Occorre più chiarezza sul reato di gestione abusiva di rifiuti

di Vincenzo PAONE

Occorre più chiarezza sul reato di gestione abusiva di rifiuti

 

In un suo recente contributo pubblicato in questo sito (1), Gianfranco Amendola ha ribadito le sue critiche all’orientamento che si sta consolidando nella giurisprudenza della Corte di Cassazione in relazione alla fattispecie del trasporto abusivo di rifiuti anche quando a realizzarlo sia un semplice privato, vale a dire un soggetto che non sia titolare di impresa.

Da ultimo, infatti, Cass. 9 luglio 2013, Delle Cave, ha sostenuto che «L'attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali in difetto di titoli abilitativi costituisce reato anche in mancanza della qualità di imprenditore ovvero di un'organizzazione imprenditoriale».

In effetti, occorre fare chiarezza sull’affermazione che le fattispecie criminose in tema di gestione di rifiuti abbiano natura di reato comune.

Il primo dato da cui occorre partire è che la sentenza Delle Cave riguarda l’ipotesi il reato di cui all'art. 6, 1° comma, lett. d), 1. 30 dicembre 2008, n. 210 che così recita:

«a) chiunque in modo incontrollato o presso siti non autorizzati abbandona, scarica, deposita sul suolo o nel sottosuolo o immette nelle acque superficiali o sotterranee rifiuti pericolosi, speciali ovvero rifiuti ingombranti domestici e non, di volume pari ad almeno 0.5 metri cubi e con almeno due delle dimensioni di altezza, lunghezza o larghezza superiori a cinquanta centimetri, e' punito con la reclusione fino a tre anni e sei mesi; se l'abbandono, lo sversamento, il deposito o l'immissione nelle acque superficiali o sotterranee riguarda rifiuti diversi, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da cento euro a seicento euro;

b) i titolari di imprese ed i responsabili di enti che abbandonano, scaricano o depositano sul suolo o nel sottosuolo in modo incontrollato e presso siti non autorizzati i rifiuti, ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee, sono puniti con la reclusione da tre mesi a quattro anni se si tratta di rifiuti non pericolosi e con la reclusione da sei mesi a cinque anni se si tratta di rifiuti pericolosi;

d) chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza dell'autorizzazione, iscrizione o comunicazione prescritte dalla normativa vigente».

Come appare evidente, tre sono le condotte vietate: svolgimento di attività di gestione di rifiuti (lett. d) corrispondente al 1° comma dell’art. 256 d.leg. 152/06); abbandono di rifiuti ad opera del titolare di impresa (lett. b) corrispondente al 2° comma dell’art. 256); abbandono di rifiuti ad opera di un privato (lett. a) corrispondente all’art. 255).

La giurisprudenza non solo non ha messo in risalto le differenze tra queste fattispecie, ma ha finito per adottare un’interpretazione che riduce lo spazio applicativo della lett. a).

Infatti, Cass. 28 ottobre 2009, Guglielmo (citata espressamente dalla sentenza Delle Cave) ha sostenuto che, ai fini della sussistenza dell’elemento obiettivo del reato di cui alla lett. d) dell’art. 6, (nella specie, trasporto di rifiuti), non è richiesta la qualità di imprenditore in capo all’autore del trasporto abusivo.

In senso conforme, Cass. 15 luglio 2011, Grasso, in Ambiente e sviluppo, 2012, 372, ha ribadito che la norma non distingue tra soggetto che effettua l’attività in forma imprenditoriale oppure in modo occasionale.

Cass. 15 gennaio 2013, Berlingeri, n. 6294, inedita, in un caso di contestazione della contravvenzione di cui all'art. 6, 1° comma, lett. d), l. 210/2008, ha sostenuto che «La condotta descritta dalla disposizione richiamata è perfettamente coincidente con quella contemplata dalla disciplina generale nell'art. 256 d.lgs. 152/2006. Quanto a quest'ultima, la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni rilevato che le violazioni in essa contenute configurano un'ipotesi di reato comune, che può essere commesso anche da chi esercita attività di gestione dei rifiuti in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa, dovendosi pertanto escludere la natura di reato proprio la cui commissione sia possibile solo da soggetti esercenti professionalmente una attività di gestione di rifiuti».

E qui veniamo al cuore del problema: ripensando alle fattispecie descritte nelle lett. a) e d) dell’art. 6, va ovviamente escluso che concorrano i due reati (per il principio del ne bis in idem) per cui va individuato il rispettivo ambito di applicazione.

Da questo punto di vista è logico ritenere che la prima ipotesi abbia per oggetto l’atto di abbandono o di scarico dei rifiuti del tutto isolato/occasionale e la seconda ipotesi abbia invece per oggetto l’effettuazione di un’attività abituale/sistematica o comunque svolta in forma organizzata (2).

Da qui il passo è breve per affermare che, ordinariamente, la prima condotta è quella realizzata da un qualsiasi privato (e perciò integra un reato comune), mentre la seconda è riconducibile al gestore di un’impresa (e perciò integra un reato proprio).

Su questo tema abbiamo espresso più volte la nostra posizione (3) fortemente critica nei confronti della tesi che viene riproposta senza alcuna rivisitazione da parte della Cassazione.

Lasciamo da parte il profilo riguardante la nozione di titolare di impresa (che compare formalmente solo nel 2° comma dell’art. 256), da sempre intesa in modo ampio, tale da ricomprendere non solo chi eserciti professionalmente un’attività di gestione dei rifiuti (prodotti da terzi), ma anche le imprese che provvedano a gestire i rifiuti prodotti dalla propria attività (4).

La questione è un’altra.

Come osservato anche da Amendola, l’art. 256, 1° comma, punisce chi effettui una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216: pertanto è evidente che queste ultime norme stabiliscano in concreto quali siano i soggetti che devono dotarsi di uno dei citati titoli abilitativi prima di intraprendere un’attività nel campo della gestione dei rifiuti.

Di conseguenza, il pronome "chiunque" non si riferisce affatto ad un indefinito soggetto (come mostra di ritenere la Cassazione), ma soltanto a chi sia individuato dalla legge quale destinatario dell’obbligo di sottoporsi al controllo della P.A.

A questo riguardo, è palese che i destinatari della normativa amministrativa siano proprio i titolari di «impresa» come emerge dall’art. 212 d.leg. 152/06 (che ha istituito l'Albo nazionale dei gestori ambientali):

  • comma 7: «Gli enti e le imprese iscritte all'Albo per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi sono esonerate dall'obbligo di iscrizione per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi a condizione che tale ultima attività non comporti variazione della classe per la quale le imprese sono iscritte»;

  • comma 9: «Le imprese di cui ai commi 5 e 8 tenute ad aderire sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all´articolo 188-bis, comma 2, lett. a), procedono, in relazione a ciascun autoveicolo utilizzato per la raccolta e il trasporto dei rifiuti, all'adempimento degli obblighi stabiliti dall'articolo 3, comma 6, lettera c), del decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in data in data 17 dicembre 2009»;

  • comma 11: «Le imprese che effettuano le attività di bonifica dei siti e di bonifica dei beni contenenti amianto devono prestare idonee garanzie finanziarie a favore della regione territorialmente competente per ogni intervento di bonifica nel rispetto dei criteri generali di cui all'articolo 195, comma 2, lettera g)».

Anche dal decreto del Ministro dell'ambiente 28 aprile 1998, n. 406 (applicabile fino all’adozione di un nuovo decreto ministeriale ai sensi del comma 15 dell’art. 212) e delle deliberazioni del Comitato nazionale dell'Albo emerge che le prescrizioni ivi contenute si rivolgono espressamente alle sole imprese.

Si tenga poi conto che mentre nel 2° comma dell’art. 256, nel descrivere la condotta punibile, il verbo è coniugato con l’indicativo presente (i titolari di imprese che «abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono»), il che dimostra che ad essere sanzionato è il compimento di un singolo atto, nel 1° comma dell’art. 256 la condotta punita è descritta come chi «effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti», il che dimostra che ad essere vietato non è l’atto singolo, bensì lo svolgimento di un’attività.

A questa stregua, si deve poi considerare che al concetto di attività è connaturale la caratteristica della continuità e sistematicità, che costituiscono anche connotati tipici dell’impresa, e dunque è ragionevole concludere che ai sensi del 1° comma dell’art. 256 è punibile non il quisque de populo, bensì esclusivamente il titolare di un’impresa che effettui una delle attività indicate nel 1º comma dello stesso articolo e il titolare di un’impresa che effettui in via ordinaria la gestione dei rifiuti prodotti dallo svolgimento della propria attività primaria (diversa dalla gestione dei rifiuti).

Ne deriva che l’art. 6, lett. d), l. n. 210/2008, al pari dell’art. 256, 1° comma, d.leg. 152/06, descrive un reato «proprio», imputabile cioè ai soli titolari di impresa.

Concludiamo con questa riflessione.

Se fosse fondata la tesi che il 1° comma dell’art. 256 preveda un reato comune, dovrebbe punirsi penalmente anche l’occasionale trasporto di rifiuti effettuato dal privato che intenda conferire gli stessi in un centro di raccolta autorizzato. Ma se gli stessi rifiuti, dopo il trasporto illecito, fossero abbandonati brutalmente nell’ambiente, il privato sarebbe punito penalmente per il trasporto, che rappresenta un fatto meno grave dell’abbandono illegale, mentre per questo secondo illecito, oggettivamente più grave del primo, sarebbe sanzionato in via amministrativa!

La totale irrazionalità di questa conclusione conferma quanto sia insostenibile la tesi che il reato di gestione illecita dei rifiuti sia un reato comune.

1 CASSAZIONE, CASALINGHE E CASSONETTI.

2 Non a caso Cass. 17 gennaio 2012, Granata, in Ambiente e sviluppo, 2013, 60, ha affermato che con il termine attività deve intendersi ogni condotta che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.

3 Si rinvia a Il reato di gestione abusiva dei rifiuti è un reato proprio o comune? (nota a Cass. pen. n. 23971/2011), in Ambiente e sviluppo, 2012, 29, e La gestione abusiva dei rifiuti (art. 256, 1° comma, d.leg. 152/06) integra un reato comune?, id. 2013, 812.

4 La concorde giurisprudenza ha chiarito che per «titolari di imprese e responsabili di enti» vanno intesi sia gli esercenti le imprese o gli enti che effettuano una delle attività indicate nel 1º comma dell’art. 51 d.leg. 22/97 sia gli esercenti un'attività imprenditoriale, per la quale è connaturale la produzione di rifiuti: v. Cass. 19 settembre 2003, Sfrappini, RivistAmbiente, 2004, 632 e in C.E.D. Cass., 226585; 11 febbraio 2004, Barsanti, Ced Cass., rv. 227956; 10 febbraio 2004, Mannari, n. 11879, inedita; 11 febbraio 2004, Rainaldi, Ced Cass., rv. 227570; 5 ottobre 2004, Carpanese, Giur. it., 2005, 1494; 14 dicembre 2004, Ernili, inedita; 13 aprile 2007, Ferluga, n. 24731, inedita; 15 gennaio 2008, Cozzoli, Ced Cass., rv. 239011.

E’ stato anche affermato che il concetto di impresa va riferito non solo alle attività regolarmente inquadrate come tali, ma anche a quelle esercitate in via di fatto.