Cass. Sez. III n. 20383 del 13 maggio 2013 (Ud. 22 gen. 2013)
Pres. Lombardi Est. Fiale Ric. Coi ed altro
Urbanistica. Responsabilità del muratore o operaio per l'abuso edilizio

L'esecutore dei lavori, anche se muratore od operaio, ben può rispondere - in applicazione degli ordinari criteri del concorso di persona ex art. 110 cod. pen. ed anche a titolo di colpa quanto alla consapevolezza dell'abusività dei lavori, delle contravvenzioni di cui all'art. 44, lett. b) e c), del T.U. n. 380/2001, qualora sia accertata la sua materiale collaborazione alla realizzazione. Per la sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente, quindi, che il comportamento illecito sia derivato da imperizia, imprudenza o negligenza.

RITENUTO IN FATTO

La Corte di appello di Lecce, con sentenza dell'1.2.2012, ha confermato la sentenza 22.4.2010 del Tribunale di Lecce - Sezione distaccata di Casarano, che aveva affermato la responsabilità penale di C.C. e D.R.R. in ordine ai reati di cui:

- al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), (per avere realizzato - la prima quale committente ed il secondo quale costruttore - in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, in assenza del prescritto permesso di costruire poichè in difformità da quanto rappresentato in progetto, opere edilizie consistenti in un grande vano delle dimensioni di mt. 9,50 x 6,30 - acc. in (OMISSIS));

- al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 (per avere realizzato il manufatto anzidetto in assenza dell'autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo) e aveva condannato ciascuno alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi uno di arresto ed Euro 31.500,00 di ammenda.

Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi i difensori degli imputati, i quale hanno eccepito con motivi comuni:

- violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., per "difetto di correlazione tra imputazione contestata e decisione", sul presupposto che la contestazione riguardava un intervento edilizio senza permesso di costruire attinente ad un vano mentre la condanna sarebbe stata inflitta per una ristrutturazione ritenuta irregolare;

- travisamento del fatto, poichè i muri considerati realizzati ex novo "altro non erano che dei muri di coibentazione aderenti ai precedenti vecchi muri perimetrali";

- la insussistenza dei reati, poichè la nozione di ristrutturazione edilizia ricomprende anche gli interventi di demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma preesistenti.

Per il solo D.R. è stata altresì eccepita:

- la carenza dell'elemento psicologico dei reati;

- la illegittimità del denegato riconoscimento di circostanze attenuanti generiche.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Entrambi i ricorsi devono essere rigettati, perchè infondati.

1. Le Sezioni Unite di questa Corte Suprema - con la sentenza n. 16 del 22.10.1996, ric. Di Francesco - hanno affermato che, "con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione" e "...

vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione".

Nella specie, i giudici del merito non hanno valutato illeciti ulteriori rispetto a quelli contestati e non è configurabile alcuna immutazione degli addebiti originarì, compiutamente e specificamente descritti.

In ordine agli illeciti contestati, inoltre, gli imputati hanno avuto piena possibilità di difendersi, in una situazione di oggettiva certezza sull'oggetto dell'imputazione.

2. Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), come modificato dal D.Lgs. n. 301 del 2002, ha esteso la nozione di "ristrutturazione edilizia" ricomprendendovi pure gli interventi ricostruttivi consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di un edificio preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.

Volumetria e sagoma, dunque, debbono rimanere identiche nei casi di ristrutturazione attuata attraverso demolizione e ricostruzione, mentre non si pongono come limiti per gli interventi di ristrutturazione che non comportino la previa demolizione. Nella vicenda in esame, al contrario, il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincide, nella volumetria e nella sagoma, con il manufatto precedente (assentito nell'anno 1968), sicchè l'intervento eseguito è stato esattamente qualificato come "nuova costruzione". Esso è stato realizzato, infatti, in relazione al permesso di costruire rilasciato il 15.5.2007 ma annullato in via di autotutela, con ordinanza del 17.12.2007, per falsa rappresentazione della preesistente consistenza dell'edificio ristrutturando (vedi Cass., Sez. 3, 18 marzo, 2004, Calzoni. Vedi pure, in tal senso, C. Stato: Sez. V, 29 maggio 2006, n. 3229; Sez. 4, 22 maggio 2006, n. 3006; Sez. 2, 1 marzo 2006, n. 2687/04).

3. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'esecutore dei lavori, anche se muratore od operaio, ben può rispondere - in applicazione degli ordinali criteri del concorso di persona ex art. 110 cod. pen. ed anche a titolo di colpa quanto alla consapevolezza dell'abusività dei lavori - delle contravvenzioni di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) e c), qualora sia accertata la sua materiale collaborazione alla realizzazione dell'illecito.

Per la sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente, quindi, che il comportamento illecito sia derivato da imperizia, imprudenza o negligenza.

L'ignoranza della legge penale scusa l'autore dell'illecito soltanto se incolpevole a cagione della sua inevitabilità (Corte Cost, 23.3.1998, n. 364) e, nella fattispecie in esame, correttamente deve ritenersi escluso che l'imputato D.R. - esecutore materiale dei lavori rivestente la qualifica di costruttore e non di mero prestatore d'opera - abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al c.d. "dovere di informazione", attraverso la verifica, anche per lui doverosa, della corrispondenza di quanto andava a realizzare alla situazione di fatto esistente ed al progetto assentito.

4. Le attenuanti genetiche, nel nostro ordinamento, hanno lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità di delinquere dell'imputato.

Il riconoscimento di esse richiede, dunque, la dimostrazione di elementi di segno positivo.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l'adeguamento della pena concreta alla gravita effettiva del reato ed alla personalità del reo.

Anche il giudice di appello - pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell'appellante - non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione.

Nella fattispecie in esame, la Corte di merito, nel corretto esercizio del potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge, ha evidenziato la carenza di congrui elementi di segno positivo e di profili di meritevolezza riferibili alla personalità ed alla condotta tenuta dal D.R..

5. Al rigetto dei ricorsi segue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2013.