Quando il bracconaggio è furto aggravato ai danni dello Stato
(Cass. Sez. IV n. 13506/2020)

di Stefano DELIPERI



Rilevante sentenza della Corte di cassazione penale su un tema che ha dato luogo ad accesi dibattiti da decenni, la configurazione del reato di bracconaggio come furto aggravato ai danni dello Stato.
La linea giurisprudenziale in tale senso si era man mano consolidata negli anni ’80 del secolo scorso con una nutrita serie di pronunce della Corte di cassazione sotto la vigenza della precedente legge n. 968/1977 e s.m.i. sulla caccia: la cattura di esemplari appartenenti a specie di fauna selvatica al di fuori delle condizioni e limiti stabiliti dalla normativa venatoria configurava il reato di furto aggravato ai danni dello Stato, a cui appartiene la fauna selvatica quale “patrimonio indisponibile” tutelato “nell’interesse della comunità nazionale” (art. 1 della legge n. 968/1977).
Anche la Corte costituzionale (sentenza n. 97/1987) aveva poi escluso ogni rapporto di specialità (ai sensi dell’art. 9 della legge n. 689/1981) fra le sanzioni amministrative di cui alla legge n. 968/1977 e le disposizioni del codice penale a tutela della proprietà.
Il legislatore del 1992, con la nuova legge n. 157/1992 e s.m.i. sulla caccia, ha inteso superare tale orientamento giurisprudenziale, infatti l’art. 30, comma 3°, afferma esplicitamente: “Nei casi di cui al comma 1 (cioè per “le violazioni delle disposizioni della presente legge e delle leggi regionali”, n.d.r.) non si applicano gli articoli 624, 625 e 626 del codice penale”. Analoga disposizione è contenuta riguardo le sanzioni amministrative nel successivo art. 31, comma 5° (“Nei casi previsti dal presente articolo non si applicano gli articoli 624, 625 e 626 del codice penale”).
Tuttavia, nella legge n. 157/1992 e s.m.i. non c’è alcuna norma che esplicitamente sanzioni l’attività di caccia in assenza di licenza.
Se è vero che chi va in giro con un fucile a fini venatori senza aver conseguito la licenza di caccia in corso di validità commette il reato di porto abusivo d’arma (art. 699 cod.pen.), è vero anche che le ipotesi contemplate e sanzionate dagli artt. 30-31 della legge n. 157/1992 e s.m.i. non esauriscano tutte le situazioni in astratto verificabili, in primo luogo quella del bracconiere privo di licenza di caccia.
Le ipotesi di reato configurabili in danno del patrimonio indisponibile dello Stato tutelato “nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale” (art. 1 della legge n. 157/1992 e s.m.i.) appaiono, quindi, quella del furto aggravato (artt. 624-625 cod. pen.), in caso di apprensione della fauna uccisa da parte del bracconiere privo di licenza di caccia, e del danneggiamento (art. 635 cod. pen.), in caso di mancata apprensione della fauna uccisa da parte del bracconiere privo di licenza di caccia.
La fattispecie concreta riscontrata dalla sentenza Cass. pen., Sez. IV, 30 aprile 2020, n. 13506 è proprio quella dell’esemplare di fauna selvatica ucciso, dopo ferimento occasionale, e prelevato da persona priva di autorizzazione alla caccia.
L’indirizzo giurisprudenziale appare costante negli ultimi anni (sentenza Sez. III, 28 gennaio 2015, n. 3930; sentenza Sez. IV, 11 agosto 2004, n. 34352).
Un indirizzo giurisprudenziale quello del furto venatorio che riprende consistenza e forza anche con l’attuale quadro normativo e che fa ben sperare per una più efficace tutela della fauna selvatica, viste le sanzioni penali più incisive.
Dott. Stefano Deliperi



CORTE DI CASSAZIONE
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PAOLINI LUCIANO, nato a Urbania l’08/02/1945;
avverso la sentenza n. 1759/2017 della CORTE DI APPELLO DI ANCONA dell'11/03/2019;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso; udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dott. Aldo Esposito;
udite le conclusioni del Procuratore generale, in persona della dott.ssa ASSUNTA COCOMELLO, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale di Pesaro del 7 giugno 2017, con cui Paolini Luciano era stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione ed euro centoventi di multa in relazione al reato di cui agli artt. 624 e 625, n. 7, cod. pen. (perché era sorpreso mentre gettava un pesante sacco all'interno del cassonetto, contenente i resti di un capriolo, essendosi, pertanto, impossessato di un animale selvatico senza autorizzazione venatoria - in Pesaro, località Siligata, il 24 giugno 2013).
1.1. In ordine alla ricostruzione della vicenda, il Tribunale rilevava che gli avanzi di macellazione dell'animale erano stati depositati nella spazzatura, proprio sotto gli occhi del capitano Santilli, ad opera dell'imputato; inoltre, nel frigo del teste Bicciato, erano trovate le due mezzene dell'animale che il Paolini gli aveva portato col proposito di riprendersele. Nel corso dell'interrogatorio, il Paolini riferiva di aver accidentalmente investito un capriolo, di averlo trovato agonizzante e di averlo finito per alleviarne le sofferenze, per poi portarlo con sé, macellarlo e riporlo in frigo da un conoscente.
Gli esiti dell'accertamento tecnico confortavano la versione dell'imputato, in quanto si dava atto della presenza di frattura all femore destro e di ematomi vari, circostanze compatibili con la descritta dinamica di un investimento.
L'imputato non chiariva le modalità di uccisione dell'animale né il consulente era in grado di stabilire se il taglio alla gola fosse stato inferto prima o dopo la morte dell'animale.
Secondo la Corte territoriale, trattandosi di specie appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato, l'appropriazione ad opera di soggetto privo di licenza di caccia integrava gli estremi del reato di furto.
Ricorrevano gli estremi del reato di furto aggravato dalla natura pubblica del bene, perché l'imputato, dopo un investimento verosimilmente non volontario, anziché porre l'animale a disposizione delle autorità statuali competenti, se ne appropriava con scopi alimentari propri o di vendita a terzi, cioè col fine di trarne profitto.
1.2. La Corte territoriale ha rilevato che il Tribunale aveva compiuto una descrizione dettagliata, precisa e puntuale della vicenda, desumendo correttamente la responsabilità del Paolini in ordine al reato contestato; inoltre, ha ritenuto tuttora configurabile il reato di furto aggravato di fauna ai danni del patrimonio indisponibile dello Stato.
Ricorreva il dolo specifico del reato in esame, potendo esso consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere quindi ad una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta. Il capriolo, d'altronde, risultava scuoiato e privo di corna, per cui se ne era appropriato a fine di lucro (alimento proprio o cessione a terzi).
2. Il Paolini, a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo sei motivi di impugnazione.
2.1. Violazione di legge. Si deduce che, stante l'impossibilità di stabilire se l'animale fosse ancora in vita al momento del taglio alla gola, tuttalpiù poteva riscontrarsi un'ipotesi di omicidio colposo di animale, fatto penalmente non rilevante. Essendo morto il capriolo per causa accidentale, i suoi resti non potevano essere considerati fauna selvatica e la carcassa non apparteneva al patrimonio indisponibile dello Stato.
2.2. Vizio di motivazione in ordine alle questioni prospettate col primo motivo di ricorso in tema di inesistenza di attività di caccia del Paolini e della non configurabilità del furto venatorio.
Si osserva che la Corte territoriale non aveva risposto alle doglianze già sollevate con l'atto di appello, essendosi limitata a confermare la validità delle argomentazioni del giudice di primo grado. La giurisprudenza richiamata dall'organo giudicante in ordine alle diverse ipotesi di bracconaggio e di caccia di frodo, non riguardava con la fattispecie in esame.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 625, n. 7, cod. pen.
Si rileva che le modalità di svolgimento del fatto consentivano di escludere la sussistenza dell'aggravante dell'esposizione a pubblica fede, per cui, trattandosi di vicenda al massimo integrante il reato di furto semplice, doveva rilevarsi l'improcedibilità dell'azione penale per difetto di querela.
2.4. Violazione di legge con riferimento all'art. 625, n. 7, cod. pen. Si deduce che l'aggravante era stata riconosciuta per la natura pubblica del bene, ipotesi non rientrante nella disposizione in esame. In ogni caso, una carcassa di animale non poteva avere natura pubblica.
2.5. Violazione dell'art. 727 bis cod. pen..
Si osserva che il fatto doveva essere riqualificato in quello previsto dall'art. 727 bis cod. pen., ipotesi contravvenzionale punita a titolo di colpa.
2.6. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'art. 62 n. 4 cod. pen.
Si deduce che una carcassa di animale ha un valore economico insignificante, essendo destinata ad essere smaltita come rifiuto, per cui poteva essere riconosciuta l'attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo di ricorso, con cui si deduce che nella fattispecie si versava in ipotesi di omicidio colposo di animale, fatto penalmente irrilevante, è manifestamente infondato.
Dalla lettura della sentenza di primo grado, emerge che, in sede di interrogatorio, il Paolini aveva ammesso di aver rinvenuto il capriolo in stato di agonia e di averlo ucciso per alleviarne le sofferenze. Tali dichiarazioni non erano successivamente smentite dal Paolini, per cui non vi sono quindi dubbi sull'esistenza in vita dell'animale nel momento in cui era stato trovato.
3. Il secondo e il quinto motivo di ricorso, entrambi attinenti al tema dell'esatta qualificazione del reato configurabile nella fattispecie, sono infondati.
La legge sulla caccia 11 febbraio 1992, n. 157 non esclude in via assoluta l'applicabilità del cosiddetto "furto venatorio"; al contrario, prevede tale esclusione solamente in relazione ai casi specificamente previsti dagli artt. 30 e 31, che non esauriscono tutti quelli di apprensione della fauna da ritenersi vietati in base ad altri precetti contenuti nella legge stessa ed infatti l'art. 30, n. 3, proibisce l'applicazione del "furto venatorio": "nei casi di cui al comma 1 (dell'art. 30) non si applicano gli artt. 624, 625 e 626 cod. pen." ed analoga previsione è contenuta nell'art. 31 per le sanzioni amministrative.
Ne consegue che il reato di furto è stato espressamente escluso soltanto nei casi circoscritti dalla prima parte dell'art. 30 e da tutto l'art. 31 in questione e, cioè, quelli riguardanti il cacciatore munito di licenza che violi la stessa e cacci di frodo, mentre il bracconiere senza licenza non rientra in questa prima parte dell'art. 30, in tutto l'art. 31 e nessun'altra previsione specifica, per cui il furto venatorio appare ancora applicabile a suo carico, essendo la fauna patrimonio indisponibile dello Stato (art. 1, L. cit.) e restano dunque intatti i vecchi presupposti giuridici del "furto venatorio" (Sez. 4, n. 8151 del 13/12/2018, dep. 2019, Berardi, non massimata; Sez. 5, n. 25728 del 30/04/2012, Cassone, non massimata; Sez. 5, n. 48680 del 06/06/2014, Fusco, Rv. 261436; Sez. 4, n. 34352 del 24/05/2004, Peano, Rv. 229083).
Il reato di furto aggravato di fauna ai danni del patrimonio indisponibile dello Stato, pertanto, è ancora oggi applicabile nel regime della L. n. 157 del 1992 con riferimento al caso in cui l'apprensione o il semplice abbattimento della fauna sia opera di persona non munita di licenza di caccia. Tale interpretazione, oltre che sui dati testuali sopra riferiti, risulta anche alla luce del complessivo impianto normativo della L. n. 157 del 1992, il cui art. 1 testualmente stabilisce l'appartenenza della fauna selvatica al patrimonio indisponibile dello Stato e con le norme successive regola le modalità attraverso le quali (concessione da parte dello Stato, art. 12) è consentito l'esercizio dell'attività venatoria, specificando luoghi, tempi, modi e oggetto della stessa e prevedendo, correlativamente, agli artt. 30 e 31 sanzioni penali e amministrative per i comportamenti difformi ivi specificamente ed analiticamente elencati, per i quali è espressamente esclusa la possibilità di applicare le norme di cui agli artt. 624, 625 e 626 cod. pen..
4. Il terzo e il quarto motivo di ricorso, con cui si contesta il riconoscimento della circostanza aggravante di cui all'art. 625, n. 7, cod. pen., è infondato.
Occorre premettere che, contrariamente a quanto indicato dal ricorrente, alla luce di quanto sopra esposto al par. 2, non si versava in ipotesi di furto di "carcassa" di animale, bensì di un capriolo vivo e libero.
In linea generale, va osservato che la natura, privata o pubblica, del luogo di esposizione del bene è ininfluente ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 625, n. 7, cod. pen., rilevando invece la facilità di raggiungere la res oggetto di sottrazione (Sez. 5, n. 14022 del 08/01/2014, Fusari, Rv. 259870; Sez. 4, n. 21285 del 08/05/2009, Bortolameolli, Rv. 243513). Per quanto attiene al caso specifico in trattazione, questa Corte, in relazione alla disciplina previgente, di cui alla legge 27 dicembre 1977, n. 968, ha affermato che la condizione giuridica della fauna selvatica è tale per cui è configurabile il delitto di furto aggravato ex art. 625, n. 7, cod. pen. nell'ipotesi di impossessamento della selvaggina fuori dei limiti di tempo consentiti o in spregio ai divieti di caccia riguardanti le specie protette (Sez. 2, n. 5964 del 06/04/1984, Soddu, Rv. 164964).
5. Il sesto motivo di ricorso, con cui il ricorrente si duole dell'ingiustificato diniego della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., è manifestamente infondato.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di reati contro il patrimonio, ai fini della concessione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, l'entità del danno dev'essere valutata anzitutto con riferimento al criterio obiettivo del danno in sé, mentre quello subiettivo e, cioè, il riferimento alle condizioni economiche del soggetto passivo, ha valore sussidiario e viene in considerazione soltanto quando il primo, da solo, non appare decisivo (Sez. 2, n. 2993 del 01/10/2015, dep. 2016, Sciuto, Rv. 265820).
In linea con tale principio, la Corte di merito ha correttamente escluso la configurabilità dell'attenuante in ragione della quantità e del valore della carne.
6. Per le ragioni che precedono, il ricorso va rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.).
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 4 marzo 2020.
    Il Presidente                                                                               l’Estensore
Francesco Maria Ciampi                                                                Aldo Esposito
Depositata in Cancelleria in data 30 aprile 2020