Cass. Sez. III n.2852 del 22 gennaio 2014 (Ud. 2 ott. 2013)
Pres. Mannino Est. Mulliri Ric. Rossi
Caccia e animali. Allevamento di cavalli e violazione dell'art. 727 cod. pen.

Il peculiare metodo di allevamento dei cavalli di razza maremmana, vale a dire, tenuti in libertà, non è equiparabile tout court a quella del cavallo selvaggio, tanto e vero che i cavalli in questione sono riconducibili a precisi allevamenti ed allevatori i quali ultimi, di conseguenza, mantengono una responsabilità di questa vita all’aperto condotta dagli animali e del loro approvvigionamento per vie naturali. Ciò, specie quando le condizioni climatiche o ambientali possano essere tali da rendere difficile la sopravvivenza autonoma dei cavalli.

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. MANNINO Saverio F. - Presidente - del 02/10/2013
Dott. LOMBARDI Alfredo - Consigliere - SENTENZA
Dott. GRILLO Renato - Consigliere - N. 2920
Dott. MULLIRI Guicla - rel. Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ANDRONIO Alessandro M. - Consigliere - N. 7223/2013
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Rossi Lauro, nato ad Orbetello il 29/5/64 imputato art. 727 c.p.;
avverso la sentenza del Tribunale di Grosseto del 29.6.12;
Sentita la relazione del cons. Guida Mulliri;
Sentito il P.M., nella persona del P.G. dr. LETTIERI Nicola, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato - Con la sentenza qui impugnata, il Tribunale ha condannato il ricorrente alla pena di 1000 Euro di ammenda per la violazione dell'art. 727 c.p. per avere detenuto cavalli di sua proprietà in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze. Per chiarezza, in punto di fatto, va soggiunto che detti animali (oltre una ventina), erano stati rinvenuti casualmente dai guardiacaccia mentre pascolavano allo stato brado, si presentavano - tutti - malnutriti ed assetati ed uno (proprio per aver cercato di bere) era in difficoltà perché finito in una pozza fangosa dalla quale non riusciva ad uscire. Detti animali erano risultati di proprietà del ricorrente. Inizialmente era stata contestata la violazione dell'art. 544 ter c.p. ma, in sentenza, il giudice ha riqualificato il fatto nell'ipotesi detta. 2. Motivi del ricorso - Avverso tale decisione, il condannato ha proposto ricorso, tramite difensore deducendo:
1) insufficiente descrizione dell'imputazione visto che, nella descrizione del fatto, si fa riferimento ad elementi che riguardano tre fattispecie diverse: a) la crudeltà e l'assenza di necessità (propri dei delitto di cui all'art. 544 ter c.p., comma 1); b) l'aver procurato un danno alla salute (proprio del delitto di cui all'art. 544 ter c.p., comma 1); c) l'avere detenuto i cavalli in condizioni incompatibili con la loro natura (proprio della contravvenzione di cui all'art. 727 c.p.);
2) vizio di motivazione per essere stata ritenuta la violazione dell'art. 727 c.p., comma 2 sebbene tale disposizione richieda con la congiunzione "e" che si sia al cospetto di una condotta che procuri gravi sofferenze e che gli animali siano tenuti in "condizioni incompatibili" con la loro natura. Al fine di provare l'accusa, il giudice ricorda che, nella Maremma è costume di tenere i cavalli (dei quali è famosa la razza) in condizioni naturali, (allo stato brado) integrando, in vari modi naturali, la loro alimentazione specie nei periodi più rigidi. Si obietta, da parte del ricorrente, che siffatto modo di allevare è, forse, il migliore ma che il semplice fatto di non avere accudito le bestie così come sarebbe stato opportuno non significa, al contempo, che gli animali fossero stati tenuti in condizioni "incompatibili" con la loro natura visto che è lo stesso giudicante a dare atto del metodo di allevamento naturale di quella razza di cavalli;
3) difetto di motivazione per avere il giudice ritenuto le "gravi sofferenze" nel fatto che - come ha riferito il veterinario - i cavalli fossero "un po' denutriti" (f. io trascrizioni) e non (come dice il giudice) "molto magri, praticamente denutriti". Il tutto, non senza tralasciare di sottolineare che l'assunto del veterinario sopraggiunge all'esito di un esame "sommario" (f. 13 trascrizioni). Il ricorrente chiede, quindi, se, una leggera denutrizione possa qualificarsi come "grave sofferenza".
Il ricorrente conclude invocando l'annullamento della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Motivi della decisione - Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
3.1. Il primo ed il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente perché, ripropongono, sotto diverse angolazioni, la medesima questione posta dinanzi al Tribunale che, però, vi ha replicato in modo più che congruo e logico.
Il tema della qualificazione da dare ai fatti in esame è stato, infatti, affrontato dal giudicante proprio tenendo in considerazione le obiezioni della difesa. Muovendo, infatti, dal rilievo che all'imputato era stato contestato il maltrattamento di animali e la loro detenzione in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di sofferenze, egli, è pervenuto ad una derubricazione del reato inizialmente ascritto al ricorrente nell'ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 727 cpv. c.p..
Vi è da dire, perciò, che lo sforzo di portare oltre la tesi, arrivando a negare persino la ricorrenza di tale ultima ipotesi, non è meritevole di accoglimento perché fa leva su una forzatura della decisione assunta cercando di evidenziarne una illogicità che, in realtà, non esiste.
Ed infatti, proprio grazie alle prospettazioni svolte dalla difesa dell'imputato, il giudice ha, nella specie, tenuto conto del peculiare metodo di allevamento dei cavalli di razza maremmana, vale a dire, tenuti in libertà. Ciò non di meno, come bene ricorda il giudice, tale condizione non è equiparabile tout court a quella del cavallo selvaggio tanto e vero che i cavalli in questione sono riconducibili a precisi allevamenti ed allevatori i quali ultimi, di conseguenza, mantengono una responsabilità di questa vita all'aperto condotta dagli animali e del loro approvvigionamento per vie naturali. Ciò, specie quando le condizioni climatiche o ambientali possano essere tali da rendere difficile la sopravvivenza autonoma dei cavalli.
Nel caso che occupa, è un dato di fatto indiscutibile, per quanto accertato dalla squadra di cacciatori occasionalmente trovatasi a passare, che uno dei cavalli del Rossi era in serie difficoltà perché, nel tentativo di abbeverarsi in una pozza fangosa (cosa che in sè testimonia lo stato di disidratazione cui era giunto), era finito al suo interno e rischiava di affogarvi. Anche gli altri animali del branco dell'allevamento del Rossi sono risultati denutriti. Indipendentemente dai tentativi di puntualizzazione della difesa (peraltro in fatto e neppure documentati) secondo cui si sarebbe trattato di una "normale" denutrizione (come riferito dal veterinario) e non di cavalli "molto magri, praticamente denutriti" (come dice il giudice) è, tuttavia, vano il tentativo illusionistico della difesa di equiparare la condizione di obiettivo e grave disagio in cui sono stati rinvenuti gli animali con la condizione naturale degli animali allevati allo stato brado.
Bene ricorda il giudice che, seppure gli animali non risultavano feriti, "presentavano segni evidenti di magrezza e, soprattutto, erano afflitti chiaramente da una carenza di acqua, tanto che erano costretti ad abbeverarsi nell'unica pozza disponibile, praticamente invasa dal fango ed, di fatto, ridotta ad una trappola pericolosa nella quale l'animale, che vi si era avventurato per necessità, non essendovi alternative, era rimasto intrappolato". Nel caso che occupa, pertanto, ricorrono entrambi i requisiti richiesti dalla norma, vale a dire, una condotta omissiva del proprietario che ha procurato gravi sofferenze ai cavalli non disgiunta dal rilievo che - per quanto fosse peculiare il metodo di allevamento - certamente esso non prevedeva un totale abbandono degli animali al loro destino sì che le omissioni del Rossi hanno determinato una condizione di vita degli stessi incompatibile con la loro natura (anche perché, diversamente, si sancirebbe l'esistenza di una forma di "proprietà" del tutto "irresponsabile" da parte dell'allevatore di cavalli di razza maremmana). È, comunque, orientamento di questa S.C. quello secondo cui costituiscono maltrattamenti, idonei ad integrare il reato di abbandono di animali, non solo le sevizie, le torture o le crudeltà caratterizzate da dolo, ma anche "quei comportamenti (sia pure colposi) di abbandono e incuria che offendono la sensibilità psico-fisica degli animali quali autonomi essere viventi, capaci di reagire agli stimoli del dolore come alle attenzioni amorevoli dell'uomo" (sez. 3, 22.11.12, Tomat, rv. 253882).
Vi è, altresì, da annotare, perciò, che la correttezza della decisione qui impugnata si constata anche riflettendo sul fatto che l'incrudelimento verso i cavalli verificatosi nella specie è avvenuto senza alcun apprezzabile motivo, la qual cosa è inlinea con il citato l'atteggiamento interpretativo di questa S.C. anche sotto il profilo psichico (v. anche sez. 3, 1.10.96, Dal Prà, rv. 206818) visto che, come giustamente chiosa il giudice, il fatto in esame è sicuramente ascrivibile a titolo di colpa (Sez. 3, 26.4.05, Duranti, Rv. 231652).
3.2. Come si è già avuto modo di accennare nel trattare il motivo che precede, la questione sull'effettivo grado di denutrizione degli animali è infondata (quasi manifestamente) visto che si risolve in un tentativo di coinvolgere questa S.C. in apprezzamenti fattuali, per di più, in assenza di qualsivoglia allegazione circa emergenze processuali (le dichiarazioni dei veterinario richiamate dai ricorrente) visto che, per questa S.C., "l'accesso agli atti del processo, non è indiscriminato, dovendo essere veicolato in modo "specifico" dall'atto di impugnazione (sez. 6, 15.3.06, casula, rv. 233711; sez. 6, 14.6.06, Policella, rv. 234914) senza, al contempo, alterarne la natura di giudizio di legittimità e non di merito. Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2014