Corte di Cassazione Rel. n. III/11/2011 Roma, 5 settembre 2011

OGGETTO: Novità legislative – d.l. 13 agosto 2011, n. 138, recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione e lo sviluppo– Disposizioni rilevanti per il settore penale.

Sommario: 1. Premessa: la manovra-bis e i riflessi penali. – 2. Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Considerazioni introduttive. – 3. L'abrogazione (allo stato) del Sistema di tracciabilità dei rifiuti (c.d. SISTRI).

 

 

Premessa: la manovra-bis e i riflessi penali. Il D.L. 13 agosto 2011, n. 138, entrato in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella G.U., è stato varato a seguito delle pressioni sulla nostra economia e sul debito pubblico che, negli ultimi giorni, aveva posto a rischio le finanze pubbliche, al punto da convincere la Banca Centrale Europea ad inviare una lettera di «messa in mora» nei confronti del nostro Paese, ordinando un immediato intervento di stabilizzazione finanziaria. Del testo, composto da venti articoli, occorre evidenziare le uniche due disposizioni normative introdotte dalla manovra finanziaria estiva che presentano riflessi, diretti ed indiretti, sul sistema penale. Si tratta, come si vedrà, di due norme che, come si legge nel preambolo del decreto, sono dettate dalla «straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per la stabilizzazione finanziaria e per il contenimento della spesa pubblica al fine di garantire la stabilità del Paese con riferimento all'eccezionale situazione di crisi internazionale e di instabilità dei mercati e per rispettare gli impegni assunti in sede di Unione Europea, nonché di adottare misure dirette a favorire lo sviluppo e la competitività del Paese e il sostegno dell'occupazione». Il riferimento, da un lato, è all'art. 6 che provvede all'improvvisa cancellazione del SISTRI e, dall'altro, all'inserimento nel codice penale, ad opera dell'art. 12 del decreto, della nuova fattispecie penale di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», contemplata dall'art. 603-bis cod. pen., cui si aggiungono le pene accessorie previste dall'art. 603-ter cod. pen. Il decreto dovrà essere convertito in legge entro il 12 ottobre 2011. Tra gli emendamenti annunciati, ad oggi, si ha notizia della possibile reintroduzione del sistema SISTRI che, pertanto, fatti salvi gli effetti determinati – medio tempore – dalla depenalizzazione delle condotte contemplate dalle fattispecie oggetto di abrogazione a seguito dell'entrata in vigore del decreto, sembrerebbe essere destinato ad un postumo reinserimento.

 

Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Considerazioni introduttive. - L’art. 12 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 ha introdotto nel codice penale, all’art. 603-bis, il delitto di «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro «per ciascun lavoratore reclutato».

La nuova figura criminosa è specificamente orientata verso la repressione del fenomeno del c.d. “caporalato” (fenomeno criminale, spesso collegato ad organizzazioni mafiose, di sfruttamento della manovalanza con metodi illegali) e la sua introduzione sembra voler colmare un’apparente lacuna nel sistema di tutela offerto dall’ordinamento penale verso forme di sfruttamento del lavoro tanto consolidate quanto diffuse, soprattutto in determinati settori produttivi come quelli dell’edilizia e dell’agro-industria (sono stimati in 550 mila i lavoratori stranieri che, nel nostro Paese, cadono nelle morse del caporalato su un totale di 800 mila lavoratori in nero).

Come noto fino a non molti anni addietro sussisteva un sostanziale monopolio pubblico sul mercato del lavoro, cui conseguiva il divieto di ogni forma di intermediazione e di somministrazione di manodopera (c.d. “pseudo-appalto” di manodopera), la cui violazione integrava i reati previsti dapprima dall’art. 27 della legge 29 aprile 1949, n. 264 e successivamente dagli artt. 1 e 2 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (che sanzionavano penalmente la condotta di chi, oltre ad agire come intermediario non autorizzato sul mercato del lavoro, favorendo l'incontro tra domanda e offerta di manodopera nella fase "genetica" del contratto, si interponeva illecitamente tra lavoratore e datore di lavoro per l'intera durata del rapporto, mantenendo fittiziamente alle proprie dipendenze il personale utilizzato e lucrando in modo parassitario sulle retribuzioni).

A partire dalla seconda metà degli anni novanta tale assetto è stato progressivamente modificato dall’introduzione del lavoro interinale ad opera della legge n. 196/1997 e, successivamente, dal più generale riordino della disciplina del mercato del lavoro da parte del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. “legge Biagi”).

Quest’ultimo intervento normativo, in particolare, ha eroso il monopolio pubblico di cui si è detto, consentendo tra l’altro l’intermediazione nella prestazione di lavoro e la somministrazione di manodopera, seppure nell’ambito di una precisa cornice di regole.

A tutela del rispetto di tali regole l’art. 18 del menzionato decreto ha configurato alcune ipotesi contravvenzionali, che hanno sostituito quelle previgenti (contestualmente abrogate) sanzionando penalmente l'esercizio della mediazione e della somministrazione di lavoro ove attuato al di fuori dei limiti soggettivi e oggettivi previsti dalla riforma.

La giurisprudenza di legittimità, con orientamento oramai ampiamente consolidato, ha poi chiarito che l’abrogazione delle norme incriminatici contenute nelle leggi n. 264/1949 e n. 1369/1960 non ha comportato l’abolizione dei reati posti a tutela del mercato del lavoro e dalle stesse previsti, atteso che le rispettive fattispecie devono ritenersi rivivere nelle disposizioni del menzionato art. 18 del d.lgs. n. 276/2003, quantomeno nei limiti in cui le condotte di intermediazione e somministrazione sono considerate illecite da quest’ultimo (cfr. Sez. 3, n. 2583 del 11 novembre 2003, dep. 26 gennaio 2004, Marinig, rv 228484 e, da ultimo, Sez. 4, n. 40499 del 20 ottobre 2010, dep. 16 novembre 2010. Borelli, rv 248861).

In tal senso la mediazione non autorizzata e il pseudo-appalto di manodopera hanno continuato e continuano ad avere rilevanza penale, ma la costante previsione di mere fattispecie contravvenzionali si è rivelata insufficiente ad arginare le forme più gravi e sistematiche di sfruttamento del lavoro, le quali hanno peraltro conosciuto negli ultimi anni una forte recrudescenza in occasione dell’acuirsi del fenomeno dell’immigrazione irregolare e della conseguente disponibilità sul mercato di manodopera a basso costo e sostanzialmente priva di tutela.

Il problema nella prassi applicativa è stato talvolta affrontato ricorrendo alla contestazione del reato di riduzione in schiavitù (art. 600 cod. pen.), in grado però di intercettare solo quei fatti caratterizzati da un marcato sfruttamento della vittima e dunque inidoneo a fronteggiare compiutamente il fenomeno del caporalato. E parimenti non risolutivo, ancorché per motivi diversi, si è rivelato il tentativo di ricondurre lo stesso fenomeno nell’alveo delle fattispecie di estorsione e di violenza privata.

Correttamente dunque il legislatore ha riconosciuto l’esistenza di una vera e propria lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro, individuando la mancanza di un’incriminazione in grado di intercettare quei comportamenti che non si risolvono nella mera violazione delle regole poste dal d. lgs. n. 276/2003, senza peraltro raggiungere le odiose vette dello sfruttamento estremo presupposto dalla fattispecie di cui all’art. 600 cod. pen.

Al delitto configurato nell’art. 603-bis cod. pen. è dunque assegnato il compito di colmare questa lacuna e la sua vocazione ad assumere una posizione intermedia nella scala repressiva dei comportamenti che alterano le regole del mercato del lavoro è ben dimostrata dal fatto che la disposizione di nuovo conio si apre con una clausola di sussidiarietà relativamente indeterminata per il caso che il fatto costituisca un più grave reato.

Non di meno i tratti salienti della fattispecie, le severe cornici edittali di pena previste (che legittimano arresto in flagranza, fermo, custodia cautelare in carcere e il ricorso alle intercettazioni) e la collocazione della nuova incriminazione tra i delitti contro la personalità individuale, rivelano l’intenzione del legislatore di orientare la stessa verso una categoria di fatti caratterizzata da un disvalore che eccede in maniera netta la semplice violazione delle condizioni di liceità dell’interposizione e della somministrazione della mano d’opera, comportamento la cui repressione rimane dunque affidata alle previsioni dell’art. 18 del d. lgs. n. 276/2003, le quali sono destinate ad assumere quindi, con riguardo al fenomeno del caporalato, una valenza del tutto residuale.

La nuova fattispecie incriminatrice è stata inserita nella prima sezione del capo del Titolo XII della parte speciale del codice penale dedicata ai reati contro la libertà individuale. Sezione intitolata, come ricordato, ai delitti contro la personalità individuale e che già comprende i reati di schiavitù e quelli di prostituzione e pornografia minorile, nonché quello di impiego di minori nell’accattonaggio.

Oggetto di tutela di questa categoria di reati è lo status libertatis, inteso come stato di uomo libero e cioè di presupposto per il riconoscimento dei singoli diritti di libertà.

In altri termini ciò che viene tutelato non è una forma particolare di manifestazione della libertà del singolo, bensì il complesso delle manifestazioni che si riassumono in tale stato e la cui negazione comporta l'annientamento stesso della personalità dell'individuo (per tutti v. Mantovani, Diritto penale, Delitti contro la persona, Pts. I, 2008, p. 265).

In definitiva oggetto di tutela sarebbe la stessa dignità umana, irrimediabilmente offesa dalla privazione della libertà e dalla mercificazione dell’essere umano (PAVARINI, sub art. 600, in Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, a cura di A. Cadoppi, 2006, p. 6).

In tal senso la collocazione del nuovo delitto appare illuminante dell’intenzione del legislatore di punire ai sensi dell’art. 603-bis cod. pen. solo quelle condotte di sfruttamento del lavoratore che attentino alla sua dignità di uomo.

Intenzione che si riflette, come subito si dirà, anche nella struttura dell’elemento materiale, la cui complessa articolazione rivela la preoccupazione di confinare la nuova incriminazione in un recinto ben definito, per l’appunto illuminato dalla sua collocazione tra i reati contro la personalità individuale, in grado di esercitare una concreta funzione selettiva dei comportamenti penalmente rilevanti e di mirare la fattispecie di nuovo conio verso il suo effettivo obiettivo di tutela.

La condotta tipica del reato di nuovo conio è, secondo la lettera della disposizione in commento, quella di chi svolge «un’attività organizzata di intermediazione», reclutando manodopera ovvero organizzandone il lavoro in maniera caratterizzata dallo sfruttamento, attraverso le particolari modalità illecite descritte dalla norma incriminatrice e cioè mediante violenza, minaccia o intimidazione, nonché approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.

Come accennato in precedenza, è evidente l’intenzione del legislatore di restringere l’ambito applicativo dell’incriminazione nella preoccupazione che la nuova fattispecie possa prestarsi ad interpretazioni estensive che trascendano l’effettivo obiettivo di tutela prefissato.

Ciò premesso non può esimersi dal sottolineare qualche perplessità che la formulazione normativa suscita.

Innanzi tutto non è di immediata decifrazione il rapporto che intercorre tra la condotta tipica di intermediazione e l’inciso «reclutando manodopera ovvero organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento».

Sebbene la norma non rinvii alla definizione di “intermediazione” fornita dall’art. 2 del d. lgs. n. 276/2003 («l'attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, anche in relazione all'inserimento lavorativo dei disabili e dei gruppi di lavoratori svantaggiati, comprensiva tra l'altro: della raccolta dei curricula dei potenziali lavoratori; della preselezione e costituzione di relativa banca dati; della promozione e gestione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro; della effettuazione, su richiesta del committente, di tutte le comunicazioni conseguenti alle assunzioni avvenute a seguito della attività di intermediazione; dell'orientamento professionale; della progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all'inserimento lavorativo»), sembra però che il legislatore abbia voluto attribuire rilevanza penale esclusivamente ai comportamenti tenuti da chi si interponga tra il lavoratore e l’utilizzatore della sua manodopera.

In altri termini dovrebbero rimanere esclusi dal fuoco dell’incriminazione quei comportamenti di reclutamento ed organizzazione tenuti direttamente dall’utilizzatore, senza ricorrere all’interposizione di altri soggetti.

In tal senso la novella sembra dunque aver configurato una sorta di reato proprio dell’intermediario di lavoro, pur rimanendo inteso che quella evocata dal legislatore è la figura dell’intermediario di fatto.

In altri termini l’incriminazione non si rivolge esclusivamente ai soggetti autorizzati all’attività di intermediazione ai sensi del d. lgs. n. 276/2003, ma a chiunque svolga tale attività, anche e soprattutto abusivamente.

La scelta operata rischia però di non cogliere appieno la fenomenologia criminale che con il reato di nuovo conio si vorrebbe combattere, atteso che non sempre il “reclutatore” della manodopera sfruttata è soggetto effettivamente autonomo dall’utilizzatore e dunque come tale identificabile come esercente attività di intermediazione.

Ad ogni buon conto i comportamenti descritti nel menzionato inciso, anche tenuto conto della declinazione riservata ai verbi che li identificano, non sembrano definire il concetto di attività di intermediazione ai fini e agli effetti dell’art. 603-bis, ma piuttosto tracciare l’effettivo profilo della condotta tipica.

In altri termini la lettura più ragionevole del testo normativo sembra essere quella per cui solo colui che, nello svolgere un’attività di intermediazione, recluta od organizza manodopera sfruttandola commette il delitto di cui all’art. 603-bis.

Potrebbe peraltro rilevarsi una apparente contraddittorietà nelle scelte lessicali del legislatore. Infatti, come già ricordato, il concetto di intermediazione ha a che fare con la genesi del rapporto di lavoro ed in tal senso può apparire coerente la decisione di criminalizzare l’attività di reclutamento.

Non altrettanto quella di puntare l’attenzione anche sull’attività di organizzazione, che attiene invece allo svolgimento del rapporto di lavoro e che, in teoria, dovrebbe intervenire successivamente all’intervento del mediatore.

In tal senso sembrerebbe dunque doversi concludere che la nozione di “intermediazione” accolta dall’art. 603-bis vanti confini ben più ampi di quelli definiti nel d. lgs. n. 276/2003, fino a ricomprendere anche l’attività di colui che somministri all’utilizzatore manodopera provvedendo altresì ad organizzarne il lavoro.

Più in generale sembra doversi trarre conferma al fatto che il riferimento all’attività di intermediazione ha la finalità di circoscrivere l’ambito soggettivo di applicazione della nuova incriminazione a colui che non può essere identificato con l’utilizzatore finale del lavoro e cioè alla figura criminologia del “caporale”.

Tanta selettività lascia peraltro perplessi, laddove lo stesso legislatore dimostra di voler colpire forme di sfruttamento del lavoro particolarmente degradanti anche qualora nelle stesse non siano riconoscibili gli estremi di altri e più gravi reati, questi ultimi certamente applicabili anche al datore di lavoro.

Certo è che quest’ultimo, laddove consapevole dei metodi utilizzati dall’intermediario, potrà essere ritenuto concorrente nel reato di nuovo conio per il solo fatto di avergli commissionato il reclutamento e la direzione della manodopera.

La norma in commento richiede ad ogni buon conto che l’intermediazione sia svolta in maniera “organizzata”, aggettivazione tradizionalmente ambigua e che sembra evocare in questo caso più che altro l’esercizio non occasionale della suddetta attività attraverso l’impiego dei mezzi necessari a garantirne l’effettività. Organizzazione di mezzi strumentale all’assicurazione del risultato, dunque, che non esclude la rilevanza penale di fatti posti in essere da autore singolo.

Per altro verso, alla luce di quanto fin qui illustrato, le modalità che ulteriormente definiscono, restringendolo, l’orizzonte del fatto tipico sembrano doversi riferire alle condotte di reclutamento ed organizzazione e non già all’attività di intermediazione, come invece potrebbe suggerire la costruzione sintattica ordita dal legislatore.

Quanto alle citate connotazioni modali della condotta tipica va rilevato che violenza, minaccia ed intimidazione possono ricorrere alternativamente, mentre apparentemente ineludibile è l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, individuato in apposito ed autonomo inciso. Peraltro va segnalata la scarsa autonomia concettuale esistente tra i termini “minaccia” ed “intimidazione” e tra quelli “necessità” e “bisogno”, i cui accoppiamenti sembrano dunque dare vita ad altrettante endiadi.

Nel secondo comma dell’art. 603-bis il legislatore si è infine prodotto nello sforzo di definire il concetto di “sfruttamento” che caratterizza l’attività lavorativa oggetto della condotta di organizzazione. In proposito la disposizione in commento tipizza – in maniera apparentemente tassativa - gli indici rivelatori dello sfruttamento, individuandoli: a) nella sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato (i "caporali" sono soliti pretendere una elevata percentuale della paga giornaliera); b) nella sistematica violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; c) nella sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale; d) nella sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

Tali indici costituiscono il più intimo collegamento della fattispecie tipizzata con l’oggetto giuridico del reato, ma – soprattutto quelli illustrati sub b) e d) – rivelano altresì la potenziale fragilità dell’autonomia della nuova incriminazione rispetto a quella di cui all’art. 600 cod. pen., rispetto alla quale, come detto, è destinata a soccombere in forza della già menzionata clausola di riserva.

Per il perfezionamento del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è richiesto il dolo generico, il cui oggetto comprende tutti gli elementi della fattispecie, essendo dunque necessario che l’agente, oltre a volere la condotta tipizzata nell’art. 603-bis e le sue particolari connotazioni modali, si rappresenti lo stato di bisogno o di necessità in cui versa il lavoratore sfruttato.

Il terzo comma della disposizione in commento configura infine tre aggravanti ad effetto speciale (che comportano l’aumento da un terzo alla metà delle pene edittali). La prima riguarda il caso che il numero dei lavoratori reclutati sia superiore a tre.

La seconda l’eventualità che anche uno solo di essi sia un minore in età non lavorativa.

La terza ed ultima è collegata all’esposizione dei lavoratori «intermediati» a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

Tutte le fattispecie aggravanti suscitano, seppure per motivi diversi, perplessità.

Quanto alla prima è appena il caso di notare come il meccanismo edittale di moltiplicazione della pena pecuniaria già considera l’ipotesi dell’intermediazione di una pluralità di lavoratori.

Sotto altro profilo e tenuto conto della particolare natura dei fatti che integrano il reato in commento (nonché del bene giuridico tutelato) appare quantomeno anacronistico limitare la portata della seconda aggravante ai minori in età non lavorativa e non già ai minori tout court.

Quanto alla terza fattispecie, nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore nel definire dei parametri di riferimento, deve evidenziarsi l’eccessiva indeterminatezza delle “situazioni di grave pericolo” che caratterizzano l’evento aggravante, tanto più che l’esposizione del lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale già contraddistingue uno degli indici dello sfruttamento tipizzati nel secondo comma dell’art. 603-bis.

Il d.l. n. 138/2011 ha introdotto per il delitto anzidetto anche delle speciali pene accessorie e segnatamente:

  1. l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, che – come si legge nell’art. 32-bis cod. pen. «priva il condannato della capacità di esercitare, durante l’interdizione, l’ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore»; la genericità della previsione, priva di indicazione di durata, induce a ritenere che la pena debba intendersi come interdizione temporanea con durata uguale ex art. 37 cod. pen. a quella della pena principale inflitta;

  2. il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti (per la quale dovrebbe ritenersi applicabile la disciplina generale dell’art. 32-ter cod. pen. per cui la pena accessoria non può avere durata inferiore ad un anno e superiore a tre anni);

  3. l’esclusione per un periodo di due anni (cinque anni quando il fatto è commesso da soggetto al quale sia stata applicata – anche con la sentenza che condanna alla pena accessoria - la recidiva specifica di cui all’art. 99, secondo comma, n. 1 e n. 3, cod. pen.) da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell’Unione europea, relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento.

Le stesse pene sono state introdotte anche per il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 cod. pen.) per i casi in cui lo sfruttamento abbia ad oggetto prestazioni lavorative.



3. L'abrogazione (allo stato) del Sistema di tracciabilità dei rifiuti (c.d. SISTRI). La seconda disposizione normativa che comporta riflessi penali, diretti ed indiretti nella materia del diritto ambientale, è rappresentata dall'art. 6 del decreto legge. La norma opera l'assolutamente improvvisa e non prevedibile (almeno a quanto si legge dalle dichiarazioni rese alla stampa dello stesso Ministro dell'Ambiente), soppressione del SISTRI, ossia il sistema di tracciabilità dei rifiuti, introdotto appena due anni or sono con il D.M. 17 dicembre 2009, modificato a più riprese negli anni successivi e che, in base a quanto era stato previsto con l'ultimo dei decreti che se n'erano occupati specificamente (il D.M. 26 maggio 2011), sarebbe dovuto entrare in vigore, quantomeno per una prima categoria di soggetti, il 1 settembre.

Il decreto legge, invece, opera un vero e proprio colpo di spugna dell'intero sistema cancellando anni di sforzi, trattative e mediazioni intervenute tra il Ministero e le categorie coinvolte. La norma di riferimento è, come detto, costituita dall'art. 6 (inserito nel Tit. II° del decreto contenente le misure finalizzate alle "Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo") rubricato «Liberalizzazione in materia di segnalazione certificata di inizio attività, denuncia e dichiarazione di inizio attività. Ulteriori semplificazioni». Viene in rilievo, segnatamente, il comma 2 della disposizione in esame che, inspiegabilmente (la Relazione di accompagnamento dedica, infatti, pochissime righe alla spiegazione, limitandosi ad affermare che «la misura si rende necessaria per contenere gli eccessivi oneri amministrativi derivanti dal SISTRI, che si traducono in un grave rallentamento dell’attività imprenditoriale, soprattutto per i piccoli operatori, con conseguenti effetti negativi in termini economici e produttivi»), contiene una serie di abrogazioni espresse di numerose disposizioni legislative riguardanti la materia del sistema di tracciabilità dei rifiuti, denominato SISTRI.

Le norme "immediatamente" abrogate sono le seguenti:

a) il comma 1116, dell'articolo 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296;

b) l'articolo 14-bis del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102;

c) il comma 2, lettera a), dell'articolo 188-bis, e l'articolo 188-ter, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e successive modificazioni;

d) l'articolo 260-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e successive modificazioni;

e) il comma 1, lettera b), dell'articolo 16 del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205;

f) l'articolo 36, del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, limitatamente al capoverso «articolo 260-bis»;

g) il decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in data 17 dicembre 2009 e successive modificazioni;

h) il decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, 18 febbraio 2011 n. 52.

Una rapida sintesi delle disposizioni abrogate è utile per ben comprendere a cosa si riferisca il testo normativo in esame.

La realizzazione di un sistema integrato per il controllo e la tracciabilità dei rifiuti era stata inizialmente prevista dall’art. 1, comma 1116, della legge 296/2006 (finanziaria 2007), che riservava per l'anno 2007 una quota non inferiore a 5 milioni di euro delle risorse del Fondo unico investimenti per la difesa del suolo e tutela ambientale del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare “alla realizzazione di un sistema integrato per il controllo e la tracciabilità dei rifiuti, in funzione della sicurezza nazionale ed in rapporto all'esigenza di prevenzione e repressione dei gravi fenomeni di criminalità organizzata nell'ambito dello smaltimento illecito dei rifiuti”. L'abrogazione della norma «madre» del SISTRI, operata dalla lett. a), comma 2, dell'art. 6, denota quindi la volontà del legislatore dell'emergenza di considerare chiusa l'esperienza del SISTRI, seppure non ancora operativa.

Le ulteriori disposizioni oggetto di abrogazione espressa, altro non fanno che rafforzare questa convinzione. Tale è, ad esempio, la seconda delle norme oggetto di abrogazione espressa.

Ed infatti, come si ricorderà, nelle more del varo della legislazione, primaria e secondaria, destinata a disciplinarne il funzionamento e garantirne la piena operatività, con l’art. 14-bis del d.l. n. 78/2009, convertito con modd. dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 (abrogato dalla lett. b), comma 2, dell'art. 6 d.l. n. 138/2011), erano state dettate le modalità di finanziamento del sistema nazionale per il controllo e la tracciabilità. Erano, poi, intervenute le disposizioni, anch'esse oggetto di espressa abrogazione, dettate – giusto per seguire un ordine cronologico e consentire una migliore comprensione del testo governativo - dagli artt. 188-bis (Controllo della tracciabilità dei rifiuti) e 188-ter (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti - Sistri) del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (meglio noto come testo Unico Ambientale), norme introdotte dagli artt. 16 e 17 del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, destinate ad occuparsi degli adempimenti documentali del SISTRI, integrandoli e adattandoli sia all’art. 17 della direttiva 2008/98/CE (c.d. direttiva-quadro sui rifiuti, che prevede la tracciabilità per i rifiuti pericolosi), che al D.M. 17 dicembre 2009 con il quale è stato istituito il SISTRI, anch'esso oggetto di espressa abrogazione.

La lett. c), comma 2, dell'art. 6 del d.l. n. 138/2011, abroga espressamente per intero il predetto art. 188-ter e il «solo» comma 2, lett. a), dell'art. 188-bis.

Tale previsione dev'essere, tuttavia, coordinata con quella contenuta alla lett. e) dello stesso comma 2 dell'art. 6 del d.l. n. 138/2011 che, invece, nell'abrogare il comma 1, lett. b), dell'art. 16 del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 (che introduceva, per l'appunto, gli artt. 188-bis e 188-ter nel T.U.A.) determinerebbe l'integrale soppressione di ambedue le norme (artt. 188-bis e 188-ter T.U.A.) e non – come invece risulta dalla previsione contenuta nell'art. 6, comma 2, lett. c), dello stesso d.l. n. 138/2011 – per l'intero, quanto all'art. 188-ter, e solo limitatamente al comma 2, lett. a), quanto all'art. 188-bis T.U.A.

L'abrogato art. 188-ter coordinava quanto già previsto dal D.M. 17 dicembre 2009 in merito ai destinatari del sistema che venivano suddivisi in due gruppi: soggetti obbligati e quelli aderenti su base volontaria. Veniva previsto un obbligo di iscrizione a carico di un’ampia categoria di soggetti sostanzialmente coincidenti con quelli tenuti al tradizionale obbligo di invio e compilazione del MUD ex art. 189, comma 3, includendovi anche gli addetti al trasporto intermodale (commi 1 e 2), inserendo un obbligo generalizzato di adesione obbligatoria al sistema per i comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani nel territorio della regione Campania (comma 3).

Il comma 2, lett. a), dell'art. 188-bis D.Lgs. n. 152/2006, invece – proprio in quell'ottica semplificatoria dichiaratamente perseguita dal Governo con il d.l. n. 138/2011 – prevedeva invece l’alternatività tra l’adesione al SISTRI e la tenuta dei registri di carico e scarico e del formulario di identificazione dei rifiuti. A seguito dell'abrogazione della lett. a), invece, viene soppressa proprio la possibilità, per gli imprenditori che ne avevano la facoltà e non l'obbligo, di aderire al SISTRI: l'unico sistema obbligatorio di gestione dei rifiuti resta, dunque, come nel passato, la tenuta dei registri di carico e scarico e la compilazione del F.I.R. (formulario di identificazioni dei rifiuti).

Ciò è, del resto, rimarcato dal comma 3 dell'art. 6 che, dopo aver rassicurato circa la persistente «l'applicabilità delle altre norme in materia di gestione dei rifiuti», ribadisce espressamente che «ai sensi dell'articolo 188-bis, comma 2, lettera b), del decreto legislativo n. 152 del 2006, i relativi adempimenti possono essere effettuati nel rispetto degli obblighi relativi alla tenuta dei registri di carico e scarico nonché del formulario di identificazione di cui agli articoli 190 e 193 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni». Di fatto vengono cancellati quasi due anni di sperimentazione del sistema nonché sacrificando proprio coloro che, per adeguarvisi in vista della imminente introduzione, avevano sostenuto ingenti spese per adeguare gli automezzi adibiti al trasporto rifiuti, per l'acquisto delle black box da installarsi su ogni automezzo e delle chiavi USB necessarie per il funzionamento del sistema.

Altra disposizione normativa che subisce un'improvvisa cancellazione (e che avrà effetti destinati ad incidere anche sul profilo sanzionatorio) è costituita dall'art. 260-bis del D.Lgs. n. 152/2006.

Tale norma, com'è noto, introdotta dal D.Lgs. 3 dicembre 2010 n. 205, aveva per la prima volta predisposto un regime sanzionatorio ad hoc per le violazioni al sistema di tracciabilità di rifiuti. In sintesi, il D.Lgs. n. 205/2010, come si ricorderà, aveva previsto un articolato strumentario di sanzioni, penali ed amministrative pecuniarie, in caso di inadempimento degli obblighi introdotti dal D.M. 17 dicembre 2009 e successive modd., attraverso gli artt. 260-bis e 260-ter, quest’ultimo riguardante le sanzioni amministrative accessorie e la confisca a seguito dell’accertamento delle violazioni di cui all’art. 260-bis, inspiegabilmente non abrogato ma, di fatto, privato di qualsiasi effetto – quantomeno con riferimento alle violazioni al SISTRI - a seguito del venire meno della norma «presupposta» costituita dall'art. 260-bis.

Vengono, meno, quindi, da un lato, le sanzioni amministrative pecuniarie previste dai commi da 1 a 5, quella contemplata dal comma 7, prima parte, nonché dal comma 9 dell'art. 260-bis T.U.A.; dall'altro, vengono abrogate le due fattispecie penali di nuovo conio introdotte dalla disposizione in esame (non ancora operative perché, di fatto, legate all'entrata a regime del SISTRI) e disciplinate dai commi 6, 7, seconda parte ed 8 dell'art. 260-bis.

In particolare, come si ricorderà, quanto alle sanzioni penali, in ordine crescente di gravità, erano le seguenti:

a) pena prevista dall’art. 483 c.p. (reclusione fino a due anni):

- nei confronti di colui che, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, utilizzato nell’ambito del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti;

- nei confronti di colui che inserisce un certificato falso nei dati da fornire ai fini della tracciabilità dei rifiuti;

- nei confronti del trasportatore che omette di accompagnare il trasporto dei rifiuti pericolosi con la copia cartacea della scheda SISTRI - AREA MOVIMENTAZIONE e, ove necessario sulla base della normativa vigente, con la copia del certificato analitico che identifica le caratteristiche dei predetti rifiuti;

- nei confronti di colui che, durante il trasporto fa uso di un certificato di analisi di rifiuti contenente false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti trasportati;

b) pena prevista dal combinato disposto degli artt. 477 e 482 c.p. (reclusione da mesi 4 ad anni due):

- nei confronti del trasportatore che accompagna il trasporto di rifiuti con una copia cartacea della scheda SISTRI – AREA Movimentazione fraudolentemente alterata, ove si tratti di rifiuti pericolosi; detta pena era aumentata fino ad un terzo nel caso di rifiuti pericolosi.

L'intervenuta abrogazione dell'art. 260-bis T.U.A., comporterà, quindi, l'applicabilità, in via esclusiva, delle sanzioni contemplate dall'art. 258 T.U.A., come novellato dal D.Lgs. n. 205/2010.

Resta, ferma, peraltro, la sanzionabilità, a partire dal 16 agosto 2011, della condotta – depenalizzata dal D.Lgs. n. 205/2010 all'atto della novella dell'art. 258 T.U.A. vecchio testo - consistente nel trasportare rifiuti pericolosi senza il formulario di identificazione ovvero nell’indicare nel formulario stesso dati incompleti o inesatti riferiti al trasporto dei suddetti rifiuti.

Come è noto, infatti, il legislatore, con il D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121 (entrato in vigore, appunto, il 16 agosto 2011), recante “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all'inquinamento provocato dalle navi e all'introduzione di sanzioni per violazioni”, ha, di fatto restaurato la previgente disciplina sanzionatoria dettata dall'art. 258 T.U.A., prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 205/2010. In particolare, l’art. 4, comma 2, lett. b), del D.Lgs. n. 121/2011, inserendo un nuovo comma 2-bis all’art. 39 del D.Lgs. n. 205/2010 (norma, è bene ricordarlo, non toccata dal d.l. n. 138/2011), prevede l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 258 nella previgente formulazione nei confronti dei soggetti od imprese tenuti obbligatoriamente o facoltativamente ad iscriversi al SISTRI nonché per i Comuni, gli enti e le imprese che gestiscono i rifiuti urbani del territorio della Regione Campania. In particolare, dette sanzioni troveranno applicazione in caso di inadempimento degli obblighi previsti dagli articoli 190 (tenuta dei registri di carico e scarico) e 193 (tenuta del F.I.R., ossia del formulario di identificazione dei rifiuti) del D.Lgs. n. 152/2006.

Il legislatore delegato, nel delimitare il campo di applicazione della norma transitoria, precisa(va) tuttavia, con il D.Lgs. n. 121/2011, che l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dall’art. 258 ante novella del 2010 dovesse applicarsi “fino alla decorrenza degli obblighi di operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)”.

L'intervenuta soppressione del sistema di tracciabilità dei rifiuti ad opera del d.l. n. 138/2011, ha, quindi, l'effetto di restaurare sine die tale previsione sanzionatoria che, a differenza di quanto previsto dal D.Lgs. n. 121/2011, non sarà più "a tempo" (ovvero correlata all'entrata a regime del SISTRI, ormai soppresso), ma definitiva. Ciò comporterà, quindi, la coesistenza, quantomeno con riferimento alla condotta "ripenalizzata" consistente nel trasportare rifiuti pericolosi senza il formulario di identificazione (ovvero nell’indicare nel formulario stesso dati incompleti o inesatti riferiti al trasporto dei suddetti rifiuti) del vecchio testo dell'art. 258 T.U.A. e del nuovo testo della norma sanzionatoria, quest'ultimo applicabile tout court nei confronti dei soggetti che non sarebbero stati obbligati ad iscriversi al SISTRI in base alle previsioni oggi frettolosamente abrogate.

Solo per completezza, inoltre, è utile ricordare che, sempre a far data dal 16 agosto 2011, è entrata in vigore l'estensione della responsabilità amministrativa da reato degli Enti ex D.Lgs. n. 231/2001 per i reati ambientali contemplati dal D.Lgs. n. 121/2011. Tra questi, peraltro, rientra(va) proprio l'art. 260-bis T.U.A., reato presupposto ormai abrogato che, pertanto, rende priva di qualsiasi operatività la corrispondente previsione contenuta nel nuovo art. 25-undecies, comma 2, lett. g), del D.Lgs. n. 121/2011. Risultano, parimenti, prive di qualsiasi effetto le modifiche introdotte all'art. 260-bis del T.U.A. dall'art. 3 del D.Lgs. n. 121/2011 (che aveva introdotto i commi 9-bis e 9-ter) e dall'art. 4 del predetto decreto (che, nel modificare la disciplina transitoria dell'art. 39 D.Lgs. n. 205/2010, aveva introdotto una graduazione dell'applicazione della sanzioni amministrative pecuniarie che avrebbero dovuto essere applicate ai soggetti tenuti ad iscriversi al SISTRI e che non avrebbero rispettato le cadenze temporali prescritte dalla normativa ormai abrogata: ci si riferisce, in particolare, ai commi 2 e 2-quater dell'art. 39).

Quanto, infine, alle ulteriori disposizioni abrogate dall'art. 6 del d.l. n. 138/2011, sono rappresentate:

- dal comma 1, lett. b), dell'art. 16 del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 (che introduceva, per l'appunto, gli artt. 188-bis e 188-ter nel T.U.A. norme che, pertanto, sembrerebbero essere soppresse entrambe e non – come invece risulta dalla previsione contenuta nel medesimo art. 6, comma 2, lett. c), dello stesso d.l. n. 138/2011 – per l'intero, quanto all'art. 188-ter, e solo limitatamente al comma 2, lett. a), quanto all'art. 188-bis T.U.A.);

- dall'art. 36, del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, limitatamente al capoverso «articolo 260-bis» (si tratta, in altri termini, della disposizione, contenuta nel D.Lgs. n. 205/2010, che introduceva, appunto, sia l'art. 260-bis che l'art. 260-ter nel T.U.A.);

- dal decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare in data 17 dicembre 2009 e successive modificazioni (si tratta, come si ricorderà, del D.M. con cui erano state dettate le norme relative al funzionamento del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti; l'abrogazione travolge tutti i decreti successivi che avevano apportato modifiche al predetto D.M. e, cioè, nell'ordine: il D.M. 15 febbraio 2010; il D.M. 9 luglio 2010; il D.M. 28 settembre 2010; il D.M. 22 dicembre 2010; il D.M. 26 maggio 2011 che aveva, infine, disposto lo slittamento della fase transitoria "a doppio regime" documentale).

- dal decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, 18 febbraio 2011 n. 52, recante il “Regolamento recante istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti”, che aveva provveduto a riunificare in un solo testo tutti i cinque decreti in precedenza emanati sul Sistri.

Deve, per completezza, darsi atto di quanto avvenuto in queste ultime ore. In primo luogo, le Commissioni congiunte Bilancio del Senato e della Camera dei Deputati hanno avuto modo di ascoltare le opinioni delle parti sociali sulla manovra nell’ambito di una specifica audizione tenutasi durante la Seduta n. 28 del 25 agosto 2011. In tale occasione solo Rete Imprese Italia (CasArtigiani, CNA, Confartigianato imprese, ConfCommercio, ConfEsercenti), CGIL e UGL hanno inserito nei loro dossier consegnati alla 5ª Commissione permanente (Bilancio) delle specifiche osservazioni sull’abrogazione del SISTRI. In secondo luogo, più nello specifico, la Commissione Territorio, Ambiente e Beni ambientali del Senato ha votato (quasi) all’unanimità dei suoi componenti un parere (v. Resoconto sommario n. 290 del 23/08/2011) che mira al mantenimento del SISTRI. Nel parere la Commissione osserva che l’art. 6 della Manovra-bis ha disposto la soppressione del SISTRI e il ritorno il sistema cartaceo per la tracciabilità dei rifiuti. Tale regime, affidato al principio di autodichiarazione, “in passato non ha saputo evitare quell'assoluta incertezza intorno alla sorte definitiva di ingenti quantitativi di rifiuti, non solo pericolosi, che pone a rischio nel nostro Paese la salute dei cittadini oltre che la tutela dell'ambiente, creando i presupposti per il perdurare di traffici illeciti legati al settore dei rifiuti”.

Secondo la Commissione, “La generalizzata soppressione del sistema SISTRI, lungi dall'assicurare risparmi di spesa, espone il Paese agli oneri finanziari conseguenti al prevedibile esito di una procedura di infrazione per violazione della normativa comunitaria, che come noto impone per i rifiuti pericolosi l'obbligo della tracciabilità (articolo 17 della direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE).” Ulteriormente, “L'improvviso ritorno al vecchio sistema cartaceo rende elevato il rischio dell'attivazione di un contenzioso, dagli esiti imprevedibili, da parte di quanti - ovvero la stragrande maggioranza degli obbligati - hanno già sostenuto i costi necessari per adeguarsi per tempo al sistema SISTRI”.

Alla stregua di ciò la Commissione ha espresso il suo parere favorevole al ripristino del “sistema SISTRI, prevedendone, in via principale e nel rispetto del già previsto scaglionamento per i produttori di rifiuti pericolosi con un numero di dipendenti fino a 10 unità, la piena operatività a far data dal 1° gennaio 2012 e valutando l'opportunità di interventi, sentite le organizzazioni maggiormente rappresentative delle categorie economiche, finalizzati a superare in particolare difficoltà tecniche ed operative e prevedendo eventuali esenzioni ulteriori per tipologie di rifiuti che non presentino aspetti di particolare criticità ambientale”.

Occorrerà dunque attendere la presentazione degli emendamenti e, soprattutto, la conversione in legge del decreto per verificare se e con quali tempi e modalità il SISTRI verrà reintrodotto nel nostro ordinamento.

 

Redattori: Luca Pistorelli, Alessio Scarcella

 

Il vice direttore

(Domenico Carcano)