Cass. Sez. III n. 20454 del 13 maggio 2019 (PU 8 gen 2019)
Pres. Aceto Est. Zunica Ric. Carbotti
Urbanistica.Abuso di ufficio e dolo intenzionale
In tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all’art. 323 cod. pen., prescinde dall’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell’agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell’intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 13 dicembre 2017, la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, confermava la sentenza del 6 novembre 2015, con cui il Tribunale di Taranto aveva condannato, tra gli altri, Martino Carbotti e Giovanni Maggi alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione ciascuno, in quanto ritenuti colpevoli dei reati, contestati in concorso tra loro, di cui agli art. 181 del d.lgs. 42/2004 e 44, comma 1 lett. C, del d.P.R. 380/2001 (capo A), nonché art. 323 cod. pen. (capo B), reati accertati in Martina Franca il 18 ottobre 2012.
In particolare, secondo la prospettiva accusatoria recepita dai giudici di merito, Carbotti, quale dirigente dell’Ufficio Tecnico Comunale di Martina Franca e di R.U.P. e Maggi, quale tecnico progettista e direttore dei lavori, concorrevano con Giovanni Massafra e Marilda Schiavone, proprietari dell’immobile, nel consentire la realizzazione di una pluralità di lavori abusivi compiutamente descritti nell’imputazione di cui al capo A, in un suolo ubicato nel Comune di Martina Franca, in assenza del permesso di costruire e della necessaria autorizzazione, ricadendo le opere in area sottoposta a vincolo paesaggistico in forza del P.U.T.T. della Regione Puglia, nonché in assenza della prescritta Valutazione di Incidenza Ambientale, in quanto situata all’interno del S.I.C. “Murgia di Sud Est”.
In particolare, l’accusa elevata a carico di Carbotti era quella di avere omesso, in violazione dell’art. 49 della legge n. 122/2010, di comunicare alla parte richiedente l’inammissibilità della procedura di s.c.i.a. e di esercitare i poteri inibitori previsti dalla norma, e di aver così intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ai comproprietari Massafra e Schiavone e al loro tecnico Maggi, avendo quest’ultimo percepito un compenso per l’opera prestata
2. Avverso la sentenza della Corte di appello pugliese, Carbotti e Maggi, tramite i rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione.
2.1. Martino Carbotti ha sollevato sette motivi.
Con il primo, lamenta l’erronea applicazione degli art. 40 e 110 cod. pen., 181 del d.lgs. 42/2004, 44, comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001, 49 della l. 122/2010 e 19 della l. 241/90 e 192 cod. proc. pen., nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione; in particolare, dopo aver ripercorso sia le tappe principali dell’iter procedimentale relativo alla vicenda oggetto di giudizio, sia gli orientamenti di questa Corte in tema di concorso di persone nel reato, la difesa contesta il giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine ai reati ascrittigli, evidenziando che la condotta di Carbotti non è consistita né nel rilascio di un titolo abilitativo illegittimo, né nel compimento di una infedele attività istruttoria a ciò propedeutica, ma al più nel non aver proposto al suo dirigente di vietare la prosecuzione delle opere, il che avrebbe presupposto la consapevolezza da parte sua che i proprietari stessero realizzando dei lavori diversi da quelli regolarmente assentiti con la s.c.i.a., aspetto questo che tuttavia doveva essere escluso nel caso di specie, in quanto dai documenti posti all’attenzione dell’imputato non era possibile cogliere alcuna irregolarità, tale da sollecitare il potere di accertamento richiesto dall’art. 49 della legge 122/2010.
La difesa evidenzia inoltre che l’area oggetto dell’intervento, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, non era sottoposta a vincolo paesaggistico, in quanto lo strumento urbanistico del Comune di Martina Franca, approvato con D.G.R. n. 1503 del 5/3/1984, non era stato adeguato al piano paesistico regionale, non costituendo quindi la tutela imposta dal Putt/P approvato con D.G.R. n. 1748 del 15/12/2000 vincolo paesaggistico per effetto del combinato disposto di cui agli art. 136 e 142 del d.lgs. 42/2004, come confermato dalla Regione Puglia nella autorizzazione del primo settembre 2011 e dalla Provincia di Taranto nel nulla osta del 3 agosto 2010.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l’erronea applicazione degli art. 110 cod. pen., 181 del d.lgs. 42/2004 e 44 comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001, dolendosi del fatto che la Corte di appello aveva omesso di motivare in relazione al consapevole e volontario contributo, materiale o morale, offerto da Carbotti ai fini della realizzazione dell’abuso, difettando ogni elemento di prova in tal senso.
Con il terzo motivo, viene censurata l’erronea applicazione degli art. 323 cod. pen., 181 del d.lgs. 42/2004, 44 comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001 e 49 della l. 122/2010, in ordine all’individuazione della violazione di legge come presupposto indefettibile del reato di abuso d’ufficio, evidenziando la difesa che la disposizione richiamata dai giudici di merito, ovvero l’art. 49 della l. 122/2010, non poteva ritenersi applicabile nel caso di specie, in quanto Carbotti sarebbe stato tenuto ad esercitare i poteri interdittivi contemplati da tale norma solo in caso di necessità di acquisire una nuova autorizzazione paesaggistica, mentre gli interventi alle fondamenta dell’immobile non prospettavano alcuna variazione rispetto a quelli originariamente assentiti con l’autorizzazione paesaggistica n. 490/2011 rilasciata ai coniugi Massafra-Schiavone, per cui non ricorrevano i presupposti affinché Carbotti dichiarasse inammissibile la procedura.
Con il quarto motivo, oggetto di doglianza è l’erronea applicazione degli art. 323 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione in punto di difformità tra le opere indicate nella s.c.i.a. in variante e quelle accertate dalla Polizia Provinciale: si sottolinea al riguardo che la difformità rilevata dalla Corte di appello si fonda su un evidente travisamento della prova documentale della s.c.i.a. in variante del 25 maggio 2012, basandosi cioè il giudizio di responsabilità di Carbotti sull’erronea premessa secondo cui la realizzazione del piano interrato sarebbe stata agevolata dall’imputato, sebbene l’intervento edilizio accertato dalla P.G. si sia rivelato radicalmente diverso rispetto a quelli indicati nella s.c.i.a. in variante posti alla sua attenzione, per cui a carico dell’imputato si sarebbe delineata una sorta di responsabilità oggettiva.
Con il quinto motivo, viene eccepita l’erronea applicazione degli art. 110, 323 cod. pen., 181 del d.lgs. 42/2004, 44, comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001 e 49 della l. 122/2010, in ordine alla valutazione della cd. “doppia ingiustizia”.
In particolare, si evidenzia che la Corte di appello, al fine di ravvisare il requisito in esame, necessario ai fini della configurabilità del delitto di abuso di ufficio, avrebbe dovuto compiere una duplice verifica, accertando cioè l’ingiustizia sia della condotta del pubblico ufficiale, sia del vantaggio patrimoniale conseguito, non potendosi desumere l’ingiustizia del vantaggio economico ottenuto dai comproprietari dall’illegittimità dell’attività del pubblico ufficiale, ove sussistente.
Nel caso di specie, la valutazione dell’ingiustizia della condotta di Carbotti si era rivelata del tutto erronea, essendosi invocata la violazione degli art. 6 della l. 241/1990 e 23 comma 6 del d.P.R. 380/2001, che non sono altro che la specificazione procedimentale della già contestata violazione dell’art. 49 della l. 122/2010, modificativo dell’art. 19 della l. 241/90, mentre, rispetto al vantaggio dei privati, la sentenza impugnata rilevava un assoluto vuoto dimostrativo.
Del resto, aggiunge la difesa, la smentita del carattere ingiusto del vantaggio patrimoniale ottenuto dai proprietari deriverebbe dal fatto che, il 26 novembre 2013, pur essendo stato adottato con delibera della Giunta Regionale della Puglia il P.T.T.R. che aveva imposto il vincolo paesaggistico, il Comune di Martina Franca aveva comunque rilasciato l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
Con il sesto motivo, la difesa contesta l’erronea applicazione degli art. 110, 323 cod. pen., 181 del d.lgs. 42/2004, 44, comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001 e 49 della l. 122/2010 e la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo intenzionale del reato di abuso d’ufficio; in particolare, nella valutazione dell’elemento soggettivo, la Corte territoriale sarebbe incorsa in un duplice errore poiché, per un verso, ha totalmente omesso qualsiasi considerazione sulla sussistenza di un’effettiva coscienza e volontà di Carbotti di violare l’art. 49 della l. 122/2010 e, per altro verso, non ha tenuto conto che la presunta intenzione dell’imputato di procurare ai coniugi Massafra-Schiavone un ingiusto vantaggio era smentita sia dall’assenza assoluta di rapporti personali tra Carbotti e i predetti coniugi, sia dal fatto che la condotta dell’imputato, lungi dall’aver integrato una violazione di legge, è risultata conforme alla prassi del proprio ufficio in situazioni analoghe, mentre è irrilevante che Carbotti abbia proceduto all’esame della pratica insieme a Maggi, invece di procedere nelle forme della memoria e della conferenza di servizi, essendo queste ultime forme di interlocuzione tipiche, ma non esclusive.
Né poteva ritenersi sintomatica dell’eventuale mala fede dell’imputato la qualificazione degli interventi oggetto della s.c.i.a. in variante quali “volumi tecnici”, avendo Carbotti desunto la natura giuridica degli interventi dalla descrizione operata dall’ing. Maggi nella relazione tecnica allegata alla s.c.i.a.
Con il settimo motivo, infine, la difesa deduce l’erronea applicazione degli art. 133 e 323 cod. pen., nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, evidenziando che, risalendo il fatto al 18 ottobre 2012, non poteva tenersi conto della riforma operata dalla legge n. 190/2012, che ha modificato l’art. 323 cod. pen. in relazione al trattamento sanzionatorio, sostituendo la cornice edittale, compresa inizialmente tra 6 mesi a 3 anni di reclusione, con quella tra 1 a 4 anni, per cui nel caso di specie si imponeva l’adozione del minimo edittale nella misura di mesi 6 di reclusione e non, come erroneamente ritenuto in sentenza, nella misura di anni 1 di reclusione.
2.2. Giovanni Maggi ha sollevato quattro motivi.
Con il primo, lamenta l’erronea applicazione degli art. 134, 136, 142, 143, 146 e 181 del d.lgs. 42/2004, la manifesta illogicità della motivazione e l’omessa corrispondenza tra il fatto accertato all’esito dell’istruttoria dibattimentale e quello ritenuto nella sentenza, evidenziando che la Corte territoriale aveva omesso di accertare se, alla data di commissione del fatto, l’area oggetto di intervento potesse essere qualificata come bene paesaggistico in base a quanto stabilito dal d.lgs. 42/2004, essendosi i giudici limitati ad affermare che la stessa era gravata da vincolo paesaggistico in quanto compresa nel P.U.T.T. della Regione Puglia, senza verificare se le aree oggetto di intervento fossero o meno beni paesaggistici ai sensi dell’art. 134 del d.lgs. 42/2004, non essendo tali le aree e gli immobili sottoposti a tutela dai piani paesaggistici ex art. 143 comma 1 lett. E del d. lgs. 42/2004, con la conseguenza che gli interventi eseguiti su dette aree senza autorizzazione non sono punibili ai sensi dell’art. 181 del d.lgs. 42/2004, ma sono sanzionati ex art. 44 comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, con riferimento alla condanna relativa al reato di abuso d’ufficio, l’erronea applicazione dell’art. 323 cod. pen., la manifesta illogicità della motivazione, nonché il travisamento della prova e l’inosservanza dei canoni di valutazione della stessa ex art. 192, comma 1 e 2 e 546, comma 1 lett. E cod. proc. pen.; nel richiamare gli indirizzi ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di abuso d’ufficio, la difesa osserva che nel caso di specie non era stata provata alcuna collusione tra la committenza privata e i responsabili del procedimento amministrativo de quo, né poteva ritenersi sussistente qualche forma di accordo tra Maggi e Carbotti, avendo peraltro la Corte territoriale travisato le dichiarazioni rese da Carbotti nel corso del suo esame dibattimentale, posto che quest’ultimo non ha mai riferito di aver subito particolari sollecitazioni o ripetute azioni pressanti da parte di Maggi che lo avrebbero indotto ad emettere il provvedimento di autorizzazione, ma ha affermato solo di aver richiesto delle semplici integrazioni e di aver esaminato la pratica nel momento in cui Maggi si è recato in Comune, fermo restando, in ogni caso, che nella sentenza impugnata era stata pretermessa ogni valutazione rispetto all’ulteriore e necessario requisito del vantaggio patrimoniale.
Con il terzo motivo, viene censurata la manifesta illogicità della motivazione in relazione all’ordine di demolizione e di riduzione in pristino, in quanto generico nell’indicazione delle sue modalità esecutive e comunque illegittimamente impartito nei confronti di Maggi, il quale, essendo tecnico progettista e direttore dei lavori, non ha alcun rapporto diretto con l’immobile abusivo né vanta su di esso nessun tipo di diritto reale o di godimento, per cui lo stesso non può essere destinatario di alcuna sanzione amministrativa di tipo ripristinatorio, e ciò a prescindere dal fatto che i pareri favorevoli rilasciati in relazione alla s.c.i.a. risultano già di per sé idonei ad escludere la rimproverabilità della condotta.
Con il quarto motivo, infine, viene eccepita l’inosservanza e l’erronea applicazione degli art. 62 bis e 133 cod. pen., nonché la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio.
In particolare, la difesa lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, non essendo stati presi in considerazione dalla Corte territoriale elementi meritevoli di positiva considerazione, come il ruolo secondario rivestito da Maggi nella vicenda, l’esiguo vantaggio patrimoniale dallo stesso conseguito, la sua condizione di incensurato, il suo corretto comportamento processuale, la non eccessiva gravità del fatto e comunque la mera occasionalità della condotta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati, ma la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente ai reati di cui al capo A della rubrica, perché estinti per prescrizione, con eliminazione dal trattamento sanzionatorio della relativa pena.
1. I primi sei motivi del ricorso di Carbotti e i primi due motivi del ricorso di Maggi possono essere trattati in maniera unitaria, in quanto gli stessi sono accomunati dal censurare, sotto profili tra loro sovrapponibili, il giudizio di colpevolezza degli imputati in ordine ai reati ascritti ai capi A e B della rubrica.
Al riguardo, tuttavia, deve ritenersi che l’affermazione della penale responsabilità di Carbotti e Maggi non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Occorre premettere in tal senso che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi reciprocamente per formare un corpus argomentativo unitario, hanno innanzitutto operato un’attenta ricostruzione dei fatti di causa, della quale vanno richiamati in questa sede alcuni passaggi salienti, al fine di inquadrare compiutamente le questioni sollevate dalle difese.
Dunque, il 17 febbraio 2012, i coniugi Giovanni Massafra e Marilda Schiavone ottenevano il permesso di costruire n. 13/2012, con il quale veniva autorizzata la realizzazione di alcune opere nel fondo di loro proprietà sito nella contrada Montetullio dell’agro di Martina Franca, ricadente all’interno del S.I.C. Murgia del Sud est, area sottoposta a vincolo paesaggistico imposto dal PPUTT/P, approvato con delibera della Giunta Regionale n. 1748 del 15 dicembre 2000.
Le opere autorizzate consistevano in particolare nella costruzione del piano terra, nella realizzazione di un piazzale esteso non oltre 90 mq. e nella recinzione con muri a secco di altezza pari a un metro, ciò in conformità con l’autorizzazione paesaggistica n. 190 del 1° settembre 2011, che aveva invece vietato la realizzazione dell’intero piano interrato, del piazzale interrato e della relativa rampa di accesso esterna, oltre che una maggiore estensione del piazzale esterno e una maggiore altezza della recinzione a secco.
In seguito, il 25 maggio 2012, i coniugi Massafra-Schiavone depositavano presso lo Sportello Unico per l’edilizia del Comune di Martina Franca una s.c.i.a. in variante al permesso di costruire n. 13/2012, nominando tecnico progettista e direttore dei lavori l’ing. Giovanni Maggi, s.c.i.a. con la quale le ulteriori opere da realizzare venivano descritte nei seguenti termini: “realizzazione di maggior sbancamento per una profondità di tre metri dovuta alle caratteristiche del terreno nello strato superficiale non idonea alla collocazione delle opere di fondazione…all’interno dello scavo è prevista la realizzazione dei plinti di fondazione, di una intercapedine perimetrale e dei pilastri atti a reggere il solaio del piano terra e il solaio di copertura. La quota finale tra il massetto che si realizzerà nella parte interrata e l’intradosso del primo solaio è pari a 2,70 m. All’interno dello spazio che si è ricavato nella parte interrata si prevede la localizzazione di un deposito da adibire all’abitazione, di un locale cisterna per acqua potabile, di una cisterna per acqua piovana e di un locale pompe, come si evince dagli elaborati grafici allegati alla presente. Una scala metterà in comunicazione l’abitazione col deposito sottostante adibito all’abitazione. Non sarà eseguita alcuna modifica rispetto a quanto assentito col permesso di costruire n. 13/2012 relativamente ai prospetti e ai volumi concessi”.
La pratica veniva assegnata, quale Responsabile del procedimento, al geom. Martino Carbotti, che, con missiva del 28 giugno 2012, richiedeva ai coniugi Massafra e all’ing. Maggi una integrazione documentale relativa alle quietanze attestanti il versamento degli oneri urbanistici e dei costi di produzione, nonché la comunicazione della ditta costruttrice e altre informazioni, che tuttavia non incidevano sull’oggetto sostanziale della segnalazione certificata di inizio attività.
Ciò posto, tra il 17 e il 24 ottobre 2012, personale della Polizia provinciale di Taranto eseguiva una serie di sopralluoghi presso la proprietà dei coniugi Massafra, nel corso dei quali veniva accertato che erano in corso lavori di scavo e costruzione per la realizzazione di un piano interrato di oltre 150 mq., suddiviso in diversi vani e munito di rampa esterna, e di un piazzale esterno di oltre 700 mq., oltre che di una recinzione a secco con cemento alta circa 1,5 mt.
Orbene, alla luce degli esiti dei sopralluoghi di P.G., coerentemente sono stati ritenuti ravvisabili innanzitutto i reati di cui agli art. 181 del d.lgs. 42/2004 e 44 comma 1 lett. C del d.P.R. 380/2001 contestati al capo A, non essendovi alcun dubbio che gli interventi in corso di realizzazione costituivano l’oggetto di ciò che era stato vietato con l’autorizzazione paesaggistica del 1° settembre 2011 e con il conseguente permesso di costruire n. 13 del 2012, il cui ambito applicativo era circoscritto alla costruzione del piano terra, alla realizzazione del piazzale esteso non oltre 90 mq. e alla recinzione con muri a secco di altezza pari a un metro.
Quelle in corso di esecuzione erano dunque opere non assentibili, né alla stregua dell’originario permesso di costruire, né in forza della s.c.i.a. in variante del 25 maggio 2012, la cui presentazione è risultata finalizzata proprio a eludere l’esplicito divieto di realizzazione del piano interrato nel suo complesso, del piazzale esterno oltre l’estensione dei 90 mq. e della recinzione più alta di 1 mt.
I giudici di merito sul punto hanno evidenziato, con argomentazioni tutt’altro che irrazionali, che i lavori in corso di svolgimento non potevano essere legittimati dalla s.c.i.a. in variante, in quanto il piano interrato, per le sue rilevanti dimensioni (circa 150 mq.), non poteva essere qualificato come un mero locale tecnico, per cui si era in presenza di un nuovo e autonomo spazio volumetrico.
Nel confrontarsi con le deduzioni difensive, sia il Tribunale che la Corte di appello hanno poi evidenziato che i lavori abusivi sono stati realizzati in area sottoposta a vincolo paesaggistico ex art. 134 lett. C del d. lgs. n. 42/2004, in quanto rientranti tra quelli inseriti nel PUTT/P, approvato con delibera della Giunta Regionale della Puglia n. 1748 del 15 dicembre 2000, essendo stato precisato correttamente che l’art. 143 comma 5 del d. lgs. n. 42 del 2004 subordina all’adeguamento dello strumento urbanistico comunale l’applicabilità soltanto delle disposizioni di cui al comma 4 del medesimo art. 143, riguardante le sole previsioni del piano relative o all’individuazione delle aree tutelate per legge (ai sensi dell’art. 142), nelle quali la realizzazione di interventi può avvenire previo accertamento, nell’ambito del procedimento ordinato al rilascio del titolo edilizio, della conformità degli interventi alle previsioni del piano paesaggistico e dello strumento urbanistico comunale, o alla individuazione delle aree gravemente compromesse o degradate, nelle quali la realizzazione degli interventi effettivamente volti al recupero e alla riqualificazione non richiede il rilascio della autorizzazione di cui all’art. 146 del medesimo d. lgs. n. 42 del 2004.
Al di fuori di tali aree, tra cui non rientra quella oggetto di causa, il PUTT/P è invece efficace e vincolante sin dalla sua pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione, ai sensi dell’art. 144 comma 2 del d. lgs. 42/2004, a prescindere dal pur doveroso adeguamento dello strumento urbanistico comunale.
Il giudizio sulla sussistenza dei reati contestati al capo A resiste dunque alle obiezioni difensive, tanto più ove si consideri che sono stati gli stessi proprietari, unitamente al loro tecnico, a chiedere il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, mentre è stato proprio il geom. Carbotti a riconoscere, nel corso del suo esame dibattimentale, che le opere ricadevano in area paesaggisticamente vincolata.
3. Parimenti immune da censure è la ritenuta ascrivibilità delle condotte illecite per cui si è proceduto, sia quelle descritte al capo A, sia l’abuso d’ufficio contestato al capo B, agli odierni imputati (oltre che ai comproprietari Massafra e Schiavone, nei cui confronti l’affermazione della penale responsabilità è divenuta irrevocabile, non avendo gli stessi impugnato la sentenza della Corte di appello).
Ed invero, quanto alla posizione di Maggi, è evidente che questi, nella sua veste di tecnico progettista e direttore dei lavori, ha avuto un ruolo decisivo almeno nella predisposizione della s.c.i.a. in variante illegittima, che ha consentito di eludere l’ambito applicativo delineato dal permesso di costruire n. 13 del 2012.
Allo stesso modo, per quanto concerne la posizione di Carbotti, è stato ragionevolmente rimarcato che, nel suo ruolo di responsabile unico del procedimento, egli aveva il potere e il dovere di inibire la realizzazione delle opere in questione, la cui natura abusiva era chiaramente rivelata dalla documentazione amministrativa nella sua disponibilità, avendo egli piena conoscenza dei limiti fissati dall’autorizzazione paesaggistica del 1° settembre 2011, recepita integramente dal permesso di costruire n. 13 del 2012.
Il perimetro tracciato da questi due provvedimenti amministrativi non lasciava dubbi sul fatto che i lavori indicati nella s.c.i.a. in variante non erano consentiti, per cui non desta stupore l’affermazione dei giudici di merito secondo cui si era in presenza di un atto “macroscopicamente illegittimo”, in quanto lo stesso finiva per qualificare come volumi tecnici un piano interrato di 150 mq., la cui costruzione era stata vietata appena tre mesi prima della presentazione della s.c.i.a., che dunque costituiva non una variante al permesso di costruire, ma un suo stravolgimento, e tanto anche alla luce del superamento dei previsti limiti dimensionali rispetto al muretto di recinzione e soprattutto al piazzale esterno.
Il tipo di intervento richiesto non consentiva dunque l’attivazione della s.c.i.a. ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. 380 del 2001, sia per l’entità delle opere previste, sia per i precedenti snodi procedimentali, che non erano oggettivamente superabili, per cui l’iniziativa del geom. Carbotti doveva tradursi non nel sollecito del versamento degli oneri di urbanizzazione o del completamento di alcuni aspetti formali, ma nell’inibitoria della prosecuzione dell’attività edilizia, ai sensi dell’art. 19 della l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 49 della l. n. 122 del 2010.
Del resto, a differenza di quanto dedotto dalla difesa di Carbotti, l’illegittimità della s.c.i.a. non ha riguardato il solo momento esecutivo, posto che già nella fase genetica la segnalazione presentata nell’interesse dei coniugi Massafra dall’ing. Maggi, al di là della contraria affermazione finale contenuta nell’elaborato tecnico allegato, rilevava profili di palese incompatibilità con il tenore del permesso di costruire del 2012 e dell’autorizzazione paesaggistica del 2011, il che avrebbe imposto un dovere di controllo non certo solo formale.
A fronte di tali elementi, correttamente è stata ritenuta non necessaria ai fini della sussistenza del contestato reato di abuso d’ufficio la prova di un vero e proprio patto collusivo tra Carbotti e le parti private, dovendosi richiamare al riguardo la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Rv. 272331), secondo cui, in tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all’art. 323 cod. pen., prescinde dall’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell’agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell’intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è stato desunto dai giudici di merito, in maniera non illogica, dalla tempistica della presentazione della s.c.i.a. in variante rispetto al permesso di costruire di tre mesi prima e dalla sua evidente finalità elusiva dei precedenti titoli abilitativi, di cui peraltro Carbotti ha mostrato di avere piena consapevolezza nel corso del suo esame dibattimentale, costituendo peraltro l’ampia esperienza del ricorrente nel settore edilizio un dato ancor più eloquente, specie se rapportato alla manifesta “anomalia” dell’iter procedimentale di cui egli è stato chiamato a occuparsi.
Dunque, il coinvolgimento nella vicenda illecita del geom. Carbotti e dell’ing. Maggi è scaturito da una lettura razionale e non frammentaria delle acquisizioni probatorie, dovendosi unicamente precisare che il disvalore penale della procedimento in esame è ravvisabile non tanto nel fatto che vi siano state interlocuzioni informali tra i due ricorrenti, evenienza questa poco rituale ma non per questo illecita, quanto piuttosto nella circostanza che due persone esperte della materia, in ruoli diversi, si siano trovate d’accordo nell’assecondare una richiesta, quella dei due comproprietari dell’immobile, che non era in alcun modo meritevole di accoglimento, sia per la tipologia e per l’entità delle opere da realizzare, sia alla stregua delle puntuali e convergenti valutazioni tecniche espresse dagli organi che solo tre mesi prima avevano già delimitato l’ambito degli interventi consentiti; la portata dei due provvedimenti amministrativi appena emanati è stata stravolta proprio dalla s.c.i.a. in variante curata dall’ing. Maggi, rispetto alla quale il geom. Carbotti è rimasto in una posizione di silenzio complice, assicurando così il conseguimento di un vantaggio patrimoniale indebito da parte dei committenti e, di riflesso, del loro professionista incaricato.
Deve pertanto ribadirsi che il giudizio di colpevolezza degli imputati Maggi e Carbotti appare immune da censure, articolandosi le doglianze difensive, in larga parte, nella riproposizione di questioni invero già adeguatamente trattate e superate dai giudici di merito, non potendosi sottacere peraltro che, nel richiamo a talune fonti di prova che si assumono trascurate o addirittura travisate dalla Corte territoriale, entrambi i ricorsi scontano palesi limiti di autosufficienza.
3. Ciò posto, deve tuttavia rilevarsi che, rispetto ai due reati di cui al capo A), aventi natura contravvenzionale, risulta decorso il termine massimo di prescrizione, pari a cinque anni, risalendo i fatti per cui si procede al 18 ottobre 2012, e non essendosi verificati durante il processo periodi di sospensione, per cui la prescrizione massima è maturata in data 18 ottobre 2017.
La sentenza impugnata deve essere quindi annullata senza rinvio limitatamente ai reati contestati al capo A), perché estinti per prescrizione, con le ripercussioni sul trattamento sanzionatorio che saranno di qui a breve illustrate.
4. Residuano le doglianze concernenti il trattamento sanzionatorio.
4.1. La censura sollevata al riguardo da Carbotti (settimo motivo) risulta infondata, posto la pena base individuata dal Tribunale (1 anno di reclusione) per il più grave delitto di abuso d’ufficio si colloca all’interno della cornice edittale prevista dall’art. 323 cod. pen. nella versione vigente al momento del fatto (da sei mesi a tre anni), risultando quindi irrilevante il pur non corretto richiamo da parte della Corte di appello alla pena base di un anno di reclusione introdotta dalla legge n. 190 del 2012, approvata in epoca successiva ai fatti di causa; né comunque la pena inflitta dal Tribunale può essere ritenuta eccessiva, essendo stata determinata in misura molto più vicina al minimo che al massimo edittale.
4.2. Quanto alle doglianze proposte nell’interesse di Maggi, deve innanzitutto rilevarsi che quella avanzata con il terzo motivo è inammissibile, in quanto la questione sull’operatività nei confronti dell’imputato dell’ordine di demolizione disposto dal Tribunale non è stata sollevata con l’atto di appello.
A ciò deve in ogni caso aggiungersi che la sentenza di primo grado ha disposto legittimamente l’ordine di demolizione delle opere abusive ai sensi dell’art. 31 comma 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, per cui l’eventuale inesigibilità da parte del ricorrente del predetto ordine è questione concernente al più la fase esecutiva, fermo restando che, a seguito della declaratoria di estinzione dei reati di cui al capo A per prescrizione, il tema dell’operatività dell’ordine di demolizione non riguarda più gli odierni ricorrenti, ma unicamente i coniugi comproprietari Massafra e Schiavone, nei cui confronti la sentenza della Corte di appello, confermativa di quella di primo grado, è divenuta irrevocabile il 28 aprile 2018.
4.3. Quanto al diniego delle attenuanti generiche, lo stesso parimenti non presta il fianco alle censure difensive, avendo la Corte territoriale richiamato in senso ostativo l’ostinazione con cui Maggi, in un contesto illecito che ha coinvolto anche altre persone, ha proseguito nell’intento di far realizzare un’opera che in precedenza già non era stata consentita dal Comune di Martina Franca e dalla Regione Puglia, cercando di aggirare il permesso di costruire n. 13/2012, spacciando per volumi tecnici le opere del piano interrato, esteso ben 150 mq.
Orbene, tale argomentazione, scaturita da considerazione complessiva della vicenda e del modus agendi dei suoi protagonisti, non può ritenersi illogica, dovendosi sul punto richiamare l’affermazione di questa Corte (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269 e Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899), secondo cui, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione, fermo restando che, nel motivare il diniego delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione.
Di qui l’infondatezza della doglianza difensiva.
4.4. In ordine al trattamento sanzionatorio, deve tuttavia precisarsi che, a seguito della declaratoria di estinzione dei reati contravvenzionali contestati al capo A, si impone un ridimensionamento della pena inflitta a ciascun imputato, dovendosi eliminare la relativa pena di due mesi di reclusione fissata a titolo di aumento per la continuazione esterna, con conseguente rideterminazione della pena irrogata sia a Carbotti che a Maggi nella misura di anni 1 di reclusione.
Infine, ai sensi dell’art. 154 ter disp. att. cod. proc. pen., deve disporsi, relativamente alla posizione del geom. Carbotti, la comunicazione del presente dispositivo al Comune di Martina Franca.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui al capo A della rubrica perché estinti per prescrizione ed elimina la relativa pena di due mesi di reclusione. Rigetta nel resto i ricorsi.
La Corte dispone inoltre che la Cancelleria comunichi il presente dispositivo al Comune di Martina Franca ai sensi dell’art. 154 ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso l’08/01/2019