Consiglio di Stato Sez. VI n. 309 del 13 gennaio 2020
Urbanistica.Presupposti per la qualifica di pertinenza urbanistica.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, ma non anche ad opere che, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cd. principale e non siano coessenziali alla stessa, tali , cioè, che non ne risulti possibile una diversa destinazione economica. Invero, la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando sussiste un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa in cui esso inerisce. A differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi, il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta carico urbanistico, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con l'edificio principale.
Pubblicato il 13/01/2020
N. 00309/2020REG.PROV.COLL.
N. 07517/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7517 del 2013, proposto da
Di Gennaro Lucia, quale legale rappresentante della S.r.l. "O' Marenaro", rappresentata e difesa dagli avvocati Renato De Lorenzo, Giuseppe Ruberto, con domicilio eletto presso lo studio Ferruccio De Lorenzo in Roma, via L. Luciani, 1;
contro
Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Andreottola, Bruno Crimaldi, Fabio Maria Ferrari, Anna Pulcini, con domicilio eletto presso lo studio Gian Marco Grez in Roma, Lungotevere Michelangelo, 9;
Autorità Portuale di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Antonio Del Mese, con domicilio eletto presso lo studio Nicola Marcone in Roma, piazza dell'Orologio, 7;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE IV n. 02650/2013, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Napoli e dell’Autorità Portuale di Napoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il Cons. Francesco Mele e uditi, per le parti, gli avvocati Renato De Lorenzo, Giuseppe Ruberto, Giuseppe Pecorilla su delega dell'avv. Bruno Crimaldi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con sentenza n. 2650/2013 del 22-5-2013 il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quarta) rigettava il ricorso principale ed i motivi aggiunti proposti dalla signora Di Gennaro Lucia, nella qualità di legale rappresentante della s.r.l. “O’ Marenaro”, intesi ad ottenere l’annullamento dei seguenti atti: 1) disposizione dirigenziale del Comune di Napoli n. 586 del 26-1-2010, recante l’ordine di demolizione di opere abusive realizzate in via Nuova Nisida n. 36 (ricorso principale); 2) ingiunzione di sgombero del Presidente dell’Autorità Portuale di Napoli n. 2 del 22-12-2011 (primo atto di motivi aggiunti); disposizione dirigenziale del Comune di Napoli n. 126 del 2-3-2005, recante diniego di permesso di costruire per installazione di una struttura in legno di circa 150 mq. adibita ad attività di ristoro (secondo atto di motivi aggiunti).
La prefata sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“1. - Con ricorso straordinario al Capo dello Stato notificato il 16 settembre 2011 la società ricorrente ha impugnato la disposizione dirigenziale n. 586 del 26 gennaio 2010, recante l’ordine di demolizione di opere abusive in via Nuova Nisida n. 36, consistenti nella “perimetratura” mediante blocchi alti 85 centimetri e legno dell’area esterna al chiosco ove la s.r.l. “O’ Marenaro” smercia cibi cotti, pavimentata in calcestruzzo, estesa 144 metri quadrati, ricoperta da tettoia in perline lignee e sovrastante guaina bituminosa; mentre la restante superficie di metri quadrati 102 risulta pavimentata con assi di legno e coperta da incannucciato.
A seguito di atto di opposizione volto alla trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, notificato dal Comune in data 12 ottobre 2011, la ricorrente ha proposto rituale atto di costituzione in giudizio davanti a questo TAR.
2. - La medesima espone che il sig. Gaetano Baratto aveva ottenuto, in data 3 giugno 1981, la concessione edilizia n. 87 da parte del Sindaco di Napoli, in forza della quale il titolare aveva potuto edificare un chiosco esteso 52,48 metri quadrati (sostituendolo ai due chioschi che ivi precedentemente sorgevano), che ha poi adibito alla vendita di cibi cotti.
Nell’anno 1998 -continua la ricorrente- il sig. Baratto aveva richiesto al Comune di Napoli l’autorizzazione per procedere alla copertura smontabile da realizzarsi nell’area antistante il chiosco, su terreno del demanio marittimo.
3. - A seguito di parere della Commissione edilizia integrata, il Sindaco di Napoli aveva rilasciato all’interessato l’autorizzazione ai sensi dell’art. 7 della L. n. 1497\1939, recante il numero 5 del 7 ottobre 1998, per la costruzione di una copertura smontabile; tale provvedimento era stato poi trasmesso alla competente Soprintendenza ai Beni ambientali ed architettonici, la quale aveva rilasciato parere favorevole all’intervento (senza, dunque, esercitare il proprio potere di annullamento dei nulla osta paesaggistici previsto dalla L. n. 1497\1939), precisando, tuttavia, che l’efficacia dell’atto ampliativo doveva ritenersi circoscritta al periodo maggio-ottobre 1998.
Tale assunto era stato, però, smentito dalla nota del Comune di Napoli prot. 293 del 23 febbraio 1999, diretta alla Soprintendenza, con la quale l’Ente locale aveva affermato l’assenza di termini di scadenza del provvedimento in questione.
4. - Con delibera n. 187 del 15 maggio 2000 l’Autorità Portuale di Napoli aveva autorizzato la s.a.s. “Eredi di Baratto Gaetano” di Baratto Salvatore a subentrare nella titolarità della concessione demaniale marittima rilasciata al sig. Baratto Gaetano; dopodiché, con successiva delibera n. 418 del 23 ottobre 2001 la medesima Autorità aveva concesso alla citata s.a.s. la concessione per la realizzazione di una struttura smontabile in legno coperta estesa 143,52 metri quadrati sull’area demaniale marittima oggetto della concessione, antistante il ricordato chiosco.
5. - Frattanto, però, con atto di cessione di ramo d’azienda del 16 maggio 2001, l’odierna ricorrente signora Lucia Di Gennaro era subentrata nella titolarità del compendio aziendale, e con successiva istanza del 25 settembre 2001 aveva chiesto la voltura a proprio favore della concessione demaniale marittima.
6. - Infine, la società ricorrente aveva ottenuto dalla competente Autorità una nuova concessione di suolo demaniale, relativa sia al chiosco che all’area antistante estesa 143,52 metri quadrati, come oggi delimitata dalla ricorrente, nonché per altra area attigua estesa 65 metri quadrati, valevole dal 21 gennaio 2003 al 20 gennaio 2007.
7. - L’impugnazione contro la determinazione dirigenziale del Comune che, ai sensi dell’art. 27 T.U. n. 380\2001, ha ingiunto la rimozione delle opere è affidata ai seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 1439\1939, del d.lgs. n. 490\1999 e del DPR n. 380\2001, eccesso di potere, travisamento, ingiustizia manifesta: la copertura di circa 143 metri quadrati, oggetto del provvedimento impugnato, sarebbe stata realizzata lecitamente anche sotto il profilo edilizio, valendo a tal fine l’autorizzazione sindacale n. 5 del 1998; sarebbe poi errata la deduzione della Soprintendenza, relativa alla temporaneità dell’efficacia di detto atto ampliativo;
2) Eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e diritto, contraddittorietà, illogicità, ingiustizia manifesta, in quanto la deliberazione autorizzatoria dell’Autorità Portuale di Napoli evidenzia il possesso di tutti i presupposti richiesti dalla legge per il mantenimento della citata struttura;
3) Violazione dell’art. 7 L. n. 94\1982, dell’art. 1 L. 10\1977, degli articoli 7 e 10 L. 47\1985, del d.lgs. n. 42\2004, eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e diritto, carenza istruttoria, travisamento: in ogni caso, la struttura in questione presenta caratteri di pertinenzialità sotto il profilo urbanistico, e non sarebbe stata soggetta a permesso di costruire, bensì –all’epoca- ad autorizzazione gratuita;
4) Violazione degli articoli 7 ed 8 L. 241\1990.
8. - Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 5 marzo 2012 e depositato il successivo giorno 30, la società in epigrafe ha, inoltre, impugnato la deliberazione del Presidente dell’Autorità Portuale di Napoli n. 2 del 22 dicembre 2012, recante l’ingiunzione a rimuovere le opere poste sull’area esterna al ridetto chiosco.
Tale ingiunzione è motivata sia sulla scorta della abusività dei manufatti constatata dall’esame dei provvedimenti repressivi del Comune di Napoli, che in ragione della persistenza di un debito società verso l’Autorità Portuale pari ad euro 13.411,96 oltre interessi di mora della per canoni pregressi e spese legali relative ad un precedente giudizio fra le parti.
La ricorrente ha impugnato detto provvedimento per i seguenti motivi:
1) Eccesso di potere, carenza istruttoria e travisamento dei fatti: la tettoia antistante il chiosco non sarebbe stata abbattuta nell’anno 2005, come asserisce l’Autorità Portuale, in quanto il certificato di ultimazione dei lavori del 23 maggio 2005 emesso dalla Unità demolizioni del Comune riguarderebbe il c.d. “Lotto A”, ovvero abusi commessi negli anni 1994, 1995 e 1996, ossia due anni prima della realizzazione della tettoia, mai abbattuta;
2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 1439\1939, del d.lgs. n. 490\1999 e del DPR n. 380\2001, eccesso di potere, travisamento, ingiustizia manifesta, posta l’asserita durata indeterminata del decreto sindacale n. 5 del 7 agosto 1998;
3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. 1487\1939, violazione d.lgs. n. 42\2004 e del DPR n. 380\2001, violazione degli articoli 36, 54 e 1161 del codice della navigazione: il possesso di tutti i titoli edilizi necessari in capo alla ricorrente refluirebbe sulla legittimità del provvedimento di sgombero emesso dalla Autorità Portuale;
4) Eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e diritto, contraddittorietà, illogicità, ingiustizia manifesta: lo stesso provvedimento di autorizzazione all’occupazione di suolo demaniale del 23.10.2001 attesterebbe il possesso di tutti i necessari titoli da parte della società;
5) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma II lettera a) L. 94\1982, dell’art. 1 L. n. 10\1977, degli articoli 7 e 10 L. 47\1985, del d.lgs. n. 42\2004, errore sui presupposti, carenza istruttoria, travisamento: in ogni caso, ove si ritenesse la ricorrente munita di una autorizzazione a soli fini paesaggistici, la caratteristica di amovibilità della tettoia comporterebbe che la relativa realizzazione non implica il doversi munire del permesso di costruire.
9. - Infine, con ricorso per motivi aggiunti notificato il 22 marzo 2012 e depositato il 5 aprile successivo, la ricorrente ha impugnato la disposizione dirigenziale n. 126 del 2 marzo 2005, che assume conosciuta solo il 18 gennaio 2012 a seguito di deposito in giudizio da parte del Comune, con cui era stato negato al suo dante causa Baratto Salvatore il permesso di costruire relativo all’installazione della struttura atta a coprire l’area di circa 150 metri quadrati antistante l’esercizio di rivendita.
Tale parte dell’impugnazione si articola sui seguenti motivi:
1) Eccesso di potere, carente istruttoria, travisamento dei fatti;
2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 bis L. 241\1990, nullità per omessa notifica al destinatario, nullità della notifica;
3) Violazione e falsa applicazione DPR n. 380\2001, del DPGRC n. 4741\1998, violazione dell’art. 22 del R.E.C., eccesso di potere per travisamento dei fatti, carente istruttoria ed ingiustizia manifesta;
4) Eccesso di potere, errore sui presupposti di fatto e diritto, contraddittorietà, illogicità ed ingiustizia manifesta;
5) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma II lettera A) L. 94\1982, dell’art. 1 L. n. 10\1977, degli articoli 7 e 10 L. 47\1985, del d.lgs. n. 42\2004, errore sui presupposti, carenza istruttoria, travisamento […]”.
Il giudice di primo grado riteneva l’infondatezza dell’impugnazione, in sintesi evidenziando che:
-l’autorizzazione sindacale n. 5 del 1998, rilasciata dal Comune di Napoli, aveva valenza esclusivamente paesaggistica e non legittimava il manufatto sotto il profilo edilizio;
-l’esistenza di un titolo edilizio non poteva desumersi dall’avvenuto rilascio, da parte dell’Autorità Portuale di Napoli, di concessioni demaniali per il mantenimento della tettoia, né quest’ultima poteva dirsi opera precaria, come tale non necessitante di alcun titolo edilizio;
-l’ordine di demolizione era stato, pertanto, legittimamente emanato in presenza di un’opera non assentita da permesso di costruire o concessione edilizia;
-l’ingiunzione di sgombero adottata dall’Autorità Portuale era legittima in quanto fondata sulla abusività edilizia delle opere realizzate, nonché sul mancato pagamento dei canoni concessori;
-la signora Di Gennaro non aveva interesse a contestare il provvedimento comunale n. 126 del 2 marzo 2005, recante diniego di permesso di costruire per l’installazione della struttura in legno, atteso che ella era stata destinataria di un successivo diniego di permesso di costruire (n. 407 del 2006) per la sistemazione dell’area, mai impugnato.
Avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo la signora Di Gennaro, nella qualità di legale rappresentante della società “O’Marenaro” ha proposto appello, deducendone l’erroneità e chiedendone l’integrale riforma, con conseguente accoglimento del ricorso di primo grado e dei motivi aggiunti.
Ha in proposito articolato i seguenti motivi di appello: 1) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione delle leggi della Regione Campania n. 65/1981 e n. 10/82 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 1487/1939 – violazione del d.lgs. n. 42/2004 – violazione del D.P.R. n. 380/2001 – violazione degli artt. 36, 54 e 1161 del Codice della navigazione; 2) Error in iudicando – eccesso di potere – errore sui presupposti di fatto e di diritto – contraddittorietà – illogicità ed ingiustizia manifesta; 3) Error in iudicando – violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, lett. a) della legge n. 94/82 – violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 10/1977 – violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 47/1985 – violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 42/2004 – eccesso di potere- errore sui presupposti di fatto e di diritto – carenza di istruttoria e di travisamento; 4) Error in iudicando – eccesso di potere – errore sui presupposti di fatto e di diritto – carente istruttoria e travisamento; 5) Error in iudicando – eccesso di potere – carente istruttoria e travisamento dei fatti; 6) Error in iudicando – violazione e falsa applicazione dell’articolo 26 del c.p.a. – travisamento ed ingiustizia manifesta.
Si sono costituiti in giudizio il Comune di Napoli e l’Autorità Portuale di Napoli, deducendo l’infondatezza dell’appello e chiedendone il rigetto.
Con ordinanza n. 4825/2017 del 18-10-2017 sono stati disposti incombenti istruttori.
Le parti hanno depositato memorie illustrative e di replica, nonché documentazione.
La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione alla pubblica udienza del 21 novembre 2019.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello la signora Di Gennaro lamenta: Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione delle leggi della Regione Campania n. 65/1981 e n. 10/82 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 1487/1939 – violazione del d.lgs. n. 42/2004 – violazione del D.P.R. n. 380/2001 – violazione degli artt. 36, 54 e 1161 del Codice della navigazione.
Censura la gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto che l’autorizzazione n. 5 rilasciata dal Sindaco di Napoli il 7 agosto 1998 non costituisce titolo sufficiente all’edificazione della tettoia antistante il chiosco adibito ad attività di ristoro, valendo la stessa unicamente quale atto abilitativo sotto il profilo paesaggistico-ambientale.
Evidenzia che le opere insistenti sul suolo demaniale, oggetto del provvedimento di sgombero impugnato, risultano legittime sia sotto il profilo urbanistico-edilizio che paesaggistico.
Quanto al manufatto in muratura di mq. 52, 48, rileva che lo stesso è stato edificato in virtù di concessione edilizia n. 87 del 3-6-1981, mentre la copertura smontabile in legno di mq. 143, 52, realizzata nell’area di pertinenza del chiosco, ha ottenuto, con provvedimento sindacale n. 5 del 7-8-1998 prot. n. 2248, l’autorizzazione ex art. 7 della legge n. 1497/1939, sulla quale la Soprintendenza non ha esercitato il potere di annullamento.
Detta autorizzazione, inoltre, come chiarito nella nota prot. n. 293 del 23-2-1999 del Servizio Edilizia Privata del Comune di Napoli, non limita l’intervento alla sola stagione maggio-ottobre 1998, ma ha durata indeterminata.
La signora Di Gennaro rileva ancora che la richiamata autorizzazione sindacale n. 5 del 1998 ha efficacia anche sotto il profilo edilizio, evidenziando che, una volta intervenuto il parere della Commissione edilizia integrata, il successivo provvedimento del Sindaco ha valore di titolo autorizzatorio sia ai fini edilizi che paesistici.
D’altra parte, la Commissione edilizia integrata aveva conosciuto la compatibilità edilizia dell’intervento, precisando che esso “rientra tra quelli previsti dall’art. 33 della citata variante occidentale”; di conseguenza, ove il procedimento fosse stato limitato alla sola valutazione della compatibilità paesaggistica, non si comprenderebbero le ragioni della suddetta motivazione, esplicitata con riferimento anche alla conformità urbanistica.
Il motivo di appello non merita favorevole considerazione per le ragioni che di seguito si espongono.
Deve preliminarmente essere chiarito che l’ordine di demolizione impugnato, n. 586 del 26-11-2010, non ha ad oggetto il manufatto in muratura di mq. 52, 48, adibito alla vendita di cibi cotti, autorizzato con concessione edilizia n. 87 del 1981.
L’oggetto del provvedimento demolitorio, invero, è individuabile, in via esclusiva, nel manufatto realizzato nella parte anteriore di esso, come chiaramente si evince dai contenuti del suddetto atto.
In esso, invero, si legge che la signora Di Gennaro “ha eseguito, senza il prescritto permesso di costruire, le seguenti opere in Napoli, via Nuova Nisida n.36: In ampliamento ed a servizio del manufatto di mq. 52,00 adibito ad attività commerciale di ristorazione; Perimetratura di area esterna, pavimentata in cls, di mq. 144 a mezzo muratura di blocchi di H variabile da mt. 0,50 a mt. 0,85, chiusa per mq. 42 con struttura in legno di H mt. 1,00 e ricoperta da tettoia in perline lignee e soprastante guaina bituminosa; la restante porzione di mq. 102, interamente coperta da assiti in legno orizzontali e verticali con sovrastante incannucciata”.
E’ necessario, pertanto, verificare se la suddetta struttura risulti effettivamente assentita sotto il profilo paesaggistico ed edilizio.
Rileva il Collegio che la copertura di mq. 143, 52 è assistita dal titolo autorizzatorio n. 5 del 7 agosto 1998.
Per comprenderne l’effettiva portata abilitativa, è necessario operare riferimento ai suoi contenuti.
Essa ha ad oggetto “Autorizzazione ex art. 7 della l. 29.6.39 n. 1497 e successive modifiche e integrazioni” e concerne “le opere da eseguirsi in Napoli alla Strada ex Lazzaretto di Nisida consistenti nell’installazione di una copertura smontabile nell’area di pertinenza del chiosco adibito ad attività di ristoro”.
Il Sindaco, dopo aver richiamato la relazione del responsabile del procedimento del Servizio edilizia privata del 20-5-1998, aver dato atto che l’immobile ricade in area vincolata ai sensi della legge n. 1497/1939 ed aver evidenziato che vi è stato parere favorevole della Commissione Edilizia Integrata nella seduta del 13-7-1998 ex art. 6, comma 2, della legge regionale n. 65 del 1981, “DECRETA di concedere al sig. Baratto Salvatore, secondo le disposizioni dettate dalla C.E.I. relativamente alla pratica edilizia in oggetto indicata, l’autorizzazione di cui all’art. 7 della legge 29.6.1939 n. 1497 e art. 1 ss. Legge 8.8.1985 n. 431, salvo diversa prescrizione del Ministero B.C.A.”.
Orbene, rileva la Sezione che l’inequivoca portata letterale del provvedimento, tanto con riferimento all’oggetto riportato quanto al dispositivo, evidenzia che esso è un’autorizzazione paesaggistica e non anche una autorizzazione edilizia.
L’autorizzazione rilasciata è, invero, espressamente qualificata quale “autorizzazione ex art. 7 della l. 29.06.39 n. 1497 e successive modifiche e integrazioni” ovvero quale “autorizzazione di cui all’art. 7 della legge 29.06. 1939 n. 1497 e art. 1 ss. legge 08.08.1985 n. 431”.
Non vi è alcun riferimento alla valenza anche edilizia del provvedimento, mancando al riguardo ogni determinazione dispositiva dell’autorità amministrativa.
Né tale valenza edilizia può desumersi dai contenuti del parere espresso dalla Commissione Edilizia Integrata nella seduta del 13 luglio 1998.
Se è vero che questa evidenzia nel preambolo “ letta la relazione istruttoria del Responsabile del procedimento e in particolare la qualificazione tecnico giuridica dell’intervento nonché la valutazione sulla conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie” (tale relazione istruttoria, del 20 maggio 1998, precisa che “l’intervento richiesto è qualificabile come manutenzione straordinaria prevista all’art. 33 della citata variante occidentale”), assume comunque valenza dirimente la circostanza che la portata dispositiva del provvedimento è stata espressamente limitata ai profili paesaggistici, attraverso il richiamo all’articolo 7 della legge n. 1497/1939 ed alla legge n. 431 del 1985.
La tesi di parte appellante, invero, avrebbe potuto trovare condivisione solo ove, richiamandosi il parere della C.E.C.I., l’autorità sindacale (rectius, l’assessore delegato) si fosse genericamente limitato al rilascio dell’autorizzazione richiesta, potendo in tal caso l’effetto abilitativo estendersi, in ragione del richiamo a tale parere ed alla relazione del responsabile del procedimento, anche ai profili edilizi.
Ciò posto, ritiene il Collegio che l’assenza di un titolo edilizio è di per sé sufficiente a ritenere legittima l’ingiunta demolizione, risultando, pertanto, irrilevante, ai fini di un diverso esito, indagare se la richiamata autorizzazione n. 5 del 1998 avesse durata temporanea ( fino al 30-10-1998) ovvero carattere stagionale (riferita al periodo maggio-ottobre di ogni anno); non omettendosi, peraltro, di osservare che l’autorizzazione è rilasciata “secondo le disposizioni dettate dalla C.E.I.” e che quest’ultima, nella seduta del 13 luglio 1998, rendendo parere favorevole, precisa comunque che la struttura “ deve essere rimossa entro il 30-10-1998”.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte il motivo di appello risulta, pertanto, infondato.
Con il secondo motivo la signora Di Gennaro lamenta: Error in iudicando – eccesso di potere – errore sui presupposti di fatto e di diritto – contraddittorietà – illogicità ed ingiustizia manifesta.
Evidenzia che la sussistenza di tutti gli atti di assenso richiesti dalla legge per la realizzazione dell’opera era stata rimarcata dall’Autorità Portuale di Napoli, la quale, con delibera n. 418 del 23-10-2001, aveva autorizzato la s.a.s. Eredi di Baratto Gaetano alla “realizzazione di una struttura smontabile in legno a copertura dell’area demaniale marittima di mq. 143, 52, già in concessione (adibita alla posa di tavolini e sedie), antistante al manufatto di mq. 52,48, anch’esso già in concessione (adibito alla vendita di cibi cotti)”.
Se è vero che l’Autorità Portuale non è competente alla cura degli interessi pubblici relativi alla materia edilizia, è indubitabile che le valutazioni svolte erano state rese sulla base di quanto comunicato dal Comune di Napoli ogni volta che occorreva procedere al rinnovo della concessione demaniale, che altrimenti non avrebbe potuto essere accordato.
Non era, pertanto, dato di comprendere quale mutamento dello stato di fatto delle opere si fosse verificato nel periodo successivo al rilascio della concessione demaniale n. 199 del 2006.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
L’avvenuto precedente rilascio di concessioni demaniali non rende il manufatto lecito sotto il profilo edilizio, quando manchi l’atto abilitativo all’uopo previsto dalla normativa.
Invero, essendo l’Autorità Portuale preposta alla cura dell’interesse pubblico demaniale e non anche di quello urbanistico-edilizio, le sue determinazioni favorevoli non costituiscono assentimento edilizio e, pertanto, non risultano di ostacolo all’adozione di provvedimenti sanzionatori che si fondino sulla mancanza del prescritto titolo edificatorio.
In buona sostanza, l’affermazione, in sede di rilascio di concessione demaniale, della sussistenza delle autorizzazioni presupposte non supplisce al titolo edilizio, qualora lo stesso non risulti essere stato rilasciato dall’autorità competente.
Deve, d’altra parte, essere evidenziato che il riferimento alle pregresse autorizzazioni – operato dalla delibera n. 418 del 23-10-2001 dell’Autorità Portuale ed invocato dalla signora Di Gennaro – riguarda “l’autorizzazione ex art. 7 della legge n. 1497/1939 rilasciata dal Comune di Napoli con nota prot. n. 5 del 7.8.1998”, mentre non vi è richiamo ad alcuna autorizzazione o concessione edilizia.
Considerato – come visto nella disamina del primo motivo di appello – che il richiamato atto comunale n. 5 del 1998 è una autorizzazione paesaggistica, non può desumersi dai provvedimenti ovvero dai comportamenti dell’Autorità Portuale l’esistenza di un titolo edilizio alla realizzazione del manufatto per cui è causa.
Correttamente, pertanto, il Tribunale ha rigettato il secondo motivo del ricorso di primo grado, con il quale si intendeva affermare la regolarità della tettoia anche sotto il profilo urbanistico–edilizio, rilevando “che la sussistenza di tutti gli atti di assenso richiesti dalla legge per la costruzione delle opere in questione è stata rimarcata dalla stessa Autorità Portuale di Napoli […] evidenziando l’avvenuto rilascio di tutti i pareri e le autorizzazioni richieste dalla legge […]” e che “le presunte incompatibilità dedotte dal Comune di Napoli nelle citate note del 2008, richiamate nel verbale di sopralluogo del 17.11.2010, sono del tutto insussistenti”.
Con il terzo motivo di appello la signora Di Gennaro lamenta: Error in iudicando – violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, lett. a) della legge n. 94/82 – violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 10/1977 – violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 47/1985 – violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 42/2004 – eccesso di potere- errore sui presupposti di fatto e di diritto – carenza di istruttoria e di travisamento.
Ella deduce che, anche a voler ritenere che l’autorizzazione comunale n. 5 del 7-8-1998 fosse efficace ai soli fini paesaggistici, i provvedimenti impugnati dovevano ritenersi illegittimi in quanto la tettoia, essendo completamente smontabile, era sottratta al regime della concessione edilizia.
Tale specifico titolo era previsto per le attività comportanti “trasformazione urbanistica ed edilizia” del territorio, mentre, per gli interventi aventi scarsa incidenza sulla trasformazione del territorio, l’articolo 7 della legge n. 94/1982 prevedeva il regime dell’autorizzazione gratuita.
In particolare, la tettoia per cui è causa rientra nella categoria delle pertinenze, per le quali l’articolo 7, comma 2, lett. a) della legge n. 94 del 1982 contempla il rilascio dell’autorizzazione gratuita.
Nella specie, l’autorizzazione si era formata in virtù del silenzio assenso, conformemente alla previsione dell’articolo 7, comma 3, della richiamata legge n. 94/1982.
La signora Di Gennaro rileva, infine, che, anche a voler ritenere non formato il titolo silenzioso, in ogni caso non poteva essere adottata ordinanza di demolizione, in quanto, ai sensi dell’articolo 10, comma 1, della legge n. 47/85, per gli interventi edilizi eseguiti in assenza o in difformità dall’autorizzazione, era prevista una sanzione pecuniaria “pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione delle opere e comunque in misura non inferiore a lire cinquecentomila”.
Il motivo di appello non è meritevole di favorevole considerazione.
E tanto per le ragioni che di seguito si svolgono.
Al fine di scrutinare il mezzo di gravame è necessario evidenziare le caratteristiche dell’opera realizzata e della quale è stata ingiunta la demolizione.
Vale in proposito la descrizione contenuta nel verbale di sopralluogo congiunto del 17-11-2010, nel quale si legge quanto segue.
“La predetta area scoperta allo stato di mq. 142.00 si presenta in una zona prospettante l’ingresso di mq. 42,00 perimetrata da muratura di H MT. 0,50 sormontata da grigliati in legno intervallati da due aperture complete di cancelletti sempre in legno. Detta area è totalmente ricoperta da perline in legno e sovrastante guaina bituminosa ancorata ad assiti in legno orizzontali e verticali; contiguamente l’ulteriore area di mq. 100.00 risulta perimetrata da muratura di H MT. 1.00 coronata in cotto con sovrastante grigliato in legno di H MT. 1.10 il tutto sormontato da struttura in assiti in legno orizzontale e verticale con copertura in incannucciata. L’altezza totale delle due strutture a doppia falda varia da MT. 2.90 a MT. 3.40. Tutta la superficie di mq. 142.00 risulta pavimentata in c.l.s. con sovrastante bitume plastificato color rosso amaranto. Si precisa che la struttura relativamente alla porzione di mq. 42 risulta affogata nella muratura perimetrale e nel calpestio. Nella restante parte di mq. 100.00, la stessa risulta bullonata a mezzo piastre nel calpestio. L’intera struttura esterna è dotata di nr. nove punti luce”.
Da quanto sopra emerge che trattasi di una struttura di copertura dell’area attigua all’originario manufatto in muratura avente rilevanti dimensioni, in quanto estesa per circa mq. 142 con altezza variabile da mt. 2.90 a mt. 3.40.
Essa si caratterizza, poi, per l’esistenza di una parziale chiusura perimetrale in blocchi di muratura di altezza variabile da mt. 0,50 a mt. 1,00, connotata, altresì, da struttura portante in legno in parte affogata nella pavimentazione e nella muratura ed in parte infissa al suolo attraverso bullonamento.
La consistenza del manufatto è visivamente riscontrabile dalla documentazione fotografica allegata agli atti di causa nonché dall’elaborato prodotto dal privato nella pratica edilizia n. 90 del 1998.
La Sezione ritiene che la consistenza del manufatto (dimensioni e caratteristiche costruttive) consente di qualificarlo come opera che determina una modificazione urbanistico-edilizia del territorio, come tale soggetta al previo rilascio della concessione edilizia (oggi permesso di costruire).
Non risulta, pertanto, condivisibile la prospettazione dell’appellante, intesa a ricomprendere il manufatto per cui è causa nella categoria delle pertinenze urbanistiche e,dunque, assoggettata al regime dell’autorizzazione edilizia ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 94 del 1982.
Ed, invero, la nozione di pertinenza urbanistica è più ristretta rispetto a quella civilistica, definita dall’articolo 817 del codice civile.
Viene, infatti, affermato in giurisprudenza che la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale, ma non anche ad opere che, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera cd. principale e non siano coessenziali alla stessa, tali , cioè, che non ne risulti possibile una diversa destinazione economica (cfr. Cons. Stato, IV, 3-6-2019, n. 3703; sez. VI, 13-3-2017, n. 1155).
Invero, la pertinenza urbanistico-edilizia è configurabile allorquando sussiste un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa in cui esso inerisce (cfr. Cons. Stato, II, 22-7-2019, n. 5130).
A differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi, il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche allorquando è sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta carico urbanistico, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con l’edificio principale.
Rileva la Sezione che nella fattispecie in esame, pur potendosi cogliere l’elemento della destinazione della copertura per cui è causa al servizio della costruzione destinata alla preparazione ed alla vendita dei cibi cotti, difetta l’elemento essenziale della ridotta consistenza del manufatto.
Questo, invero, occupa una superficie di oltre 140 metri quadrati, che non può, in relazione alle sue dimensioni, essere considerata meramente accessoria alla costruzione in muratura, che si estende per soli 53 metri quadrati.
La natura accessoria, qualificante l’opera pertinenziale, si connota, invero, anche in relazione all’elemento dimensionale, il quale deve necessariamente essere più contenuto di quello della costruzione principale.
Tale principio, già presente nella elaborazione giurisprudenziale in materia, trova oggi conferma a livello normativo, laddove l’articolo 3, comma 1, lett. e.6, del DPR n. 380 del 2001 considera comunque interventi di nuova costruzione (soggetti al regime del permesso di costruire) “gli interventi pertinenziali […] che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale”.
Orbene, deve escludersi certamente la natura di pertinenza urbanistica ad un manufatto, quale quello in esame, che occupa una superficie pari quasi al triplo di quella della costruzione principale.
Deve, inoltre, aggiungersi che la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 13-3-2017 n. 1155; IV, 25-3-2019, n. 1943) esclude il carattere pertinenziale di quelle opere che, come una tettoia, vengano ad alterare la sagoma del preesistente edificio.
Le argomentazioni sopra svolte escludono, dunque, che la struttura di copertura oggetto dell’ordine di demolizione possa essere considerata una pertinenza, come tale assoggettabile al regime edilizio dell’autorizzazione, giusta la previsione contenuta nell’articolo 7, comma 2, lett. a) della legge n. 94 del 1982.
Non trattandosi di “pertinenza urbanistica”, il manufatto deve essere qualificato quale intervento di nuova costruzione, comportante una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio e, come tale, assoggettato al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire), la cui mancanza legittima l’irrogazione della sanzione demolitoria.
Osserva, peraltro, il Collegio che l’invocata applicazione del regime dell’autorizzazione edilizia risulta esclusa anche a voler ritenere operante nella fattispecie in esame l’articolo 7 della legge n. 94 del 1982.
E’ ben vero che, ai sensi del comma 2 di tale norma, “Sono soggette ad autorizzazione gratuita […] : a) le opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti […]”.
Peraltro, la suddetta disposizione limita il regime dell’autorizzazione gratuita (operando altrimenti quello della concessione edilizia) alle opere “non sottoposte ai vincoli previsti dalle leggi 1° giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497”.
Da tanto consegue che la realizzazione del manufatto per cui è causa, anche a volerlo considerare “pertinenza urbanistica”, non poteva dirsi assoggettata a mera autorizzazione, risultando escluso tale regime dalla circostanza che esso insiste in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
L’inapplicabilità del regime dell’autorizzazione edilizia esclude, poi, in radice che possa invocarsi la formazione del titolo per silenzio assenso, atteso che tale istituto viene previsto espressamente dal comma 3 della norma per l’autorizzazione e non anche per la concessione edilizia.
D’altra parte, ove mai potesse ritenersi all’epoca ammissibile una concessione edilizia per silentium, la formazione in concreto del titolo tacito risulterebbe esclusa dal fatto che tale effetto giuridico non troverebbe conferma in una necessaria corrispondente richiesta del privato (trattandosi di procedimento ad istanza di parte), risultando essere stata proposta, come emerge dalla documentazione acquisita all’esito dei disposti incombenti istruttori, unicamente una “Richiesta di autorizzazione per la realizzazione di una copertura smontabile” e non anche una domanda di concessione edilizia, rimasta inesitata.
La ritenuta applicabilità del regime della concessione edilizia per il manufatto per cui è causa rende legittima l’irrogazione della sanzione demolitoria, non potendosi utilmente invocare l’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista quest’ultima dall’articolo 10, comma 1, della legge n. 47/85 solo per le opere realizzate in assenza o in difformità dall’autorizzazione edilizia, fattispecie non configurabile per l’abuso edilizio in esame.
Il terzo motivo di appello deve, pertanto, essere rigettato.
Con il quarto motivo la signora Di Gennaro lamenta: Error in iudicando – eccesso di potere – errore sui presupposti di fatto e di diritto – carente istruttoria e travisamento.
Ella censura la gravata sentenza nella parte in cui esclude alla tettoia per cui è causa la natura di opera precaria e, di conseguenza, la non necessità del permesso di costruire per la sua edificazione.
Deduce in proposito che la natura intrinseca dell’opera realizzata, destinata ad essere utilizzata come opera stagionale, nel solo periodo maggio-ottobre, dimostra che essa non ha creato superfici o volumi stabili.
Evidenzia, inoltre, che la relazione tecnica depositata nel giudizio di primo grado e la perizia allegata all’atto di appello provano che trattasi di una struttura completamente smontabile e di facile rimozione.
Il mezzo di gravame non può essere accolto.
Rileva la Sezione che la natura di opera precaria (come tale non soggetta al previo rilascio della concessione edilizia ovvero del permesso di costruire) non si evince dalla tipologia dei materiali utilizzati per la sua edificazione e, più in generale, dalle caratteristiche costruttive e di ancoraggio al suolo della stessa, quanto piuttosto da un elemento di tipo funzionale, dovendosi verificare se la stessa sia o meno destinata al soddisfacimento di esigenze durevoli, stabili e permanenti nel tempo.
Occorre, in sostanza, avere riguardo all’uso cui il manufatto è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersi la natura precaria, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata (cfr. Cons. Stato, VI, 11-1-2018, n. 150).
Applicando i suddetti principi alla vicenda in esame, consegue che il carattere smontabile o facilmente amovibile della struttura non ne qualifica il carattere precario, risultando le predette modalità costruttive non decisive ai fini della qualificazione della natura dell’opera.
Al contrario, la destinazione della stessa al servizio di ristorazione e di consumo dei cibi, attività commerciale svolta in via continuativa nella attigua costruzione in muratura, la qualifica come opera funzionale al soddisfacimento di esigenze stabili e durature nel tempo, che ne escludono la natura precaria.
Non conduce, invero, a conclusioni diverse la considerazione che la struttura abbia carattere stagionale, destinata ad essere utilizzata nel periodo maggio-ottobre, evidenziandosi in proposito che la giurisprudenza (cfr. Cass. pen., III, 20-2-2018, n. 17135) ha chiarito che l’opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell’anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire.
Invero, il carattere stagionale dell’uso non implica la provvisorietà dell’attività, né di per sé la precarietà del manufatto ove la stessa si svolga, atteso che il rinnovarsi dell’attività con frequenza stagionale è indicativo della stabilità dell’attività e dell’opera a ciò destinata.
Invero, la stagionalità dell’uso non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo, pur quando lo stesso venga rimosso in determinati mesi dell’anno e successivamente, con cadenza periodica predeterminata, nuovamente installato.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, pertanto, risultano condivisibili le conclusioni alle quali è giunto il Tribunale Amministrativo, escludendo il carattere precario del manufatto e ritenendo legittimo l’ordine di demolizione irrogato, attesa la mancanza del titolo abilitativo concessorio (ovvero del permesso di costruire).
La reiezione dei motivi di appello sopra esaminati denota, altresì, l’infondatezza della censura con la quale viene dedotta l’erroneità della sentenza nella parte in cui rigetta il primo ricorso per motivi aggiunti, prodotto avverso la deliberazione del Presidente dell’Autorità Portuale n. 2 del 22-12-2012, recante ingiunzione a rimuovere le opere poste sull’area esterna al chiosco.
L’appello su punto si limita ad evidenziare che la determinazione di rigetto del Tribunale si fonda sull’erroneo presupposto del carattere abusivo della tettoia.
Orbene, l’erroneità di tale presupposto non è configurabile, considerandosi, in base alle argomentazioni in precedenza spese, che effettivamente la tettoia risulta priva del prescritto titolo edilizio, non potendo lo stesso essere rinvenuto nell’autorizzazione n. 5 del 1998 (essendo questa titolo abilitativo paesaggistico), né potendosi lo stesso diversamente essere ritenuto sussistente anche nella forma di autorizzazione per silentium.
Il quarto motivo di appello è, pertanto, infondato.
Con il quinto motivo la signora Di Gennaro lamenta: Error in iudicando – eccesso di potere – carente istruttoria e travisamento dei fatti.
Ella censura la gravata sentenza, laddove ha ritenuto l’inammissibilità del secondo ricorso per motivi aggiunti – proposto avverso la disposizione dirigenziale n. 126 del 2 marzo del 2005– per carenza di interesse.
Deduce in proposito che la pratica edilizia n. 90/98, relativa all’istanza prot. 27036 del 19-3-1998, ha ad oggetto l’installazione della tettoia di mq. 144 ed è stata definita positivamente, ai fini edilizi e paesaggistici, con l’autorizzazione sindacale n. 5 del 1998.
Essa, pertanto, non riguarda affatto la successiva istanza per la realizzazione della struttura smontabile in legno di 150 mq., denegata con provvedimento n. 126 del 2-3-2005.
Quanto, poi, a tale ultimo provvedimento, rileva che lo stesso non le è mai pervenuto e che comunque esso risulta manifestamente illegittimo in relazione alla accertata compatibilità urbanistico-edilizia della tettoia, come dimostrato nei secondi motivi aggiunti ai quali viene fatto rinvio.
La signora Di Gennaro deduce ancora che è privo di pregio il riferimento operato dal giudice di primo grado ad un provvedimento di rigetto del 2006, che non risulterebbe impugnato dalla stessa.
Evidenzia in proposito che la disposizione dirigenziale n. 407 del 23-6-2006 è stata resa sull’istanza prot. n. 1459 del 31-3-2006, presentata non per ottenere una nuova installazione della tettoia, ma unicamente l’ampliamento a mq. 155 della tettoia (di mq. 144) esistente e mai abbattuta.
Aggiunge che alcuna acquiescenza vi era stata, giacchè essa aveva ritenuto di non proporre ricorso accontentandosi della tettoia già autorizzata rispetto alla cui conservazione essa aveva sempre puntualmente fatto valere le proprie ragioni in giudizio.
Il motivo di appello non è meritevole di accoglimento.
La sentenza di primo grado così motiva sul punto.
“Il secondo ricorso per motivi aggiunti […] è inammissibile per difetto di interesse.
Invero, anche prescindendo dalla tardività dell’impugnazione dedotta dal Comune sulla scorta dell’intervenuta notifica dei provvedimenti, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., al sig. Baratto Salvatore in data 7 aprile 2005, si deve evidenziare che la ricorrente non ha proposto impugnazione contro il diniego di permesso di costruire n. 407 del 2006 opposto alla sua successiva istanza di sistemazione dell’area, presentata lo stesso anno, notificato alla legale rappresentante della società ricorrente.
E’ infatti evidente che la presentazione di un nuovo progetto di sistemazione era valsa a superare e porre nel nulla il precedente e, così, anche il diniego pronunciato nel 2005 dal Comune”.
La Sezione condivide la determinazione di inammissibilità del giudice di primo grado.
E tanto per le ragioni che di seguito si svolgono.
Deve in primo luogo essere evidenziato che la pronuncia di inammissibilità non risulta fondata sulla ritenuta tardività del ricorso prodotto dalla signora Di Gennaro avverso la disposizione dirigenziale di diniego al rilascio di permesso di costruire n. 126 del 2005.
E’, pertanto, irrilevante la circostanza, riferita nel motivo di appello, secondo cui il predetto provvedimento di diniego non sarebbe mai pervenuto alla ricorrente.
Allo stesso modo, non è decisivo considerare che l’istanza denegata con il provvedimento n. 126/2005 non era stata presentata dalla signora Di Gennaro, riferendosi comunque la stessa all’area esterna al chiosco in strada ex Lazzaretto di Nisida ed a lavori di realizzazione della copertura in legno.
Né può affermarsi che l’istanza ed il successivo diniego non fossero relativi alla pratica edilizia n. 90/98, risultando tale riferimento nel corpo stesso del provvedimento ( non, quindi, erroneamente nelle sole difese del Comune) e ben potendo la medesima pratica edilizia comprendere in sé differenti procedimenti ed atti conclusivi degli stessi quando riguardanti il medesimo immobile, sia pur succedutisi nel tempo.
E’, pertanto, vero che la pratica edilizia n. 90/98 ha avuto ad oggetto anche l’istanza definita con l’autorizzazione sindacale n. 5 del 7-8-1998, mentre non è corretto affermare che quest’ultima abbia autorizzato il manufatto sia ai fini urbanistico-edilizi che paesaggistici.
Come si è visto nella disamina del primo motivo di appello, invero, il suddetto titolo ha valenza paesaggistica ma non anche edilizia.
Non può, inoltre, convenirsi con l’affermazione dell’appellante – evidentemente diretta ad escludere l’effetto preclusivo riveniente dalla mancata impugnativa – secondo cui l’istanza prot. n. 1459 del 31-3-2006 era diretta non ad ottenere una nuova installazione della tettoia ma unicamente l’ampliamento di quella già autorizzata (di mq.144) fino a mq. 155; con la conseguenza che la mancata impugnazione del diniego di cui alla disposizione n. 407 del 23-6-2006 non poteva configurare acquiescenza, ma si giustificava “accontentandosi” il privato della tettoia di mq. 144 già autorizzata.
Va, invero, considerato che l’istanza prot. n. 1459 del 31 marzo 2006 non si riferisce ad un mero ampliamento della struttura preesistente già autorizzata, ma alla intera struttura.
Non si rinvengono, invero, nella richiamata domanda elementi che facciano propendere per un richiesta limitata al solo ampliamento, risultando, invero, descritta l’intera opera, senza distinzione tra quanto già (ritenuto) autorizzato ed eseguito ed interventi a farsi.
In essa si legge, difatti, quanto segue.
“La sottoscritta Di Gennaro Lucia […] CHIEDE Autorizzazione per la struttura rimovibile con tutte le caratteristiche, i requisiti e i vincoli già oggetto della precedente autorizzazione n. 90/98 prat. 05 del 2 Agosto 1998 per la copertura di un’area demaniale di circa mq. 155, 00 già in concessione, di pertinenza al chiosco per la vendita di bevande e cibi cotti.
La struttura portante sarà ancorata al pavimento con piastre bullonate per consentire lo smontaggio nel più breve tempo. La copertura sarà a falde in incannucciato e sarà aperta da tutti i lati così come nella precedente autorizzazione. La struttura orizzontale sarà costituita da traversi da 10x10 sormontato dall’incannucciato e vincolati alla struttura portante per consentirne lo smontaggio. La superficie complessiva dell’area in concessione è di mq. 155, 00, la pedana in concessione in struttura lignea è di mq. 65,00, mentre la copertura investe un’area di mq. 167, 70 perché sporge di m. 0,50 lungo tutto il perimetro […].
Va, inoltre, considerato che, anche a voler ritenere la predetta richiesta quale mero ampliamento della struttura in precedenza autorizzata, la relativa ipotesi progettuale si pone in termini di superamento della precedente istanza proposta dal signor Baratto ed esitata negativamente con la disposizione dirigenziale n. 126 del 2 marzo 2005.
Invero, con la richiamata istanza del 31-3-2006, si è inteso dare una nuova sistemazione all’area esterna del chiosco-ristorante, la quale pone in non cale la precedente richiesta.
Il pregiudizio alla ricorrente deriva, dunque, non dal diniego opposto sulla domanda del signor Baratto, ma dal nuovo diniego reso dal Comune alla sua domanda prot. n. 1459 del 31-3-2006, il quale non risulta essere stato oggetto di impugnazione.
Risulta, pertanto, evidente che l’appellante non ha interesse all’annullamento della disposizione dirigenziale n. 126 del 2 marzo del 2005, atteso che permarrebbero comunque in vita il diniego di cui alla successiva disposizione dirigenziale n. 407 del 23-6-2006 (non impugnata) e l’ordine di demolizione impartito con il provvedimento n. 586 del 26-11-2010, del quale è stata in questa sede riconosciuta la legittimità.
Non ha a questo punto rilevanza stabilire se il manufatto sia stato o meno abbattuto e ricostruito nell’anno 2005, considerandosi che comunque la struttura risulta abusiva anche nell’eventuale configurazione originaria, non risultando la stessa assentita da titolo edilizio; non rivestendo, come in precedenza visto, tale qualificazione l’autorizzazione sindacale n. 5 del 1998, la quale costituisce una mera autorizzazione paesaggistica.
Deve, infine, essere evidenziato, a prescindere dalla confermata inammissibilità del secondo ricorso per motivi aggiunti, che questo giudice non potrebbe comunque esaminare nel merito i vizi di legittimità con esso dedotti, attesa la generica riproposizione degli stessi in sede di appello.
Vi è, infatti, che, ai sensi dell’articolo 101, comma 2, c.p.a., la riproposizione in appello di “tutte le domande e le eccezioni, in rito e in merito, sollevate nel giudizio di primo grado”, assorbiti o non esaminati dal TAR, è onere che va assolto mediante richiamo specifico dei motivi già articolati con il ricorso introduttivo, così da consentire alle controparti di esercitare con pienezza il proprio diritto di difesa e, al giudice di appello, di avere il quadro chiaro del thema decidendum devoluto nel giudizio di secondo grado, sul quale egli è tenuto a pronunciarsi; di conseguenza, un rinvio indeterminato alle censure assorbite e agli atti di primo grado che le contenevano, privo della precisazione del loro contenuto, è inidoneo ad introdurre nel giudizio di appello i motivi in tal modo solo genericanmente richiamati (cfr. Cons. Stato, V, 26-10-2016, n. 4471).
Orbene, nella specie l’atto di appello si limita ad affermare che “In ogni caso, il suddetto provvedimento risulta manifestamente illegittimo stante l’accertata compatibilità urbanistico-edilizia della tettoia, come ampiamente dimostrato da questa difesa nei secondi motivi aggiunti notificati in data 19-3-2012, cui si rinvia”.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte, dunque, anche il quinto motivo di appello deve essere rigettato.
Con il sesto motivo la signora Di Gennaro lamenta: Error in iudicando – violazione e falsa applicazione dell’articolo 26 del c.p.a. – travisamento ed ingiustizia manifesta.
Evidenzia la complessità della vicenda che aveva visto il Comune inerte per diversi anni per poi, improvvisamente, sanzionare le opere edilizie realizzate.
Deduce, pertanto, l’erroneità della condanna alle spese processuali disposta dal Tribunale in suo danno, sottolineando come essa aveva già subito rilevante pregiudizio dai provvedimenti sanzionatori adottati dal Comune di Napoli.
Il motivo di appello, diretto alla riforma della pronuncia di primo grado in punto di statuizione delle spese del giudizio, non è meritevole di accoglimento.
La giurisprudenza di questo Consiglio ritiene che la sindacabilità in appello di quanto stabilito sulle spese in primo grado, in quanto espressione della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase del processo, è limitata solo all’ipotesi in cui venga modificata la decisione principale, salvo la manifesta abnormità (cfr. Cons. Stato, II, 5-7-2019, n. 4669; VI, n. 1127/2018).
Si afferma, invero, che la statuizione sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisce espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l’ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate (cfr. Cons. Stato, VI, 3-4-2019, n. 2208)
Orbene, nella fattispecie in esame non vi sono i presupposti per la riforma della statuizione sulle spese processuali, avendo il Tribunale fatto applicazione del principio della soccombenza, ponendo le spese a carico della signora Di Gennaro, della quale aveva rigettato il ricorso ed i motivi aggiunti proposti.
La statuizione, pertanto, non presenta profili di irragionevolezza o abnormità e deve, per l’effetto, essere confermata.
In conclusione, dunque, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.
Deve ugualmente essere respinta la richiesta di CTU o verificazione tecnica avanzata dall’appellante, atteso che le produzioni documentali delle parti risultano sufficienti alla corretta qualificazione delle opere realizzate e della portata dei titoli autorizzatori rilasciati.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (cfr., ex multis, Cass.civ., V, 16-5-2012, n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Le spese del presente grado del giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti costituite, avuto riguardo alla complessità in fatto della vicenda trattata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese del grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2019 con l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro, Presidente
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Francesco Mele, Consigliere, Estensore
Dario Simeoli, Consigliere