La rigenerazione urbana, tra buoni propositi e scarsi risultati
di Nicola DURANTE
Pubblicazione dell'Ufficio Studi della Giustizia Amministrativa
1. I buoni propositi.
Tra gli obiettivi cardine dell’urbanistica moderna vi è quello di riqualificare il patrimonio immobiliare esistente nell’ottica della sostenibilità socio-ambientale e del minor consumo di suolo, da conseguire mediante l’attuazione di programmi di rigenerazione (dall’inglese: urban regeneration ) e di progetti di rinnovamento (dall’inglese: urban renewal) [1]
Nel diritto pattizio internazionale, l’obiettivo è riportato in importanti atti di indirizzo quali, solo per citare gli ultimi in ordine cronologico, l’Agenda O.N.U. 2030, la New urban agenda della Conferenza mondiale Habitat III di Quito del 2016 e l’Agenda urbana dell’Unione europea approvata a Lipsia nel 2020, che guardano con favore alla rigenerazione urbana «come un processo pianificato che deve trascendere gli àmbiti parziali e gli approcci che sono stati la norma fino ad ora, al fine di guidare sia la città nel suo insieme, sia le sue parti come componenti dell’intero organismo urbano, verso l’obiettivo di sviluppare appieno e bilanciare la complessità e la diversità delle strutture sociali, economiche e urbane, e allo stesso tempo stimolare una maggiore eco-efficienza ambientale»[2].
Il territorio va dunque pensato «non più solo come uno spazio topografico suscettibile di occupazione edificatoria, ma rivalutato come una risorsa complessa che incarna molteplici vocazioni (ambientali, culturali, produttive e storiche)», all’interno di un processo evolutivo «diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale»[3].
Sul piano legislativo, mentre la materia dell’ambiente è in capo allo Stato – cui spetta prescrivere standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, anche incidenti sulle competenze legislative regionali [4] –, la materia del governo del territorio compete alle Regioni, la cui azione è strutturalmente più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti generali ed ab externo alla pianificazione locale[5], nel rispetto del limite di non comprimere le funzioni dei Comuni «oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità»[6].
In quest’ottica, il potere di pianificazione urbanistica «deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto, ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati»[7].
Sul piano dell’agire amministrativo, la rigenerazione urbana viene configurata come una strategia pubblica [8] – e, quindi, un interesse pubblico a sé stante – o come un modulo organizzativo d’integrazione tra più settori a cavallo tra le funzioni del governo del territorio e della tutela dell’ambiente[9].
Nel perseguimento di essa, la pianificazione urbanistica generale – destinata all’intero territorio comunale ed espressione prevalente di un’idea di espansione – si è convertita nel tempo in una pianificazione per àmbiti, atta a soddisfare i fabbisogni di ciascuno di essi, nel rispetto delle peculiari identità e dei vincoli di varia natura esistenti[10].
Un ulteriore impulso alla pianificazione per àmbiti è sorto anche dall’esigenza di accrescere l’efficientamento energetico delle città mediante processi di riqualificazione riguardanti non tanto i singoli fabbricati, ma intere aree differenziate per uso e destinazione degli immobili, che soltanto attraverso una programmazione puntiforme conseguono la migliore funzionalizzazione delle rispettive risorse, nel quadro complessivo di un’equilibrata distribuzione dei benefici su tutto il territorio.
2. Gli scarsi risultati.
Nel concetto di rigenerazione urbana rientra tutta una molteplicità diversificata di tipologie d’intervento: dalla riconversione delle aree abbandonate, al recupero delle periferie degradate, alla rivitalizzazione dei centri storici marginalizzati[11].
Gli strumenti tecnico-giuridici classici della rigenerazione sono progressivamente costituiti dal riuso, dalla sostituzione edilizia e dalla riqualificazione urbanistica, secondo criteri e metodologie di sostenibilità ambientale, salvaguardia del suolo, delocalizzazione dei nuovi interventi di trasformazione nelle aree già edificate e degradate, innalzamento del potenziale ecologico-ambientale e della biodiversità urbana, riduzione dei consumi idrici ed energetici, rilancio della città pubblica attraverso la realizzazione di adeguati servizi primari e secondari e miglioramento della qualità e della bellezza dei contesti abitativi[12].
Nondimeno, occorre notare come il testo unico dell’edilizia sia privo di una definizione di rigenerazione urbana, quantunque il concetto venga menzionato quattro volte:
- all’art. 3, comma 1, lett. d), dove si stabilisce che, nei casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, l’intervento di ristrutturazione edilizia può dar luogo ad incrementi di volumetria “anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”;
- all’art. 14, comma 1-bis, dove si stabilisce che il consiglio comunale può attestare l’interesse pubblico di un intervento di ristrutturazione edilizia in deroga allo strumento urbanistico “limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo e di recupero sociale e urbano dell’insediamento”;
- all’a rt. 17, comma 4-bis, dove si consente la riduzione del contributo di costruzione “al fine di agevolare gli interventi di rigenerazione urbana, di decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo, di ristrutturazione, nonché di recupero e riuso degli immobili dismessi o in via di dismissione, rispetto a quello previsto dalle tabelle parametriche regionali”;
- all’art. 23-quater, comma 1, dove si ammette l’utilizzazione temporanea di edifici ed aree per usi diversi da quelli previsti dallo strumento urbanistico “allo scopo di attivare processi di rigenerazione urbana, di riqualificazione di aree urbane degradate, di recupero e valorizzazione di immobili e spazi urbani dismessi o in via di dismissione e favorire, nel contempo, lo sviluppo di iniziative economiche, sociali, culturali o di recupero ambientale”.
Tali disposizioni, in verità, travisano il concetto di rigenerazione urbana con quello di rinnovamento edilizio, prevedendo benefici in favore di interventi (di ristrutturazione e di cambio di destinazione d’uso) mirati alla riqualificazione non già del tessuto di interi àmbiti, ma di singoli fabbricati.
Nessun cenno alla rigenerazione urbana è invece contenuto là dove sarebbe stato più appropriato, ovverosia all’art. 3, comma 1, lett. f), che definisce gli interventi di ristrutturazione urbanistica come “quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale”.
E’ la legislazione regionale a collegare direttamente il concetto di rigenerazione alla realizzazione di programmi incentivati di trasformazione urbana[13].
Tanto è stato reso possibile dall’art. 5 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito con legge 12 luglio 2011, n. 106, che ha dato mandato alle Regioni di approvare proprie leggi, per incentivare con misure premiali – quali il riconoscimento di volumetrie aggiuntive ed il cambio di destinazione d’uso tra destinazioni compatibili o complementari – le attività, anche di demolizione e ricostruzione, aventi il “fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili”.
La stessa norma prevede che, scaduti 60 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione e fino all’entrata in vigore dell’eventuale normativa regionale, detti interventi siano assentibili con permesso di costruire in deroga, fermo restando il rispetto degli standard urbanistici, nonché delle norme vincolistiche e speciali.
Pure in tal caso, però, sembra evidente l’antinomia tra il fine posto dal legislatore nazionale ed il rimedio offerto in ipotesi di inerzia regionale.
Ed infatti, per gli interventi di “riqualificazione di aree urbane degradate” (ossia, di rigenerazione urbana propriamente detta), l’assenza di una normativa regionale di favore non è surrogabile dall’istituto del permesso di costruire in deroga, giacché, di regola, gli stessi interventi presuppongono nella migliore delle ipotesi un’apposita strumentazione attuativa, se non addirittura di una strumentazione primaria ad hoc[14].
Sempre nella logica dell’intervento spot sul singolo immobile, s’inserisce il decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, che ha introdotto nel testo unico dell’edilizia l’art. 3-bis, in base al quale gli edifici dichiarati non più compatibili con gli indirizzi della pianificazione possono essere oggetto, oltre che di espropriazione, anche di interventi di “riqualificazione delle aree, attraverso forme di compensazione incidenti sull’area interessata e senza aumento della superficie coperta, rispondenti al pubblico interesse e comunque rispettose dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa. Nelle more dell’attuazione del piano, resta salva la facoltà del proprietario di eseguire tutti gli interventi conservativi, ad eccezione della demolizione e successiva ricostruzione non giustificata da obiettive ed improrogabili ragioni di ordine statico od igienico sanitario”[15].
Nessun riferimento a programmi agevolati di riqualificazione delle aree si rinviene, infine, nei decreti-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito con legge 14 giugno 2019, n. 55 e 16 luglio 2020, n. 76, convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120, pur avendo i medesimi finalità promozionali della rigenerazione urbana.
Alla luce di quanto sopra, gli strumenti tipici della pianificazione rigenerativa sono dunque rimasti estremamente datati, dovendosi ricercare nel piano di recupero ex art. 28 della legge 5 agosto 1978, n. 457 e nei programmi complessi di cui agli artt. 2 e 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (programmi di riqualificazione urbana e programmi integrali d’intervento).
Si tratta, in entrambi i casi, di strumenti di rango inferiore rispetto alla pianificazione generale, ma:
- mentre il piano di recupero ha valenza meramente attuativa dello strumento generale[16], di modo che esso è inidoneo ad introdurre vincoli nuovi ed ulteriori rispetto a quelli esistenti nello strumento urbanistico generale in vigore, neppure quando tale modifica trovi la sua giustificazione in una richiesta del privato[17];
- i programmi complessi sono strumenti attuativi speciali costituiscono variante alla strumentazione primaria vigente al momento della loro approvazione, pur non essendo idonei a vincolare la strumentazione primaria successiva[18].
Tirando le fila del discorso, appare chiaro come l’ordinamento amministrativo vigente sia lacunoso di dispositivi effettivamente idonei al perseguimento della rigenerazione urbana, giacché il legislatore nazionale, dimostrando un incomprensibile «ritardo concettuale» rispetto al legislatore regionale[19], si è principalmente concentrato nel favorire interventi episodici di rinnovamento edilizio, quando sarebbe stato necessario incentivare una pianificazione diffusa “per risultato”, tesa a rivitalizzare l’esistente, àmbito per àmbito.
Da questo vizio d’origine deriva che, allo stato, la rigenerazione urbana viene realizzata con moduli organizzativi tradizionali ed aspecifici, quali i piani urbanistici attuativi e gli schemi generali di cooperazione istituzionale e sussidiarietà (come l’accordo di programma ed il partenariato pubblico-privato) e, comunque, in assenza di una stabile e mirata cornice normativa di incentivi.
Fatalmente, questa “fragilità” del tessuto normativo di riferimento frena ogni spinta propulsiva, specie quando l’intervento proposto dai soggetti interessati non sia immediatamente riconducibile entro le griglie normative e pianificatrici esistenti, col duplice risultato di “mettere in allarme” le amministrazioni pubbliche nei riguardi delle soluzioni più innovative e di “allontanare” gli investimenti privati[20].
Nell’ impasse che si è determinato, pertanto, l’unico approccio utile alle politiche di rigenerazione è stato sinora di tipo empirico e sperimentalista, la cui legittimazione si è fondata, più che sulla norma espressa, sulle peculiarietà e le necessità del caso concreto, come è accaduto, ad esempio, con riferimento ad una «importante opera architettonica di complessiva riqualificazione di un centro urbano precedentemente degradato, certamente ascrivibile in primo luogo all’interesse economico che ha motivato il finanziamento privato delle nuove opere edilizie e diversamente valutabile quanto al soggettivo apprezzamento estetico, ma certamente legittima sotto il profilo della valutazione, ponderazione e comparazione dei diversi profili d’interesse pubblico coinvolti, da parte dell’ente democraticamente esponenziale della comunità locale, che ha non irragionevolmente ritenuto prevalenti le esigenze di sistemazione e modernizzazione dell’ habitat urbano di vita della medesima comunità rispetto alla preservazione di contesti tradizionali oramai compromessi, così come acclarato dalla competente Soprintendenza con due pareri paesaggistici adottati a seguito di un’ampia istruttoria aperta alla partecipazione di tutti gli interessi coinvolti»[21].
[1] Per una trattazione generale degli aspetti tecnici, LOSASSO M., Rigenerazione urbana: prospettive di innovazione , in Techne, 2015, 10, 4 ss.
[2] Dichiarazione della conferenza dei Ministri dell’U.E. di Toledo del 2010.
[3] C. cost. 16 luglio 2019, n. 179.
[4] Corte cost. 20 dicembre 2002, n. 536 e 26 luglio 2002, n. 407.
[5] Corte cost., 23 maggio 2019, n. 179.
[6] Corte cost., 23 giugno 2020, n. 119.
[7] Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710.
[8] CARTEI G.F., Rigenerazione urbana e governo del territorio, in Istituzioni di federalismo,2017, 614.
[9] FAVARO T., Dai brownfieldsallesmart cities. Rigenerazione urbana e programmazioni digitalmente orientate,in PASSALACQUA M., POZZO B. (a cura di), Diritto e rigenerazione deibrownfields, amministrazione, obblighi civilistici, tutele,Bologna, 2019, 171.
[10] MARENGHI G.M., La città nuova nel nuovo diritto. Rigenerazione urbana e destinazione urbanistica , Napoli, 2024, 134 e 149 ss.
[11] GIANI L., D’ORSOGNA M., Diritto alla città e rigenerazione urbana. Esperimenti di resilienza , in AA.VV., Scritti in onore di Picozza, vol. 3, Napoli, 2020.
[12] GIUSTI A., La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione , Napoli, 2018.
[13] In particolare, quelle della Puglia, della Toscana, del Veneto, del Lazio e dell’Emilia-Romagna.
[14] CARTEI G.F., AMANTE E., Strumenti giuridici per la rigenerazione urbana , in PASSALACQUA M., FIORITTO A., RUSCI S. (a cura di), Ri-conoscere la rigenerazione. Strumenti giuridici e tecniche urbanistiche , Santarcangelo di Romagna , 2018, 24 ss.
[15] Tuttavia, secondo CARTEI G.F., AMANTE E., op. cit., 29, «la previsione del 2014 può rappresentare addirittura un ostacolo alla rigenerazione, nella parte in cui non consente, incomprensibilmente, incrementi delle superfici, spesso invece necessari in funzione incentivante». Tale deficit dovrebbe però essere stato oggi colmato dalla previsione generale dell’art. 2-bis, comma 1-ter, del D.P.R. n. 380/2001.
[16] Cons. Stato, Sez. II, 25 febbraio 2021, n. 1631; C.g.a., 19 febbraio 2016, n. 48; Cons. Stato, Sez. IV, 29 dicembre 2010 n. 9537.
[17] Cons. Stato, Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 922.
[18] Cass. pen., Sez. III, 2 aprile 2009, n. 14504; Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2006, n. 3889.
[19] URBANI P., GOLISANO L., Il decreto Sblocca cantieri e il mancato intervento in materia di rigenerazione urbana , in Rivista di diritto urbanistico Pausania, 2019.
[20] BONETTI T., La rigenerazione urbana nell’ordinamento giuridico italiano: profili ricostruttivi e questioni aperte , in FONTANARI E., PIPERATA G. (a cura di), Agenda re-cycle. Proposte per reinventare la città , Bologna, 2017, 59 ss.
[21] Cons. Stato, Sez. III, 26 aprile 2024, n. 3780 (vicenda del Crescent di Salerno).