Cass. Sez. III n. 5617 del 7 febbraio 2017 (Ud 15 dic 2016)
Presidente: Ramacci Estensore: Mengoni Imputato: Schito
Caccia e animali.Tabellazione oasi regionali
La tabellazione, ancorché imposta per le oasi regionali dalla legge statale n. 157 del 1992, art. 10, comma 9, non rappresenta un elemento costitutivo del reato di esercizio illecito della caccia nelle stesse, in assenza del quale esso per le aree protette regionali non sarebbe configurabile, ma serve soltanto a rendere opponibile ai terzi il divieto, avendo il legislatore ritenuto insufficiente la pubblicazione sul bollettino regionale. Pertanto, in presenza di una tabellazione regolare, la conoscenza del divieto si presume ed il trasgressore, salvo casi eccezionali, non ne può invocare a propria discolpa l'ignoranza. La stessa mancanza di tabellazione o la sua inadeguatezza, peraltro, non determinano automaticamente l'esclusione del reato o la non punibilità del reo, ma pongono a carico dell'accusa l'onere di dimostrare che, nonostante ciò, il trasgressore aveva la consapevolezza del divieto
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell'8/2/2016, la Corte di appello di Lecce, in riforma della pronuncia emessa il 12/2/2014 dal Tribunale di Brindisi, concedeva a Mario Schito il beneficio della non menzione della condanna, confermando nel resto la pena nella misura di tre mesi di arresto e 1.000,00 euro di ammenda; allo stesso era contestato il reato di cui agli artt. 21, comma 1, lett. c), 30, comma 1, lett. d), I. 11 febbraio 1992, n. 157, per aver esercitato la caccia all'interno del Parco naturale regionale "Saline Punta della Contessa". In Brindisi, il 25/9/2011.
2. Propone ricorso per cassazione lo Schito, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- nullità della sentenza per carenza di motivazione ed inosservanza della legge penale. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna senza valutare affatto un elemento decisivo, quale la mancanza di idonea tabellazione all'interno dell'area in cui il ricorrente era stato fermato; quel che - giusta giurisprudenza di questa Corte - non esclude in sé il reato, ma pone a carico dell'accusa un rigoroso onere probatorio, nel caso di specie non assolto. E con l'ulteriore, centrale considerazione che - proprio in forza di quanto precede - lo stesso Collegio, in altra udienza, aveva assolto per carenza dell'elemento soggettivo tale Salvatore Fabio Stefanelli, sorpreso a cacciare insieme allo Schito nel medesimo contesto di tempo e di luogo di cui al presente giudizio. La sentenza, inoltre, introdurrebbe elementi di giudizio ultronei, con riferimento all'uso delle armi da fuoco, invero irrilevante;
- vizio motivazionale con riguardo al trattamento sanzionatorio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Al riguardo, deve innanzitutto ribadirsi la più recente giurisprudenza di questa Corte a mente della quale la tabellazione, ancorché imposta per le oasi regionali dalla legge statale n. 157 del 1992, art. 10, comma 9, non rappresenta un elemento costitutivo del reato di esercizio illecito della caccia nelle stesse, in assenza del quale esso per le aree protette regionali non sarebbe configurabile, ma serve soltanto a rendere opponibile ai terzi il divieto, avendo il legislatore ritenuto insufficiente la pubblicazione sul bollettino regionale. Pertanto, in presenza di una tabellazione regolare, la conoscenza del divieto si presume ed il trasgressore, salvo casi eccezionali, non ne può invocare a propria discolpa l'ignoranza. La stessa mancanza di tabellazione o la sua inadeguatezza, peraltro, non determinano automaticamente l'esclusione del reato o la non punibilità del reo, ma pongono a carico dell'accusa l'onere di dimostrare che, nonostante ciò, il trasgressore aveva la consapevolezza del divieto (tra le più recenti, Sez. 3, n. 17102 dell'8/3/2016, Puglia, Rv. 266638; Sez. 3, n. 39112 del 29/5/2013, Tarquinio, Rv. 257525; Sez. 3, n. 9576 del 25/1/2012, Falco, Rv. 252249).
In definitiva, dunque:
- con la tabellazione, il divieto si presume noto e l'accusa non ne deve dimostrare la conoscenza da parte del trasgressore;
- senza la tabellazione, invece, deve essere l'accusa a dimostrare che, nonostante tale mancanza, il trasgressore fosse a conoscenza del divieto (sulla base di elementi di fatto quali, esemplificativamente, la conoscenza della zona dovuta al dimorare nella medesima o in luoghi prossimi ad essa, l'abituale esercizio della caccia in quei siti, la preesistenza di cartelli successivamente rimossi o danneggiati e, in genere, le peculiari modalità dell'azione). Non vi è, infatti, alcuna plausibile ragione per esentare dalla sanzione colui il quale è a conoscenza del divieto, pur mancando la tabellazione; del resto, diversamente opinando, potrebbe rimanere esente da pena il cacciatore che si introduca nell'area dopo avere rimosso il cartello collocato in prossimità del luogo da dove è entrato e, sorpreso dagli agenti, si giustifichi facendo rilevare che in quel luogo non esisteva alcuna segnalazione.
4. Orbene, tutto ciò premesso, osserva il Collegio che la sentenza impugnata - pur erroneamente richiamando la pubblicazione della cartografia nel bollettino ufficiale regionale come elemento qualificante il reato, nell'ottica della conoscibilità degli stessi confini e dell'onere informativo a carico del cacciatore - ha comunque individuato precisi elementi fattuali che giustificano la dichiarazione di responsabilità, e ciò proprio alla luce dell'indirizzo ermeneutico appena richiamato. In particolare, la Corte di appello ha sottolineato che 1) l'area era connotata da parziale tabellazione, notata dallo stesso Schito (come ammesso in sede di esame), sebbene il punto in cui questi fu fermato ne fosse priva, perché divelta qualche giorno prima (il dato, dunque, è stato valutato, contrariamente all'assunto del ricorrente); 2) l'eliminazione delle tabelle non rendeva più difficoltosa l'individuazione dell'area inibita alla caccia, attesa l'esistenza di un confine naturale rappresentato da una installazione militare perfettamente visibile; 3) lo Schito, alla vista degli agenti del Corpo forestale, si era dato alla fuga proprio per fuoriuscire dai confini del parco.
Una motivazione congrua, dunque, fondata su oggettivi riscontri istruttori e non manifestamente illogica; ancora, una motivazione che ha fatto buon governo dei principi di diritto affermati da questa Corte, individuando proprio quegli elementi ulteriori che - in assenza di tabellazione - giustificano una declaratoria di condanna.
Ancora sul primo motivo, poi, si osserva che il riferimento all'introduzione di armi in area protetta è stato dichiarato ultroneo anche dalla Corte di appello, che non vi ha collegato alcun effetto.
5. Infine, il trattamento sanzionatorio.
Non può esser condivisa, al riguardo, la doglianza che lamenta carenza di motivazione sul punto, atteso che la sentenza - nel confermare la pena, peraltro prossima ai limiti edittali minimi - ne ha riconosciuto la congruità in ragione della gravità del fatto ed alla capacità a delinquere dimostrata in concreto dall'imputato.
6. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016