Consiglio di Stato Sez. VI n. 51280 del 10 novembre 2017
Urbanistica.Nozione di pertinenza urbanistica.

La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica. Più in dettaglio, l'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che occorre il permesso di costruire soltanto per gli interventi pertinenziali "che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale". A differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume". Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma (segnalazione Ing. M. FEDERICI)


Pubblicato il 10/11/2017

N. 05180/2017REG.PROV.COLL.

N. 06232/2016 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6232 del 2016, proposto da Giuseppe Vacca, rappresentato e difeso dall'avvocato Felice Laudadio, con domicilio eletto presso lo Studio dello stesso in Roma, via G. Gioacchino, 39;

contro

il Comune di Ischia, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, rappresentato e difeso dall'avvocato Antonio Iacono, domiciliato ai sensi dell’art. 25 del c.p.a. presso il Consiglio di Stato -Segreteria della VI Sezione in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – NAPOLI - SEZIONE VI, n. 186/2016, resa tra le parti, concernente demolizione di opere edilizie abusive e ripristino dello stato dei luoghi;


Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Ischia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 21 settembre 2017 il cons. Marco Buricelli e udito per la parte appellante l’avvocato Felice Laudadio;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.Le circostanze per le quali è causa sono descritte nei termini che seguono nella sentenza appellata: “…il ricorrente impugna l’ordinanza n. 37 del 9.2.2011 con cui il Comune di Ischia ha ingiunto la demolizione di opere abusivamente realizzate alla via Michele Mazzella n. 7, f. 8 particella 27, consistenti in un ampliamento di 22 mq. al piano superiore e di un locale deposito di mq. 14 al piano inferiore…il ricorrente deduce che:

1) in riferimento ad entrambi i suddetti manufatti, ricavati in preesistenti intercapedini, penderebbero due istanze di condono (prot. 6604 per il primo manufatto e 7186 per il secondo) presentate il 28.2.1995, tuttora non esitate;

2) gli abusi in questione, siccome modesti e di natura pertinenziale, che li renderebbe soggetti a DIA, non sarebbero suscettivi di sanzioni di tipo ripristinatorio;

3) si tratterebbe, al più, di interventi di ristrutturazione, riconducibili alla diversa fattispecie di cui all’art. 33 del d.p.r. 380/2001, non sanzionabili dunque con il modello legale ex articolo 27 del medesimo testo normativo;

4) le opere sarebbero risalenti (ad almeno 17 anni addietro) e la demolizione non terrebbe conto dell’affidamento medio tempore maturato;

5) il provvedimento impugnato sarebbe stato adottato in violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e risulterebbe altresì illegittimo per difetto di istruttoria e di motivazione…” .

Con la sentenza in epigrafe il Tar, nella resistenza del Comune, ha respinto il ricorso.

La sentenza:

-ha disatteso la censura basata sulla violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, di cui all’art. 7 della l. n. 241 del 1990 ovvero, nei procedimenti a istanza di parte, di cui all’art. 10 bis della legge stessa, attesa la “ineluttabilità della sanzione repressiva applicata dal Comune…, anche a cagione di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all’Amministrazione procedente (,di tal che trovano applicazione) le previsioni di cui all’art. 21 octies della legge 241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”;

-ha respinto i profili di censura imperniati sulla inadeguatezza dell’istruttoria condotta dall’Amministrazione e sulla insufficienza motivazionale dell’atto impugnato, considerando indubitabile la “completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal Comune attraverso i propri organi, di cui vi è indiretta conferma nella stessa mancanza di una contestazione, in fatto, sulla natura degli abusi accertati (sicché) all’esito dei suddetti accertamenti è stata rilevata l’abusiva realizzazione, in assenza di qualsivoglia titolo giustificativo, di una pluralità di opere abusive in ampliamento ad un pregresso manufatto articolato su più livelli e consistenti in un ampliamento di 22 mq. al piano superiore e di un locale deposito di mq. 14 al piano inferiore”;

-ha rilevato che gli interventi edilizi sanzionati sono idonei a dare vita a opere edilizie del tutto nuove cui si correlano incrementi di superficie e di volume con conseguente, significativa trasformazione dell’esistente e alterazione dell’originario stato dei luoghi, di tal che si imponeva il previo rilascio, oltre che dell’autorizzazione paesistica, giacché l’intervento ricade in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, anche del permesso di costruire; e ha rimarcato che l’autorizzazione paesistica va acquisita in via preventiva ed è ”titolo autonomo non conseguibile a sanatoria” e ciò sulla base del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del t. u. n. 42 del 2004, il quale ultimo esclude sanatorie per interventi che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi;

-ha osservato poi che “la consistenza delle nuove opere realizzate, comportanti una significazione trasformazione dell’esistente, per effetto degli incrementi di volume e di superficie che ne sono conseguiti”, e l’assenza di un vincolo, oggettivo e comprovato, di strumentalità funzionale ad altra res, escludono l’accoglibilità della tesi con la quale “parte ricorrente rivendica la natura meramente pertinenziale del manufatto in contestazione”, “tanto più che vengono qui in rilievo non già autonome strutture ma ampliamenti che fanno corpo con il fabbricato preesistente”;

-ha soggiunto che la realizzazione degli interventi edilizi in contestazione, in assenza dei prescritti titoli abilitativi, ha fondato la reazione repressiva del Comune, trovando applicazione l’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 in luogo dell’invocato art. 33, dato che viene in considerazione l’esercizio di un “potere –dovere del tutto privo di margini di discrezionalità”, sufficientemente motivato mediante la descrizione dell’abuso accertato e riferito alla repressione di interventi abusivi non delimitati “alle sole zone di inedificabiità assoluta” . Né, ha precisato il Tar, il mero decorso del tempo sana la situazione abusiva, sicché l’interessato non può dolersi che il Comune “non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi”;

-ha affermato, inoltre, che “non è possibile prendere in esame le conseguenze asseritamente pregiudizievoli per l’integrità delle opere regolarmente assentite, trattandosi di impedimento che assume rilievo esclusivamente nell’economia di fattispecie (ex art. 33 e 34 del d.p.r. 380/2001) diverse da quelle qui (art. 27 del d.p.r. 380/2001) in contestazione…” . Inoltre, la “possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”;

-ha statuito che, diversamente da quanto preteso dal ricorrente, l’esercizio del potere repressivo non poteva considerarsi inibito dalla presentazione delle istanze di condono prot. n. 6604 e prot. n. 7186 del 28.2.1995, posto che non risulta comprovata la coincidenza tra le opere abusive della cui ingiunzione di demolizione si fa questione, e le opere abusive denunciate con le istanze di condono, prive di elementi idonei a descrivere in modo specifico, sul piano tipologico e qualitativo, le opere abusive denunciate, identificate “in modo del tutto inappagante sulla scorta delle superfici dichiarate” , di tal che “risulta impedita qualsivoglia valutazione critica da parte del Collegio sull’affermata coincidenza di dette opere con quelle oggetto” dell’ordinanza sanzionatoria. Inoltre, la perizia di parte “in atti evidenzia un carattere meramente assertivo e la documentazione ad essa allegata non consente al Collegio di cogliere, con l’ausilio di elementi descrittivi, grafici e fotografici…, l’effettiva riconducibilità delle opere in contestazione con quelle denunciate con le originarie domande di condono” . L’equivocità degli elementi offerti dalla parte ricorrente viene in risalto alla luce della documentata relazione, prot. n. 193 del 5.5.2010, prodotta dal Comune, e di cui in sentenza viene sintetizzato il contenuto, evidenziandosi in particolare che lo stato dei luoghi è stato monitorato nel corso del tempo, nel 1994, 1995 e 1998, e che a tale ultima data non risultavano ancora realizzati gli ampliamenti in contestazione, ampliamenti che sono emersi in epoca successiva, in occasione di controlli ulteriori.

Sul punto, la sentenza conclude nel senso che la corrispondenza tra le opere edilizie in contestazione e le opere oggetto delle istanze di condono “va serenamente esclusa per entrambi i manufatti qui in rilievo”, sicché “la rilevata lacuna nell’impianto assertivo della domanda attorea non può che refluire a danno della tesi di parte ricorrente”, trovando applicazione il principio di cui all’art. 64, comma 1, del c.p.a. .

2. Avverso e per la riforma della sentenza sopra riassunta, l’ing. Giuseppe Vacca, quale erede del dott. Clemente Vacca e, pertanto, legittimato a impugnare, ha proposto appello con quattro motivi, che verranno riepilogati in appresso, intitolati “error in iudicando et in procedendo –erroneità dei presupposti in fatto e in diritto della sentenza” e concernenti violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili.

Con ordinanza n. 4482/2016 la Sezione, “valutato il danno”, ha accolto l’istanza cautelare e, per l’effetto, ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata e l’efficacia dell’ordinanza di demolizione gravata in primo grado.

Il Comune di Ischia si è costituito per resistere.

In prossimità dell’udienza di discussione, l’appellante e l’appellato hanno presentato memorie e si sono scambiati repliche, dopo di che, all’udienza del 21 settembre 2017, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

3. L’appello è infondato e va respinto.

La sentenza del Tar è ineccepibile e merita di essere confermata.

In via preliminare, attesa la infondatezza dell’appello nel merito, il Collegio ritiene che si possa fare a meno di prendere posizione in ordine alla eccezione civica di inammissibilità del gravame, formulata sull’assunto della violazione, da parte dell’appellante, dell’obbligo di specificazione delle censure contro i capi della sentenza di primo grado, e ciò ai sensi dell’art. 101, comma 1, del c.p.a. , essendosi l’ing. Vacca asseritamente “limitato a riproporre i motivi già articolati col ricorso di primo grado senza …adeguatamente confutare le ragioni che hanno condotto alla loro reiezione”.

3.1. Pare anzitutto opportuno un “riepilogo d’insieme” dei motivi d’appello.

Sub I) l’appellante, nel dedurre la violazione di numerose disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001, oltre a eccesso di potere per insussistenza dei presupposti e illogicità, rimarca che la sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha considerato legittima la comminatoria della sanzione di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001.

Si sostiene che “le modestissime opere oggetto del giudizio, quantunque abusivamente realizzate, non potevano essere sanzionate” con la misura prevista dal citato art. 27, dovendo trovare applicazione l’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001.

Tali opere, infatti, infatti, ingloberebbero parti di un fabbricato legittimamente preesistente e, dunque, non potrebbero essere qualificate come “nuova costruzione” ma come “riqualificazione delle preesistenze”, e ciò ai sensi dell’art. 3, lett. e), numero 6, del d.P.R. n. 380/2001, atteso che le opere realizzate costituirebbero interventi pertinenziali comportanti la realizzazione di un volume inferiore al 20% dell’edificio principale alle quali accedono.

Pertanto, verrebbe in considerazione una “ristrutturazione” la cui realizzazione, quantunque abusiva, è soggetta unicamente alla sanzione prevista dall’art. 33 del citato decreto n. 380/2001 (interventi di ristrutturazione in assenza di permesso di costruire o in totale difformità).

La sanzione prevista dall’art. 33 differisce da quella prevista dall’art. 27, sia perché contempla una diffida preventiva rivolta all’autore dell’abuso e diretta a eseguire il ripristino, sia perché prevede un temine, e sia infine perché contempla l’alternatività tra sanzione pecuniaria e sanzione ripristinatoria, subordinando l’irrogazione di quest’ultima all’effettuazione di un accertamento tecnico il quale escluda che dall’eventuale ripristino possa determinarsi pregiudizio per la parte legittimamente realizzata.

Nella specie il prescritto accertamento tecnico manca, e tanto basta per considerare illegittimo il provvedimento demolitorio.

Tale accertamento, prosegue l’appellante, assume un rilievo particolare giacché la riduzione in pristino delle opere sanzionate, strutturalmente connesse ai corpi di fabbrica legittimamente preesistenti, comprometterebbe la funzionalità e la statica dei fabbricati medesimi.

Di conseguenza, il Comune doveva limitarsi, al più, a irrogare la sola sanzione pecuniaria di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n.380/2001.

Sotto una angolazione diversa, la sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha ritenuto non dimostrata la corrispondenza tra le opere abusive in contestazione, della cui demolizione si fa questione, e i manufatti ai quali il signor Vacca ha fatto riferimento con le istanze di condono prot. n. 6604, per l’ampliamento di 22 mq. , e n. 7186, per il locale di 14 mq. , entrambe del 28.2.1995. L’appellante muove dall’assunto per cui il Comune è obbligato a concludere il procedimento di condono prima di dare corso al procedimento repressivo con l’emissione dell’ingiunzione di demolizione: l’ampliamento di 22 mq. e il locale di 14 mq. hanno formato oggetto –e formano tuttora oggetto- di istanze di sanatoria edilizia, non ancora definite; l’avvenuta presentazione delle istanze di condono impone la preventiva definizione negativa di quei procedimenti perché si possa legittimamente procedere all’adozione della misura sanzionatoria.

L’appellante ribadisce che, a differenza di ciò che si afferma in sentenza, gli atti e i documenti depositati nel processo di primo grado proverebbero a) la riconducibilità delle opere sanzionate a quelle oggetto delle istanze di condono e, come rilevato, b) la violazione della normativa sul condono edilizio in base alla quale, in pendenza del relativo procedimento, deve considerarsi inibita l’adozione di misure sanzionatorie.

La sentenza avrebbe errato nel limitarsi a richiamare e ad evidenziare la sola relazione del Comune di Ischia.

Sub II) si sostiene che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui afferma che “l’intervento in questione risultava soggetto alla previa autorizzazione paesaggistica, titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi”.

Poiché l’anno di realizzazione delle opere è precedente al 1995, ciò determina la violazione della normativa che rende inopponibili gli abusi successivi alla realizzazione dell’abuso.

Viene poi riaffermata la natura pertinenziale delle opere eseguite, le quali sarebbero assai modeste e tali da non alterare l’assetto del territorio.

Attesa la loro irrilevanza urbanistico -edilizia, le opere in questione, anziché essere assoggettate a permesso di costruire, dovevano ritenersi soggette esclusivamente al regime della DIA, con il conseguente divieto di irrogare sanzioni ripristinatorie nel caso di abuso, e l’obbligo di applicazione unicamente di sanzioni pecuniarie, in base a quanto dispone l’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001.

La sanzione irrogata deve ritenersi comunque illogica e sproporzionata.

Sub III) si ritiene che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui afferma che “l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare l’emanazione della misura sanzionatoria”.

Parte appellante afferma in particolare che:

-non sarebbero stati valutati gli effetti dell’avvenuta presentazione delle due istanze di condono edilizio per le opere sanzionate, e neppure l’avvenuta formazione del silenzio – assenso sulle istanze medesime;

-non sarebbe stata correttamente vagliata la natura pertinenziale delle opere e, comunque, la irrilevanza urbanistica delle stesse, il che avrebbe dovuto escludere l’applicazione della sanzione ripristinatoria;

-non sarebbe stata valutata la circostanza che le opere eseguite dovevano essere qualificate come di “ristrutturazione” e, come tali, assoggettate alla sanzione di cui all’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001 e non a quella di cui all’art. 27;

-non sarebbe stata effettuata un’istruttoria, anche tecnica, idonea a verificare se dal ripristino ordinato potesse derivare un danno strutturale/funzionale all’edificio preesistente;

-in ogni caso, è stata inflitta la più grave delle sanzioni previste per gli abusi edilizi, senza un esame preventivo in ordine alla possibilità di applicare, in luogo della demolizione, la sanzione pecuniaria prevista dalla normativa vigente e senza motivare sulla scelta della sanzione;

-quantunque le opere sanzionate siano state realizzate circa 17 anni addietro (la prova dell’epoca della costruzione sarebbe fornita dalle istanze di condono del 1995), il Comune ha irrogato la più grave delle sanzioni previste senza avere considerato l’affidamento ingenerato nel ricorrente per effetto della pendenza delle istanze di sanatoria medesime e senza avere contemperato tale affidamento con eventuali esigenze concrete e attuali di interesse pubblico al ripristino.

Infine, sub IV), si sottolinea che la sentenza avrebbe sbagliato anche nella parte in cui non ha riconosciuto il difetto di motivazione nel quale è incorso il Comune con l’ordinanza di demolizione, priva di riferimento alcuno all’interesse pubblico, dopo che era trascorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso.

Risulta inoltre evidente –prosegue la parte appellante- la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata.

3.2. La tesi centrale sulla quale si basa l’appello sembra riguardare l’affermata erroneità della sentenza nella parte in cui è stata considerata non dimostrata la corrispondenza tra le opere abusive in contestazione, della cui demolizione cioè si fa questione, e i manufatti ai quali il signor Vacca aveva fatto riferimento con le istanze di condono prot. n. 6604 per il primo manufatto, di 22 mq. , si sostiene, e prot. n. 7186 per il secondo, di 14 mq., presentate il 28.2.1995 e tuttora non definite.

Parte appellante ribadisce che, ferma la corrispondenza suindicata, in base a quanto prevede l’art. 38 della l. 47 del 1985, e per giurisprudenza amministrativa pacifica, l’avvenuta presentazione delle istanze di condono imponeva la preventiva definizione negativa dei procedimenti di sanatoria prima di poter legittimamente procedere all’adozione della misura repressiva.

Parte appellante ribadisce in particolare che la riconducibilità delle opere sanzionate a quelle oggetto delle istanze di condono risulta comprovata in maniera adeguata.

Così però non è.

Le deduzioni di parte appellante non riescono a scalfire le conclusioni, ragionevoli e corroborate da una corretta lettura degli atti e dei documenti di causa, alle quali è giunto il Tar in sentenza.

Non risulta invero comprovata la coincidenza tra le opere abusive descritte sopra, e della cui ingiunzione di demolizione si fa questione, e le opere abusive denunciate con le istanze di condono n. 6604 e 7186.

L’insufficienza degli elementi offerti al riguardo dalla parte ricorrente, con la produzione della perizia tecnica di parte del geom. Ferrandino, emerge con chiarezza alla luce della documentata relazione, prot. n. 193 del 5.5.2010, depositata dal Comune in primo grado sub. doc. 1.

A fronte del “carattere meramente assertivo” della perizia di parte, che non consente di “cogliere, con l’ausilio di elementi descrittivi, grafici e fotografici – che pur avrebbero dovuto essere allegati alla domanda di condono e comunque prodotti a sostegno dei relativi assunti difensivi – l’effettiva riconducibilità delle opere in contestazione con quelle denunciate con le originarie domande di condono”, in sentenza si evidenzia, in maniera condivisibile e conforme alle risultanze documentali, che “lo stato dei luoghi è stato monitorato nel corso del tempo, in data 1.12.1994, 8.2.1995, 27.11.1998 ed, a tale data, non risultavano ancora realizzati gli ampliamenti in contestazione (mentre le domande di condono sono datate 28.2.1995).

In epoca successiva alla suddetta data sono stati effettuati ulteriori controlli (cfr. relazione tecnica sopra citata ed atti ad essa allegati), che hanno fatto emergere ulteriori significative modifiche dello stato dei luoghi e, segnatamente, gli ampliamenti in questione (sicchè)

una piana lettura della sequenza cronologica degli stadi evolutivi dell’opera induce a dubitare dell’affermata coincidenza delle opere in contestazione con quelle denunciate nelle mentovate istanze di condono, risultando il programma edificatorio coltivato e portato a compimento per effetto di lavori eseguiti in epoca successiva a quella di presentazione delle suddette istanze…”, e ciò in un contesto in cui grava sul privato ricorrente, ai sensi dell’art. 64, comma 1, del c.p.a., comprovare la corrispondenza tra le opere sanzionate e quelle che hanno formato oggetto delle istanze di condono.

In particolare, in base agli atti e ai documenti di causa è ragionevole ritenere che la domanda di condono prot. n. 6604/1995 abbia a oggetto soltanto il manufatto di mq. 47 circa oggetto dell’accertamento tecnico dell’1.2.1994, dell’8.2.1995 e del 27.11.1998, ampliato e completato nel corso degli anni; mentre la domanda di condono prot. n. 7186/1995 ha a oggetto esclusivamente la sistemazione del porticato esterno e la realizzazione di un deposito di mq. 9,70.

Stando agli atti, il manufatto di 22 mq. e quello di 14 mq. oggetto dell’ordinanza di demolizione n. 37 del 2011 non risultano avere formato oggetto di istanza di condono e sono da considerarsi, pertanto, puramente e semplicemente abusivi.

Non sembra inutile soggiungere che l’argomento secondo cui sulle due istanze di condono del 28.2.1995 si sarebbe formato il silenzio assenso è irrilevante e comunque errato.

Irrilevante, poiché va confermato che le istanze riguardano altri e diversi abusi realizzati dall’appellante sull’area, e non quelli sanzionati con l’ordinanza n. 37/2001 i quali ultimi, come rileva correttamente la difesa civica, sono privi di qualsivoglia “copertura”.

Errato poi perché nessun assenso può formarsi in modo tacito su istanze di condono in presenza di una disciplina vincolistica che esige, in quanto tale, l’espressione del parere della Soprintendenza ai sensi dell’art. 32 della l. n. 32 del 1985. Per giurisprudenza pacifica, infatti, il termine di 24 mesi di cui all'art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985, nel caso in cui sia richiesta l'acquisizione del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesistico, decorre soltanto, ai sensi del successivo comma 19, dall'emanazione del parere stesso (v. , “ex multis”, Cons. Stato, sez. IV, n. 5366 del 2016).

Sui restanti motivi di appello il Collegio osserva quanto segue.

In primo luogo, è corretta la qualificazione delle opere edilizie, realizzate su area assoggettata a vincolo paesaggistico, e della cui demolizione si tratta, come nuove costruzioni, e non come interventi pertinenziali.

Si tratta, come rilevato in sentenza, e come si desume dagli atti e dal preambolo dell’ordinanza di demolizione n. 37 del 2011, di un ampliamento di 22 mq. al piano superiore e della realizzazione, al piano inferiore del fabbricato, di un locale adibito a deposito di 14 mq. .

Vengono in considerazione opere edilizie che, per consistenza e tipologia, hanno comportato una trasformazione del territorio e del suolo tutt’altro che irrilevante e che in modo corretto sono state fatte ricadere nella categoria di interventi che richiedono il permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.

In particolare, non può trovare accoglimento la deduzione per cui verrebbero in rilievo opere di natura pertinenziale.

In proposito, più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.

La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica (cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 694 del 2017, n. 19 del 2016, n. 3952 del 2014; Sez. V, n. 817; del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).

Più in dettaglio, l'art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che occorre il permesso di costruire soltanto per gli interventi pertinenziali "che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale".

La giurisprudenza di questo Consiglio è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2012, n. 615, cit.).

Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24 luglio 2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opere, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.

Nella specie, a parte che non risulta comprovata la sussistenza del contenimento dell’ampliamento e del locale entro il limite del 20 % del volume dell’edificio principale assentito con la licenza edilizia del 1962, il carattere pertinenziale delle opere è escluso proprio in ragione del fatto che si tratta di un ampliamento e di un nuovo locale, che fanno corpo con un fabbricato preesistente, di per sé già in parte abusivo e oggetto di istanze di condono.

In secondo luogo, la sentenza impugnata ha correttamente considerato rilevante anche il fatto che l'ordine di demolizione trova un fondamento giuridico autonomo nella disposizione speciale che sanziona la violazione del vincolo paesaggistico (cfr. art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001).

Il Comune di Ischia rientra, infatti, nell’ambito di applicazione del Piano Territoriale Paesistico isolano, approvato con d. m. dell’8.2.1999 (cfr. art. 1 del d. l. n. 312 del 1985, conv. in l. n. 431/1985), come in sentenza non si è mancato di rammentare, con la specificazione ulteriore che dal preambolo della ordinanza di demolizione impugnata in primo grado si precisa che i manufatti si trovano entro un’area dichiarata di notevole interesse pubblico, ai sensi della l. n. 1497 del 1939, con d. m. del 9.9.1952 (cfr. anche il d. m. 23.5.1958).

Ciò implica che anche per tale ragione si imponeva comunque la previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica - atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio - in mancanza della quale l'applicazione della sanzione demolitoria era doverosa.

L'art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce infatti all'amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l'attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato.

Bene dunque la sentenza impugnata ha dapprima osservato che la consistenza delle nuove opere realizzate, comportanti una significazione trasformazione dell’esistente, per effetto degli incrementi di volume e di superficie che ne sono conseguiti, e l’assenza di un vincolo, oggettivo e comprovato, di strumentalità funzionale ad altra “res”, escludono l’accoglibilità della tesi con la quale “parte ricorrente rivendica la natura meramente pertinenziale del manufatto in contestazione”, “tanto più che vengono qui in rilievo non già autonome strutture ma ampliamenti che fanno corpo con il fabbricato preesistente”; e ha quindi rilevato che “gli interventi edilizi sanzionati sono idonei a dare vita a opere edilizie del tutto nuove cui si correlano incrementi di superficie e di volume con conseguente, significativa trasformazione dell’esistente e alterazione dell’originario stato dei luoghi, di tal che si imponeva il previo rilascio, oltre che dell’autorizzazione paesistica, giacché l’intervento ricade in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, anche del permesso di costruire; e ha rimarcato che l’autorizzazione paesistica va acquisita in via preventiva ed è ”titolo autonomo non conseguibile a sanatoria” e ciò sulla base del combinato disposto di cui agli articoli 146 e 167, commi 4 e 5, del t. u. n. 42 del 2004, il quale ultimo esclude sanatorie per interventi che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi”.

Non pare superfluo aggiungere che non assume rilievo, ai fini di una verifica critica in ordine alla legittimità e alla correttezza sia dell’ordinanza di demolizione e sia delle statuizioni pronunciate dal Tar al riguardo, il profilo, sul quale l’appellante insiste, deducendo anche il vizio di sproporzione tra natura degli abusi e misura repressiva adottata, inerente alla modesta entità delle opere abusive.

Riguardo alla possibilità di applicare, nel caso di specie, la sanzione pecuniaria, anziché quella ripristinatoria, e ciò sulla base di quanto dispongono gli articoli 33 comma 2 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, anzitutto, come si rileva correttamente in sentenza, le disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001 richiamate nell’appello non assumono rilievo nella fattispecie in discussione, trovando applicazione gli articoli 27 e 31 del decreto medesimo.

In secondo luogo, e in ogni caso, l’applicabilità della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 33, in deroga alla regola generale della demolizione, propria degli illeciti edilizi, presuppone la dimostrazione della oggettiva impossibilità di procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, sul piano delle conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio, il che nella specie non risulta comprovato.

Neppure risulta che l’appellante abbia formulato una istanza in questo senso al Comune.

Infine, l'applicabilità o meno della sanzione pecuniaria può essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico (conf. Cons. Stato, VI, n. 4855 del 2016, nel senso che “la valutazione circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire: con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell'incidenza della demolizione sulle opere non abusive” -conf. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1940).

Per quanto attiene infine alla necessità, o meno, di un obbligo motivazionale “rinforzato”, segnatamente in ordine all’esistenza e alla indicazione di un interesse pubblico attuale e concreto alla applicazione della sanzione demolitoria, avuto anche riguardo a una comparazione di detto interesse con gli altri interessi coinvolti, essendo trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell’abuso e l’emissione dell’ordinanza di demolizione n. 37/2011, questo Collegio di appello ritiene sufficiente fare richiamo alla recente sentenza dell’Ad. plen. di questo Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, con la quale si è statuito che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.

In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza confermata.

Tuttavia, talune peculiarità della vicenda in punto di fatto giustificano in via eccezionale la compensazione integrale delle spese e dei compensi di causa del grado di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.

Spese del grado del giudizio compensate.

Dispone che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 settembre 2017, con l'intervento dei magistrati:

Sergio Santoro, Presidente

Marco Buricelli, Consigliere, Estensore

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Giordano Lamberti, Consigliere

Italo Volpe, Consigliere

         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Marco Buricelli        Sergio Santoro