva disponibilità materiale dell’immobile (si pensi ai casi di usucapione che legislativamente presuppongono la dissociazione tra il diritto e l’esercizio effettivo delle facoltà che lo caratterizzano, ivi compreso lo “ius aedificandi”). Non sempre, inoltre, il principio del “cui prodest" trova univoco fondamento nella possibilità, espressamente riconosciuta al titolare del diritto reale di godimento, di apportare modifiche all’immobile o nel fatto stesso che la legge riservi al proprietario la scelta tra il ritenere l’opera effettuata senza il suo consenso e chiederne l’eliminazione. Si pensi, inoltre, alle infinite possibilità - pur regolate dalla legge - che ha il conduttore o l’affittuario del bene di effettuare modifiche agli immobili di proprietà altrui senza nemmeno il consenso del proprietario. Del resto, nemmeno l’intima adesione del proprietario alla condotta altrui è sufficiente a fondare l’affermazione della responsabilità penale a titolo di concorso nel reato, se essa non si trasforma in un contributo morale effettivo all’altrui illecita condotta.
        4.8. La titolarità del diritto reale determina, insomma, una signoria “legale” che non sempre corrisponde, nei fatti, ad un dominio effettivo sul bene che ne è oggetto e non autorizza pertanto suggestive quanto automatiche attribuzioni al titolare del diritto di ogni modificazione del bene stesso, automatismo escluso persino dal legislatore (cfr., sul punto, la disciplina civilistica delle accessioni nei casi, in particolare, previsti dagli artt. 936 e 937, cod. civ.). E’ piuttosto il possesso inteso in senso civilistico, quale potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale (art. 1140, cod. civ.), che da questo punto di vista esprime forse meglio di ogni altra la situazione di dominio effettivo sul bene.
        4.9. Vertendosi in tema di responsabilità penale, l’informazione probatoria derivante dalla titolarità del diritto reale sul bene deve essere filtrata alla stregua dei principi dettati in materia dal codice di rito e, prima ancora, dalla presunzione di innocenza prevista dall’art. 27, Cost..
        4.10. I criteri di imputazione oggettiva e soggettiva dell’abuso edilizio non vanno dunque ricercati in base ad astratte categorie civilistiche ma nel rigoroso rispetto del principio di personalità della responsabilità penale.
        4.11. In sede penale la proprietà (o comunque la titolarità di un diritto reale) sul bene abusivamente realizzato o modificato costituisce, come detto, un’informazione probatoria, un indizio (grave, non sempre univoco) di colpevolezza, non la sua prova.
        4.12. Questa Corte, quale giudice non del fatto, ma delle regole e della logica che presiedono alla sua ricostruzione, ha nel tempo fornito, senza pretesa di completezza, una serie di elementi dalla cui valutazione congiunta si può ragionevolmente desumere, oltre ogni ragionevole dubbio, la piena partecipazione (o compartecipazione) del proprietario alla realizzazione dell’immobile abusivo.
        4.13. Si è così giustamente affermato, in termini generali, che la responsabilità del proprietario per la realizzazione di costruzione abusiva deve essere ricostruita sulla base di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti, desumibili certamente anche dalla disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dal suo interesse specifico alla realizzazione del manufatto ivi esistente, pure allo stesso appartenente in virtù della disciplina civilistica dell’accessione (Sez. 3, n. 35376 del 24/05/2007, De Filippo, Rv. 237405, che ha anche sostenuto che in tal caso l’affermazione della responsabilità del proprietario può essere affermata in mancanza di ogni altra contraria risultanza probatoria).
        4.14. L'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta anche dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo "in loco" e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella, Rv. 261522; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253065), oppure dalla presentazione di una denunzia di inizio di opere di manutenzione ordinaria e dalla successiva domanda di sanatoria delle opere realizzate (Sez. 3, n. 33487 del 05/07/2006, Laforè, Rv. 235124; sul positivo apprezzamento della presentazione di istanze per la realizzazione di opere edilizie di portata di gran lunga minori di quelle realizzate, unitamente alla presenza “in loco”, si veda anche Sez. 3, n. 32856 del 13/07/2005, Farzone, Rv. 232200).
        4.15. Si può riassuntivamente affermare, parafrasando il principio già espresso da Sez. 3, n. 216 del 08/10/2004, Fucciolo, Rv. 230660, che ai fini della configurabilità della responsabilità del proprietario del fondo sul quale risulta realizzato un manufatto abusivo può tenersi conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (in applicazione del principio del "cui prodest"), ma altresì dei rapporti di parentela o di affinità tra esecutore dell'opera abusiva e proprietario, dell'eventuale presenza "in loco” di quest'ultimo, dello svolgimento di attività di materiale vigilanza dell'esecuzione dei lavori, della richiesta di provvedimenti abilitativi successivi, del regime patrimoniale dei coniugi, e complessivamente di tutte quelle situazioni e comportamenti, sia positivi che negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove di una compartecipazione, anche solo morale, all'esecuzione delle opere da parte del proprietario.
        4.16. Quel che però deve essere chiaro è che non esiste un catalogo predefinito di indizi dai quali poter univocamente trarre la conclusione della responsabilità del (com)proprietario per gli abusi edilizi commessi nell’area di sedime o sull’immobile di (com)proprietà.
        4.17. Al di là di mere indicazioni che, come detto, in ossequio alla funzione di legittimità di questa Corte non possono che risolversi nella verifica della idoneità di concetti (quali il pieno dominio sul bene e l’interesse alla realizzazione dell’abuso) che validamente possono esprimere il dominio finalistico dell’azione, resta il dato di fondo che l’elaborazione giurisprudenziale, non diversamente da tutti gli altri casi, è stata sempre volta a verificare la non manifesta illogicità del ragionamento che dal fatto noto vuole trarre conclusioni ignote ma le direttrici principali di questo ragionamento non devono costituire il mezzo per eludere il principio della responsabilità personale da reato e della sua affermazione oltre ogni ragionevole dubbio.
        4.18. E’ comunque necessario che l’azione appartenga al proprietario sotto ogni profilo, oggettivo (e dunque causale) e soggettivo, e che in questa delicata opera ricostruttiva il Giudice penale si conformi ai principi di diritto penale sostanziale utilizzando gli arnesi probatori forniti esclusivamente dal codice di rito.
        4.19. Nel caso di specie i Giudici di merito hanno fondato il proprio convincimento circa la responsabilità della ricorrente sulla base di dati di fatto, il cui travisamento - come detto - non è stato correttamente dedotto, e di argomentazioni che sfuggono alle censure proposte con il secondo motivo. La titolarità catastale del bene, l’invio di un delegato al sopralluogo, il rapporto di affinità con quest’ultimo, la circostanza che l’area era accessibile da un cancello chiuso a chiave, la residenza dell’imputata nello stesso comune, l’importanza dell’opera, sono elementi dai quali i Giudici di merito hanno tratto, in modo tutt’altro che illogico, il convincimento della committenza dell’opera da parte della ricorrente la quale non può, in questa sede, dedurre il malgoverno della fattispecie incriminatrice per l’assenza di alcuni degli indici rivelatori della sua responsabilità (la fisica presenza al sopralluogo, la mancanza di richieste amministrative o di sanatorie). A parte il fatto che la presenza al sopralluogo è stata assicurata da persona delegata dalla stessa ricorrente, va ribadito che gli elementi in base ai quali inferire la committenza non costituiscono un “numerus clausus” di prove legali tipiche la mancanza di uno dei quali determina automaticamente la mancanza di prova della responsabilità. E del resto, la ricorrente si limita, con il secondo motivo, a dedurre l’erronea applicazione del (testualmente) d.P.R. n. 380 del 2001, senza nemmeno indicare la specifica norma violata, né eventuali vizi della motivazione che questa Corte, in ossequio al principio devolutivo, non può ricavare d’ufficio dalle pieghe del ricorso.   

        20. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa della ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 19/01/2022.