Cass. Sez. III n. 11518 del 15 Marzo 2019 (Up 23 gennaio 2019)
Pres. Sarno Est. Ramacci Ric. Guinizio  
Acque.Autorizzazione allo scarico

L’apertura o, comunque, l’effettuazione di uno scarico richiede il preventivo rilascio di una formale, espressa autorizzazione rilasciata dalle competenti autorità sulla base dei criteri e nelle forme indicate dalla legge e non ammette equipollenti. Anche per quanto concerne la disciplina in tema di inquinamento idrico, la finalità dell’autorizzazione non è soltanto quella di permettere l’apertura e l’effettuazione dello scarico, ma anche di porre l’amministrazione competente nelle condizioni di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il rilascio del titolo abilitativo ed effettuare ogni successiva attività di controllo e prevenzione, con la conseguenza che l’apertura o l’effettuazione di uno scarico in assenza dell’autorizzazione denota una effettiva offensività della condotta, in quanto determina una evidente lesione dell’interesse protetto dal precetto penale.


RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d'Appello di Milano, con sentenza del 17 maggio 2018 ha parzialmente riformato la decisione con la quale, il 29 giugno 2017, il Tribunale di quella città aveva affermato la responsabilità penale Domenico Rocco GUINZIO e della BONAUDO s.p.a., assolvendo il primo del reato di cui al capo b) dell'imputazione a norma dell'art. 131-bis cod. pen., ritenuto il fatto di particolare tenuità e confermando, nel resto, la sentenza impugnata.
L’imputazione concerneva, al capo a), la violazione dell'art. 137, comma 5, primo periodo, d.lgs. 152/2006, perché il GUINZIO, in qualità di procuratore delegato ambientale della società BONAUDO s.p.a, nell’effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura, generata dal attività di concia, tintura e finitura di pelli, superava il valore limite fissato nella Tabella 3 dell'Allegato 5 alla Parte Terza del predetto decreto in relazione alla sostanza “cromo totale”, compresa tra quelle di cui alla Tabella 5 dell'Allegato 5 alla Parte Terza dello stesso decreto, concentrazione accertata 29,2 mg/l, come da campionamento in data 15 marzo 2012 (fatto commesso in Cuggiono. Reato dichiarato estinto per prescrizione nel giudizio di primo grado).
Il capo b), sempre riferito al GUINZIO, riguardava la violazione di cui all'art. 137, comma 2 in relazione al comma 1 del d.lgs. 152/06, perché costui, nelle medesime qualità, effettuava uno scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura, contenenti sostanze pericolose comprese tra quelle di cui alla Tabella 5 dell'Allegato 5 alla Parte Terza del predetto decreto, generate dell'attività di concia, tintura e finitura pelli esercitata nel suddetto impianto, in assenza della prescritta l'autorizzazione (fatto commesso in Cuggiono, in permanenza fino al 17 giugno 2014, data di rilascio del titolo).
Alla società BONAUDO s.p.a, erano invece ascritti, ai capi c) e d) della rubrica, gli illeciti di cui all'art. 25-undecies, comma 2, lett. a), punto 1 e 25-undecies, comma 2, lett. a), punto 2 d.lgs. 231/01, per la responsabilità, in via amministrativa, di fatti commessi dal GUINZIO nell'interesse o, comunque, a vantaggio della società ed in assenza delle cause di esclusione della responsabilità di cui all'art. 5, comma 2 del d.lgs. 231/01.

2. Avverso tale pronuncia Domenico Rocco GUINZIO e la BONAUDO s.p.a. propongono separati ricorsi per cassazione tramite il comune difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.  

3. Ricorso di  Domenico Rocco GUINZIO
Con il primo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 47 cod. pen., assumendo che l'imputato avrebbe dovuto essere assolto in quanto incorso in un errore inevitabile e scusabile.
Osserva che la corte territoriale, pur argomentando in senso astrattamente corretto e seguendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il quale, per l'affermazione la scusabilità dell'ignoranza, richiede che da un comportamento positivo degli organi amministrativi l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto, avrebbe però tralasciato comunque di considerare le evidenze fattuali emerse durante l'istruttoria dibattimentale e documentate nel corso del giudizio di primo grado.
Osserva, in particolare, che la società avrebbe ricevuto una deroga ai limiti tabellari degli scarichi relativamente ad alcune sostanze, tra cui il cromo totale, pur in assenza della formale autorizzazione e che lo scarico sarebbe stato ripetutamente sottoposto a controlli e prelievi routinari, così come un teste escusso, dipendente dell’amministrazione comunale, avrebbe riferito che il mancato rilascio dell'autorizzazione formale era stato un suo errore e che esisteva una prassi diffusa per cui, con il tacito consenso dei funzionari comunali, una volta ottenuti i pareri necessari, i privati richiedenti iniziavano ad esercitare lo scarico in attesa che l’amministrazione formalizzasse l'autorizzazione, la quale, nel caso di specie, sarebbe stata ormai dovuta, avendo tutti gli enti preposti dato parere favorevole al rilascio.
Si tratterebbe, dunque, di una situazione tale da ingenerare un errore scusabile erroneamente escluso, invece, dai giudici dell'appello.

3.1. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge in relazione alla necessaria sussistenza dell'offensività della condotta, da considerarsi anche con riferimento ai reati di pericolo presunto, quali quelli contestati nella fattispecie.
Rileva che entrambe le condotte contestate all'imputato sarebbero inidonee a porre in pericolo il bene giuridico tutelato.
Segnatamente, per quanto concerne la mancanza di autorizzazione allo scarico di cui al capo b) dell’imputazione, sarebbe pacifico che la carenza del documento formale fosse esclusivamente un adempimento meramente burocratico e tutti i controlli in merito alla sussistenza dei requisiti richiesti per l'esercizio dello scarico sarebbero stati posti in essere, come emergerebbe da una serie di dati fattuali puntualmente indicati.
Assume, inoltre, anche la violazione dell'articolo 131-bis cod. pen., facendo rilevare come, nella fattispecie, si vertesse in ipotesi di immissione occasionale, non configurante alcuna offesa al bene giuridico tutelato, trattandosi di un evento del tutto anomalo ed eccezionale.

3.2. Con un terzo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dei reati contestati, osservando che la Corte territoriale si sarebbe limitata a riproporre le argomentazioni offerte dal giudice di primo grado senza esprimere una propria posizione sulle censure proposte con l'impugnazione, segnatamente in ordine alla prova della consapevolezza, in capo all’imputato, della carenza dell'atto autorizzativo, circostanza che avrebbe escluso la sussistenza dell'elemento soggettivo e che avrebbe consentito l’assoluzione dell'imputato quantomeno ai sensi del comma 2 dell'articolo 530 cod. proc. pen.  

4. Ricorso della BONAUDO s.p.a.
Con un primo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui motiva la sussistenza della cosiddetta colpa di organizzazione in capo alla società.
Osserva, a tale proposito, che la Corte territoriale sarebbe giunta a conclusioni identiche a quelle espresse dal Tribunale nella sentenza di primo grado, sostenendo che l'omessa adozione del modello di organizzazione e gestione da parte dell'ente sarebbe, di per sé, costitutivo della cosiddetta colpa di organizzazione in capo alla società. Il fatto che la società si sia dotata di un sistema di controlli di procedure, di procure e deleghe per la prevenzioni fatti analoghi a quelli del presente giudizio sarebbe, inoltre, privo di alcun valore.
Censura, tuttavia, tale assunto, osservando che il d.lgs. 231/2001 non stabilisce in alcun modo l’obbligo, per gli enti, di adottare i modelli organizzativi, i quali costituiscono esclusivamente una condizione esimente della responsabilità, con la conseguenza che l'omessa adozione di questo modello non può costituire automaticamente una responsabilità dell'impresa, dovendosi individuare l'elemento soggettivo di responsabilità dell'ente nella colpa e ben potendo l’ente interessato dimostrare, al fine di non incorrere in sanzioni, di avere adottato le misure necessarie ad impedire la commissione di reati del tipo di quello realizzato.
Osserva, a tale proposito, che detta prova sarebbe stata ampiamente fornita dalla società nel corso dell'istruzione dibattimentale, come emerge da una serie di dati fattuali puntualmente indicati e rileva come la circostanza relativa al superamento dei limiti tabellari sarebbe inusuale e del tutto eccezionale, come riconosciuto dai giudici del merito e pacificamente emerso a seguito dell’escussione dei testi in giudizio.
Quanto al capo d) dell'imputazione, osserva che, sebbene l'autorizzazione allo scarico, fino al 17 giugno 2014, non sia stata materialmente nella disponibilità della società, risulterebbe del tutto evidente che la stessa ne disponesse di fatto e che nulla potesse farle immaginare di non averla conseguita, come emergerebbe, anche in questo caso, da una serie di elementi fattuali che vengono puntualmente indicati e che sarebbero confermati dalle dichiarazioni rese nel dibattimento dei testi dell'accusa e della difesa.
Aggiunge che l’erronea convinzione dell'esistenza dell'autorizzazione non sarebbe stata determinata da colpa di organizzazione, ma da plurimi fatti positivi dell'autorità amministrativa, la quale, dal 2004 al 2012, aveva, in modo continuativo, emanato una pluralità di statuizioni tali da ingenerare un legittimo affidamento in ordine alla liceità dell'attività svolta dalla società.

4.1. Con un secondo motivo di ricorso censura la sentenza impugnata nella parte in cui motiva la sussistenza dei requisiti dell'interesse e vantaggio in capo alla società, osservando che, in mancanza di pronunce sulla specifica materia in esame, vanno considerati i principi espressi dalla giurisprudenza in tema di reati colposi derivanti da infrazioni della normativa antinfortunistica, sulla base dei quali avrebbe dovuto escludersi la responsabilità dell'ente.
Considerando tali principi, evidenzia che la sentenza della Corte d'Appello sarebbe viziata da contraddittorietà e manifesta illogicità nella parte in cui afferma, con riferimento al superamento del valore limite fissato per lo scarico del cromo totale, che l'interesse e vantaggio ricavato dall'ente consisterebbe nei cospicui risparmi conseguenti alla mancata installazione dei filtri necessari all'impianto di depurazione, poiché tale affermazione sarebbe apodittica ed in contrasto con quanto in precedenza dichiarato dalla stessa Corte laddove si sostiene che il superamento dei limiti era derivato da un evento inusuale e del tutto raro, ovviabile con accorgimenti alquanto semplici, dai costi non ingenti e certamente sostenibili dalla società.
Evidenzia, poi, di aver adottato una serie interventi di gestione e manutenzione, sostenendo costi per oltre 3.000.000 di euro, dovendosi conseguentemente escludere che l'intenzione di voler risparmiare nelle cautele e la mancata adozione di accorgimenti semplici e dai costi non ingenti abbiano rappresentato, per la società, un interesse o un vantaggio.
Rileva, inoltre, che considerazioni analoghe devono effettuarsi con riferimento allo scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura senza autorizzazione, rispetto al quale la Corte territoriale avrebbe individuato l'interesse e vantaggio, sempre con affermazione apodittica, negli utili connessi alla produzione aziendale, i quali non sarebbero stati realizzati se la società avesse sospeso o interrotto l'attività aziendale fino al conseguimento dell'autorizzazione, senza spendere neppure una parola sulla asserita consapevolezza della BONAUDO circa l’assenza di autorizzazione.

4.2. Con un terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge nella parte in cui esclude il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 12, comma 3 d.lgs. 231/2001 per la non configurabilità dell'attenuante di cui all’art. 12, comma 2, lett. a) del medesimo decreto, osservando, quanto alle condotte risarcitorie richieste dalla norma, che la lesione al bene giuridico tutelato cagionata dalle condotte ascritte alla società non avrebbe dato luogo ad alcuna lesione patrimoniale o non patrimoniale economicamente risarcibile e, quindi, tale condotta non poteva ritenersi esigibile.
Quanto alle condotte riparatorie, l'ottenimento, da una parte, dell'autorizzazione allo scarico  e, dall’altra, l'installazione di un sistema di filtri a sabbia e carboni attivi, atti ad impedire il fenomeno del fenomeno del trascinamento accidentale dei fanghi non sedimentati, avrebbero dovuto pienamente ritenersi condotte riparatorie finalizzate ad eliminare il pericolo di lesioni del bene giuridico tutelato dalla norma penale, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.

4.3. Con un quarto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione all'ente della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Richiamato il contenuto di una sentenza di questa Corte successiva al deposito dell'atto di appello, osserva di aver formulato alla Corte territoriale la richiesta di applicazione della causa di non punibilità, la quale non avrebbe potuto essere dedotta nei motivi scritti di appello e che su tale richiesta la Corte territoriale non si sarebbe pronunciata.

4.5. Con un quinto motivo di ricorso deduce l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2 d.lgs. 16 marzo 2015 n. 28 nella parte in cui non prevede l'applicabilità della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai soggetti di cui all'art. 1 del d.lgs. 231/2001 per violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione e della finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione.
Entrambi insistono, pertanto, per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili, perché basati su motivi manifestamente infondati.

2. Occorre preliminarmente osservare che i giudici dell’appello, nel dare conto delle ragioni che li hanno condotti alla decisione oggetto di ricorso per cassazione, hanno premesso un positivo apprezzamento sulla accuratezza della decisione di primo grado e sulla completa analisi, effettuata dal Tribunale, delle deduzioni difensive, pervenendo così ad un richiamo per relationem della decisione appellata pienamente legittimo.
Invero, va riconosciuta al primo giudice una meticolosità nella disamina delle questioni trattate ed  una attenzione alla elaborazione normativa e giurisprudenziale su una materia così complessa, quale quella del diritto ambientale, che può definirsi non usuale e che ha, dunque, consentito alla Corte territoriale di uniformarsi, tanto per la ratio decidendi, quanto per gli elementi di prova, agli stessi argomenti valorizzati dal primo giudice.
Di tale evenienza deve pertanto tenersi conto nell’esaminare i motivi posti a sostegno delle impugnazioni di entrambi i ricorrenti, poiché, dalla lettura degli stessi, risulta evidente che i contenuti della decisione di primo grado vengono per lo più ignorati o, comunque, lasciati in secondo piano - nonostante il richiamo effettuato nella sentenza impugnata determini una sostanziale saldatura della struttura motivazionale della sentenza di appello con quella del primo giudice, tale da formare un unico, complessivo corpo argomentativo – lamentando carenze motivazionali in realtà insussistenti ed utilizzando, a sostegno delle censure proposte, riferimenti a dati fattuali che non possono avere ingresso nel giudizio di legittimità e la prospettazione di una personale ed alternativa valutazione delle emergenze processuali che, tuttavia, risulta del tutto destituita di fondamento.

3. Fatta tale premessa, deve rilevarsi, con riferimento al primo motivo del ricorso di Domenico Rocco GUINZIO, che le argomentazioni volte a sostenere l’erronea esclusione, da parte dei giudici del merito, della sussistenza della causa di non punibilità di cui all’art. 47 cod. pen., in ragione dell’erronea convinzione, da parte dell’imputato, dell’esistenza di un valido titolo abilitativo, risultano del tutto destituite di fondamento.
Le considerazioni svolte nel motivo di impugnazione ripropongono questioni già considerate nel giudizio di merito e correttamente risolte attraverso l’indicazione di dati fattuali inequivocabilmente indicativi della insussistenza di un errore scusabile che la Corte territoriale ha opportunamente richiamato.
Della questione, peraltro, si era diffusamente occupato il Tribunale (pag. 12 e ss. della sentenza di primo grado) dando conto, sulla base di precise circostanze, del fatto che l’assenza di autorizzazione era ben nota alla società, così come le era nota la illegittimità della prassi, seguita dall’amministrazione comunale, di consentire lo scarico in fognatura prima del formale rilascio de titolo abilitativo, osservando anche che era onere dell’imputato, all’atto della ricezione della delega di funzioni, di assicurarsi della disponibilità di una formale autorizzazione allo scarico.
Va pure rilevato che l’accertamento dei fatti valorizzati nel giudizio di merito, assistito da motivazione scevra da cedimenti logici o manifeste contraddizioni e, in quanto tale, non censurabile in questa sede, è stato preceduto, nel giudizio di primo grado, da un corretto esame della disciplina di settore e della giurisprudenza in tema.

4. Invero, è il caso di ribadirlo, l’articolo 124, d.lgs. 152/06 prevede la necessaria, preventiva autorizzazione per tutti gli scarichi, indicando anche la procedura per il suo rilascio e tale titolo abilitativo, come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, non può essere sostituito da equipollenti, quali (come pure ricordato dal Tribunale) i pareri o nulla osta dei servizi comunali, che rivestono natura meramente interna al provvedimento (Sez. 3, n. 11556 del 6/10/1994, P.M. in proc. Martino, Rv. 200521); l’autorizzazione sanitaria (Sez. 3, n. 2078 del 7/5/1996, Cilento, Rv. 206812, non massimata sul punto e relativa ad attività di caseificio. V. anche Sez. 3, n. 2877 del 21/12/2006 (dep. 2007), Camurati, Rv. 235880).
Come si desume dalla semplice lettura degli artt. 124 e 125 d.lgs. 152/06, il rilascio del titolo abilitativo presuppone una serie di adempimenti.
Si pensi, ad esempio, alla necessità dell’indicazione delle caratteristiche, anche tecniche, dello scarico e della sua destinazione finale (art. 125, comma 1); alla possibilità di stabilire prescrizioni e limiti per particolari tipologie di scarico in presenza di determinate condizioni (art. 124, comma 8), ovvero in relazione alle caratteristiche tecniche dello scarico, alla sua localizzazione e alle condizioni locali dell'ambiente interessato (art. 124, comma 10); alla necessità del versamento della somma di cui al comma undicesimo dell’articolo 124, nonché alle verifiche che caratterizzano lo specifico procedimento amministrativo, sicché non può ritenersi sostituibile da altri atti o provvedimenti rilasciati per finalità diverse ed all’esito di procedure stabilite da altre disposizioni normative.
A maggior ragione, non assumono alcuna validità taciti assensi o illegittime prassi eventualmente applicate dalle amministrazioni competenti.
Scopo dell’autorizzazione è, infatti, quello di consentire una preventiva verifica della rispondenza di un’attività, potenzialmente pericolosa per l’ambiente, a quanto stabilito dalla legge.

5. Ne consegue che l’apertura o, comunque, l’effettuazione di uno scarico richiede il preventivo rilascio di una formale, espressa autorizzazione rilasciata dalle competenti autorità sulla base dei criteri e nelle forme indicate dalla legge e non ammette equipollenti.

6. Sulla base di quanto appena affermato, appare evidente anche la infondatezza del secondo motivo di ricorso, laddove si sostiene la mancanza di inoffensività della condotta di scarico in assenza di titolo abilitativo, il cui rilascio viene definito un “mero adempimento burocratico”.
Occorre richiamare, a tale proposito, quanto già osservato, peraltro da lungo tempo, dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di inquinamento atmosferico in relazione all’analogo reato formale di pericolo presunto di cui all’art. 25, comma primo, dell’ormai abrogato d.P.R. 203/1988, ricordando come l’autorizzazione richiesta da quella disposizione fosse finalizzata alla realizzazione di un controllo anticipato, da parte delle autorità competenti, anche per le emissioni degli impianti esistenti, con evidente scopo  di  prevenzione (Sez. 3, n. 2321 del 11/12/1991 (dep. 1992), Forte, Rv. 189887. V. anche Sez. 1, n. 5702 del 12/4/1996, P.M. in proc. Mazzi, Rv. 205269; Sez. 3, n. 13143 del 28/1/2005, Orsini ed altro, Rv. 231216; Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012 (dep. 2013), Rando, Rv. 254335 e, con riferimento alla disciplina attualmente in vigore, Sez. 3, n. 28764 del 9/6/2015, P.M. in proc. Amoruso e altri, Rv. 264881) e ciò in quanto la legge assume un concetto ampio di inquinamento atmosferico, con la conseguenza della sottoposizione alla disciplina normativa di tutte le attività da cui derivi anche soltanto uno degli effetti  contemplati:  alterazione delle normali condizioni ambientali, alterazione  della  salubrità,  pericolo o danno alla salute, alterazione di risorse  biologiche  ed ecosistemi, compromissione di usi legittimi da parte di terzi.  Pertanto, si concludeva, per aversi inquinamento atmosferico non è necessario il pericolo  di danno alla salute dell'uomo, per la presenza di sostanze inquinanti o tossiche o nocive, ma e' sufficiente che l'alterazione dell'atmosfera incida negativamente sui beni naturali o anche semplicemente sull'uso di essi (Sez. 3, n. 2321 del 11/12/1991 (dep. 1992), Forte, Rv. 189887, cit. V. anche ).                                              
In altre pronunce si è precisato che l’autorizzazione ha lo scopo evidente di consentire la verifica della rispondenza dell’intervento eseguito con le finalità di tutela dell’ambiente perseguite dalla legge, sicché deve intervenire prima dell’esecuzione dell’intervento ed è escluso, proprio in considerazione delle finalità che essa persegue, che il rilascio di un’autorizzazione postuma possa avere efficacia sanante della violazione (Sez. 3, n. 11836 del 18/11/1997, Pasini, Rv. 209340).
In modo più dettagliato, in altra sentenza (Sez. 3, n. 3589 del 13/3/1996, Sacerdote, Rv. 205781) si è affermato che, nel settore ambientale, l'autorizzazione svolge non solo una funzione abilitativa, cioè di rimozione di un ostacolo all'esercizio di alcune facoltà,  ma  assume  anche  un ruolo di controllo del rispetto della normativa e dei correlati standard e consente il cosiddetto monitoraggio ecologico, sicché  la  mancanza  di detto provvedimento incide su alcuni interessi protetti dal precetto penale. Perciò l'omessa valutazione della P.A. impedisce quella  conoscenza ed informazione ambientale e quel controllo sull'attività cui sono  deputati il procedimento autorizzatorio e le relative sanzioni in caso di disobbedienza a questi precetti, comportando quindi una effettiva conseguenza  pericolosa,  in quanto conoscenza ed informazione sono strumenti necessari  per  la prevenzione (in senso conforme, Sez. 3, n. 56281 del 24/10/2017, Carnazzola, Rv. 272422).   
Inoltre, sempre con riferimento a reati ambientali formali di pericolo presunto, si è osservato, in altra risalente decisione in tema di prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento di cui al non più vigente d.lgs. 4 agosto 1999 n. 372, che il principio di offensività non può dirsi limitato solo ai reati che presentino, nella loro struttura normativa, un evento offensivo (Sez. 3, n. 44161 del 23/10/2001, Zucchini A, Rv. 220624. V. anche, con riferimento alla disciplina attualmente vigente, Sez. 3, n. 4346 del 17/12/2013 (dep. 2014), Roda, Rv. 259247).
Delle concrete finalità di controllo perseguite dal legislatore attraverso la sottoposizione a preventiva autorizzazione di determinate attività potenzialmente pericolose per l’integrità dell’ambiente viene dato conto anche in quelle pronunce ove si è evidenziato che il possesso di un titolo abilitativo per la effettuazione di una determinata attività (nella fattispecie, gestione di rifiuti) non ne legittima l'esercizio in luogo diverso da quello in relazione al quale risulta rilasciata l'autorizzazione, in quanto le finalità di controllo perseguite in materia risultano soddisfatte solo se sussiste legame con le caratteristiche tecniche dell'impianto per il quale il provvedimento abilitativo risulta inizialmente rilasciato (v. Sez. 3, n. 20460 del 27/3/2007, Bonacorsi, Rv. 236743; Sez. 3, n. 554 del 4/12/2001 (dep.2002), Francavilla G, Rv. 220850).

7. Tali principi, pienamente condivisibili ed ancora attuali, sono senz’altro applicabili anche alle disposizioni in materia di inquinamento idrico, sottoposte anch’esse a regime autorizzatorio avente finalità analoghe a quelle perseguite dalle disposizioni dianzi richiamate.
Anche nel caso dello scarico di reflui il legislatore ha effettuato una prognosi di pericolosità, assoggettando a preventiva autorizzazione, il cui rilascio presuppone la presenza di determinate condizioni, un’attività ritenuta potenzialmente pericolosa per l’integrità dell’ambiente in genere e delle risorse idriche in particolare.  
Va aggiunto che la dimostrazione del particolare rilievo attribuito alle esigenze di salvaguardia dell’ambiente e l’interesse del legislatore ad un accurato controllo degli scarichi è data non soltanto dalla complessità del procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del titolo abilitativo, ma anche dalla previsione di una efficacia temporale dello stesso e di un periodico rinnovo (art. 124, comma 8 d.lgs.  152/06).

8. Deve conseguentemente affermarsi, anche per quanto concerne la disciplina in tema di inquinamento idrico, che la finalità dell’autorizzazione non è soltanto quella di permettere l’apertura e l’effettuazione dello scarico, ma anche di porre l’amministrazione competente nelle condizioni di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il rilascio del titolo abilitativo ed effettuare ogni successiva attività di controllo e prevenzione, con la conseguenza che l’apertura o l’effettuazione di uno scarico in assenza dell’autorizzazione denota una effettiva offensività della condotta, in quanto determina una evidente lesione dell’interesse protetto dal precetto penale.
 
9. Venendo al caso in esame, deve pertanto decisamente escludersi, in linea generale, che la mancanza del titolo possa ricondursi nell’alveo di un mero inadempimento formale.
Il ricorrente rileva, tuttavia, che una tale situazione possa ritenersi verificata nella fattispecie, poiché sussistevano in astratto tutte le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione, mancando il solo il provvedimento formale.
La infondatezza dell’assunto è evidente, se solo si consideri quanto si è appena detto in relazione alle finalità dell’autorizzazione ed alla complessa procedura che precede al suo rilascio.
Invero, non soltanto è mancata una formale attestazione delle condizioni per il rilascio del titolo da parte dell’amministrazione competente, ma l’assenza dell’autorizzazione ha precluso la eventuale imposizione di specifiche prescrizioni, la complessiva attività di “monitoraggio ecologico” che la legge richiede, circa la permanenza delle condizioni che hanno consentito il rilascio del titolo ed il rispetto dei termini di efficacia stabiliti dalla legge per il titolo medesimo e, cioè, tutti quegli adempimenti finalizzati, come si è detto, alla sottoposizione di attività potenzialmente pericolose per l’integrità dell’ambiente ad una disciplina rigorosa e puntuali controlli.
Quanto in precedenza evidenziato appare, inoltre, di maggiore evidenza laddove si consideri il diverso reato, pure contestato, relativo all’effettuazione dello scarico con superamento dei limiti di legge.

10. La questione della offensività della condotta in tali ipotesi è stata da tempo valutata, osservando, con riferimento all’ormai abrogata legge 319/1976, che in tali casi il reato è integrato dal mero sforamento tabellare, in quanto un danno all'ambiente, in tali ipotesi, è presunto per legge, con la conseguenza  che non è logicamente possibile - senza scardinare il sistema, aprendolo a possibili gravi oscillazioni operative con diversità di trattamento tra operatori - dedurre la non offensività della trasgressione in concreto basata sulla natura limitata o temporanea della violazione (così Sez. 3, n. 10578 del 1/10/1993, Pizzocaro, Rv. 196448. Ma si vedano anche Sez. 3, n. 4346 del 17/12/2013 (dep.2014), Roda, Rv. 259247 in tema di rifiuti, Sez. 3, n. 44161 del 23/10/2001, Zucchini A, Rv. 220624 in tema di inquinamento atmosferico).
Nella fattispecie, peraltro, il giudice del merito ha anche escluso, con incensurabile accertamento in fatto, la dedotta assoluta non prevedibilità del superamento del limite tabellare, osservando come l’impianto non abbattesse e rimuovesse la totalità della parte solida che, nello specifico, era particolarmente elevata, ma che l’inconveniente avrebbe potuto essere eliminato mediante l’applicazione di filtri a carboni attivi.

11. Alla luce delle considerazioni sopra esposte resta assorbita la questione della applicabilità dell’art. 49, comma 2 cod. pen, pure prospettata dal ricorrente richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale.

12. Infondata, risulta, infine, la dedotta violazione dell’art. 131-bis cod. pen. riferito allo scarico senza autorizzazione (avendo la Corte territoriale riconosciuto la causa di non punibilità in relazione al reato di cui al capo b) della rubrica).
Sul punto, il ricorrente sostanzialmente sovrappone i due reati contestati, attribuendo la riconosciuta accidentalità ed occasionalità della condotta di superamento dei limiti tabellari anche al diverso e concorrente reato di scarico in assenza di autorizzazione, che riconduce a mera immissione occasionale, ritenuta, in quanto tale, priva di rilevanza penale.
L’assunto è palesemente errato.

13. Va ricordato, in primo luogo, come prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 258\2000, l’originario testo del previgente d.lgs. 152\99 prevedesse anche la nozione di "immissione occasionale", contemplata nelle disposizioni relative alle sanzioni.
Contrariamente a quanto avveniva per il concetto di "scarico", del quale il d.lgs. 152\99 forniva una definizione, nulla si diceva in merito alle immissioni occasionali (di cui non fa peraltro menzione neppure il d.lgs. 152\06), sicché si riteneva, in un primo tempo, che l’immissione occasionale non fosse più contemplata come reato con riferimento alla mancanza di autorizzazione, assumendo, al contrario, rilevanza penale in relazione al superamento dei limiti di immissione, come espressamente previsto dall’art. 59, comma 5.
Successivamente veniva tuttavia affermato che la disciplina delle acque doveva trovare applicazione in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue (liquide o semiliquide) in uno dei corpi recettori individuati dalla legge (acque superficiali, suolo, sottosuolo, rete fognaria) effettuato tramite condotta (ovvero tramite tubazioni, o altro sistema stabile) anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale. In ogni altro caso, nel quale venga a mancare il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, restava applicabile la disciplina in tema di rifiuti, ove configurabile (Sez. 3, n. 14425 del 21/1/2004, Lecchi, Rv. 227781)
Dunque, ancora sotto la vigenza del d.lgs. 152/99, era stata riconosciuta la rilevanza penale anche dello scarico occasionale e tale concetto è stato ribadito pure in relazione al vigente d.lgs. 152/06, sostenendo la irrilevanza, in ordine alla nozione di scarico, di considerazioni attinenti alla accidentalità dello scarico stesso o alla sua episodicità (Sez. 3, n. 47038 del 7/10/2015, Branca, Rv. 265554. Conf. Sez. 3, n. 5239 del 15/12/2016 (dep. 2017), Buja, Rv. 268989)
Nel caso di specie, inoltre, non si tratta affatto di scarico occasionale, avendo i giudici del merito accertato che lo stesso, derivante da stabile attività produttiva, era in uso da diversi anni.

14. Inconferente, infine, il richiamo all’art. 131-bis cod. pen., il quale, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, opera su un piano distinto, rispetto al principio di offensività, presupponendo, il primo, un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l'offensività, benché di consistenza talmente minima da ritenersi "irrilevante" ai fini della punibilità ed attenendo, il secondo, al caso in cui l'offesa manchi del tutto, escludendo la tipicità normativa e la stessa sussistenza del reato (così Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015 (dep. 2016), Pezzato e altro, Rv. 265642, ma v. anche Sez. U, n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266589).

15. Manifestamente infondato risulta, infine, il terzo motivo di ricorso.
Si è già detto in premessa della legittimità del richiamo per relationem della sentenza di primo grado operato dai giudici dell’appello.
La questione della consapevolezza, in capo all’imputato, della la carenza dell'atto autorizzativo viene peraltro posta in maniera fuorviante, richiamando testualmente solo una parte della più ampia motivazione della sentenza impugnata, la quale non si limita ad un formale richiamo, ma evidenzia le ragioni per le quali ritiene che all’imputato fosse nota la mancanza del titolo abilitativo, dell’esistenza del quale avrebbe dovuto accertarsi all’atto del conferimento della delega di funzioni, dando conto anche del fatto che, pur avendo avuto formale conoscenza della mancanza di autorizzazione nel 2012, aveva comunque continuato a mantenere in essere lo scarico.
Si tratta di motivazione certamente adeguata, alla quale il ricorrente oppone, ancora una volta, una personale lettura delle emergenze processuali.

16. Altrettanto deve dirsi per ciò che concerne il reato di scarico con superamento dei limiti tabellari, rispetto al quale vengono opposti, nuovamente, argomenti in fatto e per il quale la motivazione della sentenza impugnata risulta esaustiva e corretta nel ribadire quanto già affermato dal primo giudice (e ricordato in precedenza) in ordine alla prevedibilità di ciò che poi è accaduto.

17. Anche il ricorso della della BONAUDO s.p.a. è basato su motivi la cui infondatezza è di macroscopica evidenza.

18. Nel primo motivo di ricorso si afferma, sostanzialmente, che i giudici del merito avrebbero rinvenuto la responsabilità dell’ente esclusivamente sulla base della mancata adozione di modelli di organizzazione e gestione, i quali, però, costituiscono esclusivamente una condizione esimente della responsabilità, con la conseguenza che l'omessa adozione di questo modello non può costituire automaticamente una responsabilità dell'impresa, dovendosi individuare l'elemento soggettivo di responsabilità dell'ente nella colpa, cosa non avvenuta nella fattispecie, avendo la società fornito ampia dimostrazione di avere adottato misure necessarie ad impedire la commissione di reati del tipo di quello realizzato.
La premessa da cui muove la ricorrente è corretta, poiché richiama compiutamente il contenuto dell'art. 6 d.lgs. 231/01, ma viene poi utilizzata per introdurre, come già è avvenuto con il ricorso del GUINZIO, dati fattuali e richiami ad atti e documenti del processo ai quali questa Corte non ha accesso, per proporre, ancora una volta, la propria versione dei fatti.
In realtà i giudici del merito, con motivazione adeguata, dopo aver individuato la posizione del GUINZIO all’interno della società, collocandolo tra i soggetti richiamati dall’art. 5, lett. a) del d.lgs. 231/2001, hanno escluso la sussistenza delle condizioni indicate dall’art. 6 per l’esenzione di responsabilità, ritenendo che le procedure di monitoraggio e controllo adottate dall’ente prima dell’adozione del modello di organizzazione, nel 2016, non fossero idonee a prevenire la commissione di reati della specie di quelli per cui si è proceduto.
Il ragionamento svolto dai giudici del merito appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha specificato che il sistema normativo introdotto dal d.lgs. 231/2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un "tertium genus" di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e, nell'affermare tale principio, si è anche chiarito, in tema di responsabilità dell'ente derivante da persone che esercitano funzioni apicali, che grava sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito dell'ente, mentre a quest'ultimo incombe l'onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi (Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261112).
Date tali premesse, deve solo ribadirsi come sia inammissibile una autonoma valutazione da parte di questa Corte degli elementi di fatto già apprezzati dai giudici del merito.

20. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e la motivazione della sentenza impugnata non presenta i vizi denunciati.
La società ricorrente richiama quanto affermato dalla giurisprudenza riguardo ai presupposti previsti dall'art. 5 d.lgs. 231/2001 per l'imputazione della responsabilità, sostenendo che, alla luce di tali principi, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe affetta da contraddittorietà e manifesta illogicità.
Invero, anche in questo caso i giudici del gravame, facendo proprie le argomentazioni già efficacemente formulate dal Tribunale, hanno adeguatamente spiegato come l’esercizio dello scarico in assenza di autorizzazione abbia consentito alla società di continuare a percepire utili dall’attività aziendale, la quale, altrimenti, avrebbe dovuto essere ritardata o interrotta in attesa dell’autorizzazione ed, inoltre, che il superamento del limite tabellare, dovuto al trascinamento di fanghi, era conseguenza della precisa scelta aziendale, basata su un calcolo di costi e benefici, come dimostrato dalle dichiarazioni di un teste, di non adottare accorgimenti idonei ad evitare un simile accadimento.
Si tratta di argomentazioni del tutto coerenti, né può dirsi che i giudici dell’appello cadano in contraddizione quando trattano della mancata predisposizione dei filtri, la cui presenza avrebbe evitato il superamento dei limiti tabellari, poiché dell’oggettiva sussistenza di un vantaggio i giudici del merito danno comunque atto ed il fatto che, a pag, 4 della motivazione, i costi delle modifiche siano definiti come “non ingenti e certamente sostenibili dalla società”, mentre, a pag. 8, si fa riferimento a “risparmi cospicui” quale conseguenza della mancata installazione, resta un dettaglio secondario, legato ad una mera scelta lessicale che, tuttavia, consente di ben comprendere il senso di quelle affermazioni, chiaramente intese a porre in evidenza, nel primo caso, che la predisposizione dell’accorgimento tecnico era possibile senza una incidenza particolarmente significativa sul patrimonio della società, mentre, nel secondo, che i risparmi derivanti dalla scelta aziendale non erano indifferenti ma presentavano una consistenza tale da giustificarla.    
Quanto al fatto che l’assenza dell’autorizzazione fosse ben nota si è già detto in precedenza.

21. Per ciò che concerne, poi, il terzo motivo di ricorso, deve rilevarsi che il Tribunale ha applicato alla società l’attenuante di cui all’art. 12, comma 2, lett. b) d.lgs. 231/2001, avendo la società dimostrato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di aver adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quelli verificatisi. Ha invece escluso la sussistenza dell’ipotesi di cui alla lettera a) del medesimo comma, non risultando alcuna condotta riparatoria posta in essere dall’ente.
La concorrenza delle due condizioni, che avrebbe consentito, ai sensi del comma 3 dell’art. 12, di applicare una riduzione della sanzione dalla metà a due terzi, è stata esclusa dalla Corte territoriale per le medesime ragioni evidenziate dal primo giudice.
La decisione è corretta.
L’attenuante di cui all’art. 12, comma 2, lett. a) d.lgs. 231/2001 presuppone che l'ente abbia risarcito integralmente il danno ed abbia eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso.
Nulla di ciò risulta accertato in fatto nel giudizio di merito, come rilevato dal Tribunale prima e dalla Corte di appello poi e nessuna delle condotte poste in essere e valutate ai fini della lettera b) del medesimo art. 12, comma 1, poteva essere ricondotta nell’alveo delle condotte risarcitorie e riparatorie di cui alla lettera a).

22. Per ciò che concerne il quarto motivo di ricorso, deve osservarsi che lo stesso prende spunto dal contenuto di una decisione di questa Corte (Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017 (dep. 2018), P.G. in proc. Ficule, Rv. 272447) i cui contenuti vengono ricordati, richiamando anche il principio di diritto affermato, giungendo tuttavia alla errata conclusione, frutto della personale lettura della decisione richiamata, secondo la quale con essa si sarebbe implicitamente riconosciuta al giudice del merito la possibilità di ritenere il fatto addebitato all’ente di particolare tenuità escludendone la punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
Si censura, conseguentemente, la mancata pronuncia, sul punto, da parte dei giudici del gravame, in tal senso sollecitati dalla difesa, la quale, nel rassegnare le proprie conclusioni in sede di discussione, ha posto la questione, che non avrebbe potuto esporre nell’atto di appello, depositato prima della decisione richiamata.
La citata pronuncia ha affermato il principio di diritto così massimato: “in tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, qualora nei confronti dell'autore del reato presupposto sia stata applicata la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., il giudice deve procedere all'autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall'accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica”.
In motivazione, dando conto del fatto che, a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis nel codice penale, nessuna modifica è tata apportata all’art. 8 d.lgs. 231/01, venivano prospettate due diverse soluzioni interpretative, tra loro alternative.
La prima, fondata sul tenore letterale del citato art. 8, propende per l’esclusione della responsabilità dell’ente, poiché tale disposizione non considera espressamente le cause di non punibilità (quale quella prevista dall’art. 131-bis cod. pen.) tra le ipotesi che la lascerebbero sussistere.
La seconda, invece, ritiene non ragionevole il fatto che l’ente non sia esente da responsabilità nelle ipotesi, indicate dall’art. 8, lett. b) di estinzione del reato per cause diverse dall’amnistia e non anche quando il reato sia accertato ma non punibile, come nei casi stabiliti dall’art. 131-bis cod. pen., la cui applicazione comporta conseguenze anche pregiudizievoli quali l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale e l’effetto di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso nel giudizio civile o amministrativo di danno ai sensi dell’ art. 651-bis cod. proc. pen.
La richiamata decisione, che ha optato per la seconda tra le soluzioni prospettate, non ha affatto implicitamente riconosciuto, come si sostiene in ricorso, l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., che ha invece escluso per le ragioni indicate in motivazione.

23. Deve dunque essere ribadita l’esclusione di ogni automatismo tra l’eventuale riconoscimento della particolare tenuità del fatto nei confronti dell’autore del reato e l’accertamento della responsabilità dell’ente, la cui autonomia è stabilita dal già citato art. 8 d.lgs. 231/2001, nel quale, come è noto, si afferma che la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, nonché quando il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia.
Sull’ambito di operatività dell’art. 8 la giurisprudenza di questa Corte si è già pronunciata, affermando che all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo, non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi del richiamato articolo, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato (Sez. 5, n. 20060 del 4/4/2013, P.M. in proc. Citibank N.A., Rv. 255414; Sez. 1, n. 35818 del 2/7/2015, Citibank N.A., non massimata), ovvero in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013 - dep. 17/05/2013, Barla e altri, Rv. 255369. Conf. Sez. 4, n. 22468 del 18/4/2018, Eurocos S.n.c., Rv. 273399), riconoscendo, quindi, la necessità di un accertamento autonomo della responsabilità dell’ente.
Le ragioni della autonomia della responsabilità dell’ente rispetto alle vicende che riguardano il reato (la cui commissione la legge comunque presuppone) ed il suo autore persona fisica possono individuarsi, in linea generale, nel fatto che il reato è stato commesso nell’interesse dell’ente o da esso l’ente ha comunque tratto un vantaggio e che, come emerge anche dalla relazione ministeriale al d.lgs. 231/01, il sistema così impostato consente di contenere gli effetti negativi di eventuali accorgimenti adottati da soggetti aventi struttura organizzativa interna complessa tali da rendere difficoltosa, se non impossibile, l’individuazione dell’autore del reato.
La disposizione in esame, inoltre, evidenzia dal suo contenuto come si sia considerata l’esistenza di un reato completo di tutti i suoi elementi (oggettivi e soggettivi) per il quale l’autore persona fisica non risulti punibile (perché non imputabile o non identificato) ovvero che per varie ragioni si estingua (per una causa diversa dall’amnistia).     
Considerando ancora i contenuti della relazione ministeriale, si rileva che la riconosciuta autonomia tiene conto anche della possibilità di adozione di diverse strategie processuali da parte dell’ente e dell’autore del reato presupposto e che non sembra inoltre di ostacolo alla interpretazione prospettata nella sentenza 9072/2018 la circostanza che l’art. 8 in esame prenda in considerazione solo le cause di estinzione del reato e non anche le cause di esclusione della punibilità, poiché, come è stato da più parti osservato in dottrina, nella relazione ministeriale viene testualmente specificato: “è appena il caso di accennare al fatto che le cause di estinzione della pena (emblematici i casi grazia o di indulto), al pari delle eventuali cause non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest'ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all'ente, non escludendo la sussistenza di un reato. Se la responsabilità dell'ente presuppone comunque che un reato sia stato commesso, viceversa, non si è ritenuto utile specificare che la responsabilità dell'ente lascia permanere quella della persona fisica. Si tratta infatti di due illeciti, quello penale della persona fisica e quello amministrativo della persona giuridica, concettualmente distinti, talché una norma che ribadisse questo dato avrebbe avuto il sapore di un'affermazione di mero principio”.
In ogni caso, se pure si dovesse propendere per una interpretazione letterale dell’art. 8, escludendo  anche ogni rilievo dei contenuti della relazione ministeriale, viene da chiedersi come, in concreto, possa ritenersi applicabile l’art. 131-bis cod. pen. alle ipotesi di responsabilità degli entri di cui al d.lgs. 231/2001 ferma restando l’esclusione di ogni automatismo di cui si è già detto.
Un primo problema lo pone la concreta natura della responsabilità degli enti disciplinata dal d.lgs. 231/2001, oggetto di ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza del quale hanno dato conto le Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261115, cit.) considerando il sistema, come si è detto in precedenza, “un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole”  valorizzando i contenuti della relazione ministeriale che come tale lo qualifica.
Si osserva, infatti, nella relazione, che la responsabilità, prudentemente definita “amministrativa” dal legislatore delegante, in quanto “conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo ormai classicamente desunto dalla L. 689 del 1981. Con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia”.
Si tratta, quindi, di un sistema sostanzialmente differente, il quale rispetto alle diverse discipline dell’illecito penale e di quello amministrativo si pone in un rapporto di limitata permeabilità, dipendente dalle sue specifiche caratteristiche.
Le stesse Sezioni Unite, implicitamente ribadendo quanto in precedenza affermato circa la peculiarità del sistema, parlano di “contiguità” con l’ordinamento penale in ragione, sopratutto, “della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell'apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento”.
Tale particolarità, peraltro, caratterizza anche le modalità di accertamento della responsabilità dell’ente in precedenza descritta.
Ciò posto, deve osservarsi come la dedotta applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. al caso di specie, oltre che errata, tragga spunto dalla diffusa tendenza a non considerare l’effettivo ambito di operatività della disposizione codicistica che il legislatore ha puntualmente delineato, attraverso una lettura della norma che, privilegiando le finalità deflattive perseguite dal legislatore, ne determina l’applicazione anche al di fuori dei casi consentiti dai precisi limiti imposti.
Invero, la rispondenza ai limiti di pena indicati dalla norma costituisce solo la prima delle condizioni per l'esclusione della punibilità, essendo infatti richiesti (congiuntamente e non alternativamente, come si ricava dal tenore letterale della disposizione), gli “indici criteri” della particolare tenuità dell'offesa e della non abitualità del comportamento, il primo dei quali si articola, a sua volta, nei due “indici-requisiti”, della modalità della condotta e dell'esiguità del danno o del pericolo, apprezzate ai sensi dell'articolo 133 cod. pen.
Si tratta, dunque, di una verifica che attiene alla concreta manifestazione del reato anche attraverso la considerazione di aspetti precipuamente soggettivi, quali il comportamento non abituale e le modalità della condotta, con un richiamo espresso ai criteri direttivi di cui all’art. 133, comma 1 cod. pen. che si riferisce, tra l’altro, alle modalità dell’azione ed alla intensità del dolo ed al grado della colpa.

24. Considerando quindi i criteri così individuati per l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. con riferimento allo specifico sistema delineato dal d.lgs. 231/01 per la responsabilità degli enti, deve escludersi la possibilità di applicare la causa di non punibilità.
Conclusivamente, la eventuale declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto nei confronti dell’autore del reato presupposto non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell'ente, né ad esso può applicarsi la predetta causa di non punibilità.  
Ne consegue che il motivo di ricorso è manifestamente infondato ed, in ogni caso, nessuna carenza motivazionale può rilevarsi nella decisione impugnata, in quanto la richiesta formulata dalla difesa riguardava questione che ben poteva essere prospettata con i motivi di appello e rispetto alla quale non vi era nessun obbligo di pronuncia a parte della Corte territoriale.

25. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili e alla declaratoria di inammissibilità  consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.
 L'inammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto d'impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare ammissibile la questione di legittimità costituzionale proposta con il quinto motivo di ricorso (Sez. 6, n. 22439 del 15/5/2008, P.M. in proc. Balbi De Caro e altri, Rv. 240513).


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in data 23/1/2019