Pres. Lupo Est. Fiale Ric. Min. Ambiente ed altro in proc. Antonini ed altri
Danno ambientale. Risarcibilità alla luce del D.Lv. 152-06
Anche ai sensi dell'art. 313, comma 7 del D.Lgs. n. 152/2006 - "resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi". Ne consegue che può essere risarcita la lesione alla reputazione commerciale e la diminuzione dell'attività di ricezione turistica di un albergo
Svolgimento
del
processo
Il Tribunale monocratico di Livorno, con
sentenza del 3 luglio 2003, affermava la responsabilità
penale di Antonini
Roberto (sindaco del Comune di Rio Marina), Guerrini Gian Piero, Valle
Luigi
(assessori della Giunta comunale di Rio Marina) e Fantoni Luciano
(progettista
e direttore dei lavori) in ordine ai reati di cui:
- agli artt.110 cod. pen. e 20, lett. e),
legge n. 47/1985 [poiché - mediante l’approvazione
delle delibere di Giunta n.
417/1997, n. 84/1998 e n. 6/1999, considerate illegittime in quanto
contrastanti con le previsioni del piano regolatore generale, e dando
corso ai
relativi lavori con modalità diverse da quelle indicate nel
progetto - concorrevano
alla realizzazione del c.d. “ripascimento” della
spiaggia di Cavo, consistito
nello sversamento sulla stessa di materiale ferroso e sabbie ferrifere
trasportate da terra e nel successivo sversamento su tale materiale di
limo
ferrifero dragato dal fondale del porto, operando in una condizione
assimilabile all’assenza di concessione edilizia - in Rio
Marina, fino al 30
giugno 1999];
- agli artt. 110 cod. pen., e 51, commi 1°
e
3°, D.Lgs. n. 22/1997 [poiché - senza la preventiva
autorizzazione della Provincia
di Livorno - concorrevano nel trasporto e nello scarico di ingenti
quantitativi
di rifiuti ferrosi e sabbie ferrifere, qualificabili pericolosi per il
contenuto dì metalli pesanti, realizzando una discarica
abusiva sul demanio
marittimo];
- agli arti. 110 e 674 cod. pen. [poiché
concorrevano a gettare in luogo di pubblico transito (spiaggia di Cavo)
materiale ferroso e tagliente, atto a recare lesioni a persone]
e condannava gli stessi alle pene ritenute di
giustizia, con i doppi benefici di legge, nonché al
risarcimento dei danni, da liquidarsi
in separata sede, in favore delle costituite parti civili Ministero
dell’ambiente,
Comune di Rio e Paoletti Luigi (proprietario quest’ultimo di
un albergo sito in
stretta prossimità della spiaggia di Cavo), alle quali
assegnava altresì, in
solido tra loro, una provvisionale complessiva di euro 12.000,00,
“ritenendo
entro tali limiti già provato l’ammontare del
danno patito dalle stesse”.
Il Tribunale ravvisava la sicura esistenza di
un danno ambientale “conseguente al ripascimento male
eseguito e alla discarica
abusiva, che ha comportato un serio e concreto pregiudizio alla
qualità della
vita della collettività colà
stanziata”, nonché di un danno irreparabile
arrecato alla flora ed alla fauna marina per la constatata morte di una
serie
di pesci e della poseidonia, imputabile quest’ultima a
carenza di ossigenazione
per sovrapposizione dei limo generato da polveri fini che si staccano
progressivamente
dalla spiaggia. Considerava legittima la richiesta di risarcimento del
danno
per equivalente pecuniario ed in via equitativa, avanzata dal Ministero
dell’ambiente, evidenziando la impossibilità
oggettiva di un concreto
ripristino dello stato originario dei luoghi.
La Corte di. Appello di Firenze - con
sentenza del 29 settembre 2005 - in riforma dell’anzidetta
decisione del
Tribunale, assolveva gli imputati dalla contravvenzione di cui
all’art. 674
cod. pen., per insussistenza del fatto, e proscioglieva gli stessi
dalle
residue contravvenzioni, perché estinte per prescrizione.
Revocava le statuizioni civili, “attesa
la
situazione di dubbio relativa al verificarsi del danno
ambientale”, rilevando
che la parte civile Paoletti, comunque, “non ha comprovato il
danno subito
seppure non patrimoniale” e, quanto al Ministero
dell’ambiente, che il danno
non patrimoniale può essere fatto valere dallo stesso
“nel solo caso che il
lamentato pregiudizio incida sul diritto all’esistenza,
all’identità al nome,
all’immagine e alla reputazione, il che, in ogni caso esula
dalla vicenda in
esame”.
Argomentava, in particolare, la Corte
territoriale che:
1) il territorio elbano è interessato
dalla
presenza di miniere e dunque le acque piovane, defluendo in mare,
producono
sovente colorazione rossastra della massa idrica e cagionano fenomeni
di
intorbidamento con le relative conseguenze pregiudizievoli per
l’ittiofauna;
2) l’ambiente marino ha certamente un
potere
di decantazione che conduce all’eliminazione delle
conseguenze pregiudizievoli
dovute alle immissioni di materiale;
3) soprattutto va tenuto conto che i lavori
incriminati, appunto a seguito del sorgere della vicenda giudiziaria,
sono
stati interrotti, cosicché non è del tutto certa
la permanenza delle
conseguenze pregiudizievoli ricordate man mano che i lavori sarebbero
progrediti
ed al termine dei medesimi”.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso
le parti civili Ministero dell’ambiente e Luigi Paoletti.
L’Avvocatura distrettuale dello Stato,
per il
Ministero dell’ambiente, ha eccepito - sotto i profili della
violazione di
legge e del vizio di motivazione - che:
a) erroneamente la Corte di merito ha
ritenuto che il danno ambientale risarcibile ex art. 18 della legge n.
349/1986
coincida con il danno-evento di cui all’art. 734 cod. pen.
Ai fini della sussistenza del diritto al
risarcimento del danno ambientale ex art. 18, invece, è
sufficiente che la
compromissione dell’ambiente si sia verificata mediante un
alterazione del bene
unitariamente inteso o delle singole componenti e detta alterazione
consiste in
una “qualunque modificazione, non necessariamente
peggiorativa né irreversibile
di una caratteristica qualitativa della risorsa naturale, in qualunque
stato
essa si trovasse prima dell’aggressione”.
Con argomentazioni incongrue, dunque, la
Corte territoriale - pur riconoscendo che, nella specie, vi sono state
“conseguenze
pregiudizievoli dovute alle immissioni di materiale” nel mare
antistante la
spiaggia di Cavo soggetta al ripascimento - ha rilevato che dette
conseguenze
saranno certamente eliminate ad opera del “potere di
decantazione”
dell’ambiente marino ed ha ritenuto che la persistenza del
danno ambientale
possa dare luogo alla tutela risarcitoria;
b) la sentenza impugnata ha omesso di
motivare in ordine a tutte le domande di risarcimento avanzate dal
Ministero dell’ambiente,
che riguardavano nello specifico diverse tipologie di danno:
- il danno patrimoniale e non patrimoniale ex
art. 2043 cod. civ., in conseguenza della lesione del diritto
soggettivo
pubblico all’integrità del territorio
qualificabile come elemento costitutivo
dello Stato;
- il danno non patrimoniale ex art. 2043 cod.
civ., conseguente alla compromissione delle funzioni di promozione e
tutela,
conservazione e recupero dell’equilibrio ambientale che la
legge assegna allo
Stato;
- il danno ambientale ex art. 18 della legge
n. 349/1986, costituito dall’alterazione
dell’equilibrio e dell’integrità
ambientale con riferimento al suo valore collettivo;
- il danno morale, conseguente a fatto idoneo
a pregiudicare l’immagine e la credlibilità dello
Stato;
c) illogicamente la Corte territoriale ha
posto in dubbio la permanenza delle conseguenze pregiudizievoli in
concreto
arrecate, senza tenere conto delle conclusioni alle quali è
pervenuto il
consulente tecnico di ufficio (dr. Cecchi), secondo le quali
“esiste tuttora un
problema ambientale per la continua dispersione delle polveri fini
nelle acque
con intorbidamento direi persistente del tratto di mare prospiciente la
spiaggia (…) Risulta evidente che questo fenomeno di
dispersione, considerato
che il ripascimento è stato effettuato con circa 20.000 mc.
di materiali di
scarto di miniera [che corrispondono a circa 40.000 tonnellate)
durerà per
decenni”.
Il difensore di Luigi Paoletti, a sua volta,
ha eccepito - sotto i profili della violazione di legge e del vizio di
motivazione - che:
d) incongruamente è stata esclusa, nella
specie, la verificazione di un danno rilevante e permanente, in
contrasto con
le conclusioni raggiunte dal consulente tecnico di ufficio e dal
consulente
tecnico del P.M., nonché con osservazioni effettuate
dall’ICRAM (Istituto
centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare).
Anteriormente all’opera illecita di ripascirnento contestata
agli imputati non
vi era stato nella località di Cavo alcun fenomeno di
dilavamento nelle acque
marine di materiale ferroso, mentre questo era stato ivi trasportato da
miniere
distanti ed aveva intorbidato il mare, nonché danneggiato la
flora e la fauna
marine, con gravi effetti di carattere estetico sull’intero
paesaggio della località
balneare;
e) il danno lamentato dal Paoletti -
proprietario ed esercente di un albergo sito a non più di
una quindicina di
metri dal mare - non si esaurisce nel danno ambientale ex art. 18 della
legge n.
349/1986, ma investe tutti i profili di cui all’art. 2043
cod. civ., tenuto
anche conto che, in seguito ai fatti in esame,
l’attività di ricezione
turistica era sensibilmente diminuita e l’esercizio
alberghiero, che ha subito
una notevole lesione alla reputazione commerciale, é
attualmente chiuso.
Motivi
della
decisione
I ricorsi di entrambe le parti civili sono fondati
e meritano accoglimento.
1.
La
responsabilità civile per danno all’ambiente e
l’art. 18 della legge 8 luglio 1986,
n. 349.
Con l’art. 18 della legge 8 luglio 1986,
n.
349 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) venne data
attuazione, in Italia,
al principio comunitario “chi inquina paga”,
secondo il quale i costi dell’inquinamento
devono essere sopportati dal responsabile attraverso
l’introduzione, quale forma
particolare di tutela, dell’obbligo di risarcire il danno
cagionato
all’ambiente a seguito di una qualsiasi attività
compiuta in violazione di un
dispositivo di legge.
L’art. 18 della legge n. 349/1986
disponeva
che:
1. Qualunque fatto doloso o colposo in violazione
di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge
che
comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo,
deteriorandolo o distruggendolo
in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al
risarcimento nei confronti
dello Stato.
2. Per la materia di cui. al precedente comma
1 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, ferma quella della
Corte
dei Conti, di cui all’art. 22 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n.
3.
3. L’azione di risarcimento del danno
ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa
dallo Stato, nonché
dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto
lesivo.
4. Le associazioni individuate in base
all’art. 13 della presente legge e i cittadini, al fine di
sollecitare
l’esercizio dell’azione da parta dei soggetti
legittimati, possono denunciare i
fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza.
5. Le associazioni individuate in base
all’art.
13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno
ambientale e
ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per
l’annullamento di atti illegittimi.
6. Il giudice, ove non sia possibile una
precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare
in via equitativa,
tenendo comunque conto della gravità della colpa
individuale, del costo necessario
per il ripristino e del profitto conseguito dai trasgressore in
conseguenza del
suo comportamento lesivo dei beni ambientali.
7. Nei casi di concorso nello stesso evento
di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria
responsabilità individuale.
8. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone,
ove possibile, il
ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
Trattavasi di una peculiare
responsabilità di tipo extracontrattuale (aquiliana)
connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno
“ingiusto” all’ambiente,
dove l’ingiustizia era individuata nella violazione di una
disposizione di
legge e dove il soggetto titolare del risarcimento era lo Stato.
La strada risarcitoria restava aperta ai privati
solo ove essi lamentassero
la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale,
sia esso
la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale.
Quanto al contenuto del risarcimento, che il
giudice era chiamato ad
assicurare, posizione dominante rivestiva il ripristino dello stato dei
luoghi
a spese del responsabile (art. 18, comma 8), da disporsi “ove
possibile”.
La previsione doveva essere confrontata con quella
dell’art. 2058 cod.
civ. - secondo cui il risarcimento in forma specifica costituisce una
misura
eccezionale, operabile su domanda espressa del danneggiato ed
assicurata
unicamente se essa non risulti eccessivamente onerosa per il debitore -
e deve
rilevarsi, in proposito, che il legislatore aveva inteso sottrarre alla
sfera
giuridica del “danneggiato” la scelta di avanzare
una domanda siffatta, nella
consapevolezza delle notorie difficoltà di azione della
pubblica
Amministrazione, e però, usando l’espressione
“ove possibile”, aveva inteso
sintetizzare (alla stregua del 2° comma dell’art.
2038 cod. civ., che fa
riferimento alla possibilità economica del risarcimento in
forma specifica,
negandolo nel caso di eccessiva onerosità per il debitore)
la necessità comunque,
di una valutazione comparativa dei diversi interessi, che tenesse conto
delle
effettive possibilità materiali, sia ecologiche che
economiche.
Qualora il ripristino dello stato dei luoghi non
fosse stato possibile,
nel senso anzidetto, doveva farsi luogo al risarcimento per esatto
equivalente,
ossia per l’esatto ammontare del danno cagionato,
determinabile in riferimento
agli importi necessari alla riduzione in pristino.
Ove poi non si potesse pervenire alla
quantificazione del danno, il
giudice avrebbe dovuto determinarne l’importo in via
equitativa, tenendo conto
di alcuni parametri di giudizio che la legge indicava: nella
gravità della
colpa individuale del responsabile, nel costo necessario per il
ripristino
dello stato dei luoghi, nel profitto conseguito dal trasgressore in
conseguenza
del suo comportamento lesivo dei beni ambientali (art. 18, comma 6).
Ai sensi del 7° comma dell’art.
l8 infine, nei casi di concorso di più
soggetti nello stesso evento dannoso, essi rispondevano nei limiti
della
rispettiva responsabilità individuale (risultava
così introdotta una parziarietà
passiva, che invertiva la regola generale della piena
solidarietà dei
responsabili nella disciplina risarcitoria civilistica).
2.
L’art. 18 della legge n.
349/1986 nell’interpretazione di questa Corte Suprema
L’art. 18 della legge n. 349/1986
è stato interpretato da questa Corte
Suprema con criteri ermeneutici diversi.
In un primo approccio metodologico è
stata evidenziata la specialità
della disciplina da esso introdotta rispetto alla previsione generale
dell’art.
2043 cod. civ., individuando le differenze formali e sostanziali
rispetto al
regime codicistico e sottolineando la natura
“adespota” dell’ambiente, quale
bene immateriale, e, conseguentemente, l’irrilevanza del
profilo dominicale
(pubblico o privato) delle sue componenti naturali (vedi Cass., Sez..
Unite, 25
gennaio 1989, n. 440).
In seguito, la disciplina dell’art. 18
è stata innestata nel regime
ordinario della responsabilità, con riferimento
all’art. 2043 cod. civ. (ed
all’art. 2050 cod. civ. per le attività
pericolose), configurando una sorta di
“regime misto” che ha mutuato dalla disciplina
codicistica la responsabilità
oggettiva per le attività pericolose e la
solidarietà dei responsabili e dalla
disciplina speciale il profilo della rilevanza autonoma del
danno-evento (la
lesione in sé del bene ambientale), sostituito al
“danno-conseguenza”
considerato dal codice, e parametrando il danno medesimo non al
pregiudizio
patrimoniale subito ma “alla gravità della colpa
del trasgressore, al profitto
conseguito dallo stesso ed al costo necessario al ripristino”
(vedi Cass., Sez.
I, 1 settembre 1995, n. 9211).
Questa Corte ha ribadito la peculiarità
del danno ambientale, pur nello
schema della responsabilità civile, rilevando che esso
consiste
nell’alterazione, deterioramento, distruzione in tutto o in
parte
dell’ambiente, inteso quale insieme che, pur comprendendo
vari beni,
appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue
ontologicamente da
questi e si identifica in una realtà immateriale, ma
espressiva di un autonomo
valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di
tutela da
parte dell’ordinamento (vedi Cass. civ., 9 aprile 1992, n.
4362).
Per la valutazione del danno ambientale, dunque,
non può farsi ricorso ai
parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve
tenersi
conto della natura di bene immateriale dell’ambiente,
nonché della particolare
rilevanza del valore d’uso della collettività che
usufruisce e gode di tale
bene.
Da ciò discende il superamento della
funzione compensativa del risarcimento.
Con successivo orientamento questa Corte ha
affermato che la stessa
cenfigurabilità del bene-ambiente e la
risarcibilità del danno ambientale, pur
specificamente regolato dall’art. 18 della legge n. 349/1986
trovano “la fonte
genetica direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente e
come
diritto vigente, e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle
disposizioni (artt. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono
l’individuo e la
collettività nel suo habitat economico, sociale e
ambientale” ed ha ritenuto,
pertanto, che, anche prima della legge n. 349/1986,
Secondo tale interpretazione la disciplina speciale
posta dall’art. 18 è
stata retroattivamente applicata a fatti lesivi dell’ambiente
posti in essere
in data anteriore a quella dell’entrata in vigore della
stessa legge n.
349/1986.
E’ stato altresì affermato che
“il danno ambientale presenta una triplice
dimensione personale (quale lesione del diritto fondamentale
dell’ambiente di
ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale
dell’ambiente nelle
formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana -
art. 2 Cost.);
pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni
centrali
e periferiche con specifiche competenze ambientali), in questo contesto
persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali non fanno
valere
un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza di
una
autonoma legittimazione” (così Cass., .sez. III,
19 gennaio 1994, n. 439, ric.
Mattiuzzi).
3.
Il contenuto del danno
ambientale nell’interpretazione della Corte Costituzionale.
Avverte ancora il giudice delle leggi che
“risulta superata la
considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge
solo a
seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio
dell’ente pubblico,
cioè della lesione del patrimonio dell’ente, non
incidendosi su un bene
appartenente allo Stato ... La legittimazione ad agire, che
è attribuita allo
Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che essi
hanno affrontato
spese per riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una
perdita
economica ma nella loro funzione a tutela della collettività
e delle comunità
nel proprio ambito territoriale e degli interessi
all’equilibrio ecologico,
biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno
capo”.
Lo schema di azione adottato - riconducibile al
paradigma dell’art. 2043
cod. civ. porta “ad identificare il danno risarcibile come
perdita subita,
indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro
non
sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello
Stato e
degli enti minori”.
Dalle anzidette argomentazioni della Corte
Costituzionale, la
giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha desunto che
il contenuto
stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di
danno
patito bensì di danno provocato ed il danno ingiusto da
risarcire si pone in
modo indifferente rispetto alla produzione di danni-conseguenze,
essendo
sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di
quell’interesse ampio
e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni
fissati
da norme e provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di
pregiudizio ai
valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più
anticipato
possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che
presenterebbero situazioni di irreversibilità.
Per integrare il fatto illecito, che obbliga al
risarcimento del danno,
non è necessario che l’ambiente in tutto o in
parte venga alterato, deteriorato
o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto
colposa “in
violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base
a
legge”, che l’art. 18 specificamente riconosceva
idonea a compromettere
l’ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione
presunta del valore
giuridico tutelato. Ciò trovava conferma nella circostanza
che, qualora non fosse
possibile una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice
- per
espressa previsione dello stesso art. 18 della legge n. 349/1926 -
procedeva in
via equitativa, tenendo presenti parametri che prescindevano da termini
di ristoro
soggettivo quali “la gravità della colpa
individuale, il costo necessario per
il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza
del suo
comportamento lesivo del bene ambientale” (vedi, in tal
senso, Cass., Sez, III,
10 giugno 2002, n, 22539, ric. Kiss Ghunter ed altri).
Questa III Sezione penale aveva in precedenza
affermato (in tema di
smaltimento di rifiuti) che: “Non danno luogo a risarcimento
- di regola -
violazioni meramente formali. La stessa lesione dell’immagine
dell’ente, il
quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio
derivante
dall’affidamento di compiti dì controllo o
gestione, costituisce danno non
risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere
riconosciuto
soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno
ambientale,
al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione
del
rilievo istituzionale dell’ente” (Cass., sez, III:
14 gennaio 2002, n. 1145,
Cucchiara ed altro; 25 maggio 1992, n. 6297, Barigazzi).
4.
Il danno ambientale nelle
disposizioni del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152
Il D.lgs. n. 152/2006 (art. 318) ha espressamente
abrogato (ad eccezione
del comma 5) l’art. 18 della legge n. 349/1986 e,
nell’art. 300:
- prevede, al 1° comma, che
“E’ danno ambientale qualsiasi deterioramento
significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa
naturale o
dell’utilità assicurata da
quest’ultima”.
Tale norma riporta in termini puntuali la nozione
comunitaria di “danno
ambientale” posta dalla direttiva 2004/35/CE, sostituendo
l’espressione
“mutamento negativo misurabile” con quella di
“deterioramento significativo e
misurabile, diretto e indiretto”;
- specifica, al 2° comma, che “Ai
sensi della direttiva 2004/15/CE
costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto delle
condizioni
originarie, provocato c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel
mare
territoriale mediante le azioni” [che incidano in modo
significativamente
negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul
potenziale
ecologico delle acque interessate, quali definite nella direttiva
2000/60/CE].
L’art. 311 dello stesso D.Lgs. n.
152/2006 dispone poi, ai primi due commi,
che:
“1. Il Ministro dell’ambiente e
della tutela del territorio agisce, anche
esercitando l’azione civile in sede penale, per il
risarcimento del danno
ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente
patrimoniale,
oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del
presento
decreto.
2. Chiunque, realizzando un fatto illecito, o
omettendo attività o
comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di
provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o
violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente,
alterandolo,
deteriorandolo o distruggendolo, in tutto o in parte, è
obbligato al ripristino
della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per
equivalente
patrimoniale nei confronti dello Stato”.
Il Ministro dell’ambiente e della tutela
del territorio ha, dunque, due
alternative per procedere al recupero del danno ambientale:
può agire in via
giudiziaria ovvero procedere al recupero in via amministrativa
attraverso la
procedura regolata dagli artt. 312 e seguenti del D.Lgs. n. 152/2006,
in parte
già anticipata dai commi da
Il Ministro dell’ambiente che abbia
adottato l’ordinanza di cui all’art.
313 non può proporre né procedere ulteriormente
nel giudizio per il
risarcimento del danno ambientale, salva la possibilità
dell’intervento in
qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale
(art. 315).
Ai sensi dell’art. 310 del medesimo
D.Lgs., pure i soggetti di cui all’art.
309, comma 1 (le Regioni, le Province autonome e gli Enti locali, anche
associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o
che potrebbero
essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse alla
partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle
misure di
precauzione, di prevenzione o di ripristino) sono legittimati ad agire,
secondo
i principi generali, anche per il risarcimento del danno subito a causa
del
ritardo nell’attivazione, da parte del Ministero, delle
misure di precauzione,
di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, avanti al
giudice
amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
Anche a fronte di tali recenti disposizioni
normative (che pure
presentano difetti di coordinamento sia tra loro sia con altre
disposizioni
dello stesso testo legislativo), ritiene questo Collegio che debbano
ribadirsi
le conclusioni alle quali si è pervenuto - in materia di
risarcimento per
equivalente patrimoniale - nell’interpretazione
dell’art. 18 della legge
n. 34/1986 (di cui si è data conto dianzi).
Contrariamente a quanto argomentato nella sentenza
impugnata, va
affermato - in particolare - che integra il danno ambientale
risarcibile anche
il danno derivante, medio tempore, dalla mancata
disponibilità di una risorsa
ambientale intatta, ossia le c.d. “perdite
provvisorie”, previste espressamente
come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE del
Parlamento
europeo e del Consiglio (in materie di prevenzione e riparazione del
danno ambientale)
approvata il 21 aprile 2004 e già considerate risarcibili
dalla giurisprudenza
di questa Corte Suprema sotto forma di “modifiche temporanee
dello stato dei
luoghi” (vedi Cass., Sez. III, 15 ottobre 1999, n. 13716).
La risarcibilità delle perdite
temporanee è giustificata dal fatto che
qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo,
non può
mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita
di
fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta
illecita, danno
che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che
perdura per
tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.
5.
La posizione della parte
civile Luigi Paoletti.
Quanto alla posizione del ricorrente Paoletti, va
evidenziato anzitutto
che - anche ai sensi dell’art. 313, 7° comma, del
D.Lgs. n. 152/2006 - “resta
in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto
produttivo di
danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro
proprietà, di agire in giudizio
nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi
lesi”.
In tale prospettiva va rilevato, quindi, che detta
parte civile è
coinvolta direttamente nella vicenda con profili spiccatamente
personali
(lesione alla reputazione commerciale e diminuzione
dell’attività di ricezione
turistica dell’albergo) e l’entità
oggettiva dell’intervento contestato si pone
come potenzialmente idonea a compromettere, anche sotto il profilo
patrimoniale, le caratteristiche della struttura alberghiera da lui
gestita.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema,
inoltre:
- ai fini della pronuncia di condanna generica al
risarcimento dei danni
in favore della parte civile, non è necessario che il
danneggiato dia la prova
della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di
causalità tra questi e
l’azione dell’autore dell’illecito, ma
è sufficiente l’accertamento di un fatto
potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta
pronuncia,
infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni
accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del
danno, il
quale è rimesso al giudice della liquidazione (vedi Cass.
pen.: Sez. 1, 18
marzo 1992, n. 3220; Sez. IV, 15 giugno 1994, n. 7008; Sez. VI, 26
agosto 1994,
n. 9266);
- la facoltà del giudice penale di
pronunciare una condanna generica al
risarcimento del danno, prevista dall’art. 539 c.p.p., non
incontra restrizioni
di sorta in ipotesi di incompiutezza della prova sul quantum,
bensì trova
implicita conferma nei limiti dell’efficacia della sentenza
penale nel giudizio
civile per la restituzione e il risarcimento del danno fissati
dall’art. 651
c.p.p., escludendosi, perciò, l’estensione del
giudicato penale alle
conseguenze economiche del fatto illecito commesso
dall’imputato (vedi Cass.
pen., Sez, IV, 26 gennaio 1999, n. 1045).
- la condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito (vedi Cass. civ., Sez, III, 11 gennaio 2001, n. 329).
Con motivazione incongrua, dunque, alla
stregua dei principi anzidetti, la Corte territoriale ha rilevato che
la parte
civile Paoletti “non ha comprovato il danno subito seppure
non patrimoniale”.
6. La sentenza impugnata, in conclusione, per tutte
le considerazioni
dianzi svolte deve essere annullata nei confronti delle parti
ricorrenti,
relativamente alle statuizioni civili, e deve disporsi il rinvio alla
Corte di
Appello di Firenze in sede civile, la quale si pronunzierà
anche in ordine alle
spese del presente giudizio.