Cass. Sez. III n. 16575 del 2 maggio 2007 (Ud. 6 mar. 2007)
Pres. Lupo Est. Fiale Ric. Min. Ambiente ed altro in proc. Antonini ed altri
Danno ambientale. Risarcibilità alla luce del D.Lv. 152-06

Anche a fronte delle disposizioni introdotte con il D.Lv. 152-06 (che pure presentano difetti dì coordinamento sia tra loro sia con altre disposizioni dello stesso testo legislativo) debbono ribadirsi le conclusioni alle quali si è pervenuto - in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale - nell'interpretazione dell'art. 18 della legge n. 34/1986. Va affermato – in particolare - che integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. "perdite provvisorie", previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale) approvata il 21.4.2004 e considerate risarcibili dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione sotto forma di "modifiche temporanee dello stato dei luoghi". La risarcibilità delle perdite temporanee è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.
Anche ai sensi dell'art. 313, comma 7 del D.Lgs. n. 152/2006 - "resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi". Ne consegue che può essere risarcita la lesione alla reputazione commerciale e la diminuzione dell'attività di ricezione turistica di un albergo

Svolgimento del processo

Il Tribunale monocratico di Livorno, con sentenza del 3 luglio 2003, affermava la responsabilità penale di Antonini Roberto (sindaco del Comune di Rio Marina), Guerrini Gian Piero, Valle Luigi (assessori della Giunta comunale di Rio Marina) e Fantoni Luciano (progettista e direttore dei lavori) in ordine ai reati di cui:

- agli artt.110 cod. pen. e 20, lett. e), legge n. 47/1985 [poiché - mediante l’approvazione delle delibere di Giunta n. 417/1997, n. 84/1998 e n. 6/1999, considerate illegittime in quanto contrastanti con le previsioni del piano regolatore generale, e dando corso ai relativi lavori con modalità diverse da quelle indicate nel progetto - concorrevano alla realizzazione del c.d. “ripascimento” della spiaggia di Cavo, consistito nello sversamento sulla stessa di materiale ferroso e sabbie ferrifere trasportate da terra e nel successivo sversamento su tale materiale di limo ferrifero dragato dal fondale del porto, operando in una condizione assimilabile all’assenza di concessione edilizia - in Rio Marina, fino al 30 giugno 1999];

- agli artt. 110 cod. pen., e 51, commi 1° e 3°, D.Lgs. n. 22/1997 [poiché - senza la preventiva autorizzazione della Provincia di Livorno - concorrevano nel trasporto e nello scarico di ingenti quantitativi di rifiuti ferrosi e sabbie ferrifere, qualificabili pericolosi per il contenuto dì metalli pesanti, realizzando una discarica abusiva sul demanio marittimo];

- agli arti. 110 e 674 cod. pen. [poiché concorrevano a gettare in luogo di pubblico transito (spiaggia di Cavo) materiale ferroso e tagliente, atto a recare lesioni a persone]

e condannava gli stessi alle pene ritenute di giustizia, con i doppi benefici di legge, nonché al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili Ministero dell’ambiente, Comune di Rio e Paoletti Luigi (proprietario quest’ultimo di un albergo sito in stretta prossimità della spiaggia di Cavo), alle quali assegnava altresì, in solido tra loro, una provvisionale complessiva di euro 12.000,00, “ritenendo entro tali limiti già provato l’ammontare del danno patito dalle stesse”.

Il Tribunale ravvisava la sicura esistenza di un danno ambientale “conseguente al ripascimento male eseguito e alla discarica abusiva, che ha comportato un serio e concreto pregiudizio alla qualità della vita della collettività colà stanziata”, nonché di un danno irreparabile arrecato alla flora ed alla fauna marina per la constatata morte di una serie di pesci e della poseidonia, imputabile quest’ultima a carenza di ossigenazione per sovrapposizione dei limo generato da polveri fini che si staccano progressivamente dalla spiaggia. Considerava legittima la richiesta di risarcimento del danno per equivalente pecuniario ed in via equitativa, avanzata dal Ministero dell’ambiente, evidenziando la impossibilità oggettiva di un concreto ripristino dello stato originario dei luoghi.

La Corte di. Appello di Firenze - con sentenza del 29 settembre 2005 - in riforma dell’anzidetta decisione del Tribunale, assolveva gli imputati dalla contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen., per insussistenza del fatto, e proscioglieva gli stessi dalle residue contravvenzioni, perché estinte per prescrizione.

Revocava le statuizioni civili, “attesa la situazione di dubbio relativa al verificarsi del danno ambientale”, rilevando che la parte civile Paoletti, comunque, “non ha comprovato il danno subito seppure non patrimoniale” e, quanto al Ministero dell’ambiente, che il danno non patrimoniale può essere fatto valere dallo stesso “nel solo caso che il lamentato pregiudizio incida sul diritto all’esistenza, all’identità al nome, all’immagine e alla reputazione, il che, in ogni caso esula dalla vicenda in esame”.

Argomentava, in particolare, la Corte territoriale che:

1) il territorio elbano è interessato dalla presenza di miniere e dunque le acque piovane, defluendo in mare, producono sovente colorazione rossastra della massa idrica e cagionano fenomeni di intorbidamento con le relative conseguenze pregiudizievoli per l’ittiofauna;

2) l’ambiente marino ha certamente un potere di decantazione che conduce all’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli dovute alle immissioni di materiale;

3) soprattutto va tenuto conto che i lavori incriminati, appunto a seguito del sorgere della vicenda giudiziaria, sono stati interrotti, cosicché non è del tutto certa la permanenza delle conseguenze pregiudizievoli ricordate man mano che i lavori sarebbero progrediti ed al termine dei medesimi”.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso le parti civili Ministero dell’ambiente e Luigi Paoletti.

L’Avvocatura distrettuale dello Stato, per il Ministero dell’ambiente, ha eccepito - sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione - che:

a) erroneamente la Corte di merito ha ritenuto che il danno ambientale risarcibile ex art. 18 della legge n. 349/1986 coincida con il danno-evento di cui all’art. 734 cod. pen.

Ai fini della sussistenza del diritto al risarcimento del danno ambientale ex art. 18, invece, è sufficiente che la compromissione dell’ambiente si sia verificata mediante un alterazione del bene unitariamente inteso o delle singole componenti e detta alterazione consiste in una “qualunque modificazione, non necessariamente peggiorativa né irreversibile di una caratteristica qualitativa della risorsa naturale, in qualunque stato essa si trovasse prima dell’aggressione”.

Con argomentazioni incongrue, dunque, la Corte territoriale - pur riconoscendo che, nella specie, vi sono state “conseguenze pregiudizievoli dovute alle immissioni di materiale” nel mare antistante la spiaggia di Cavo soggetta al ripascimento - ha rilevato che dette conseguenze saranno certamente eliminate ad opera del “potere di decantazione” dell’ambiente marino ed ha ritenuto che la persistenza del danno ambientale possa dare luogo alla tutela risarcitoria;

b) la sentenza impugnata ha omesso di motivare in ordine a tutte le domande di risarcimento avanzate dal Ministero dell’ambiente, che riguardavano nello specifico diverse tipologie di danno:

- il danno patrimoniale e non patrimoniale ex art. 2043 cod. civ., in conseguenza della lesione del diritto soggettivo pubblico all’integrità del territorio qualificabile come elemento costitutivo dello Stato;

- il danno non patrimoniale ex art. 2043 cod. civ., conseguente alla compromissione delle funzioni di promozione e tutela, conservazione e recupero dell’equilibrio ambientale che la legge assegna allo Stato;

- il danno ambientale ex art. 18 della legge n. 349/1986, costituito dall’alterazione dell’equilibrio e dell’integrità ambientale con riferimento al suo valore collettivo;

- il danno morale, conseguente a fatto idoneo a pregiudicare l’immagine e la credlibilità dello Stato;

c) illogicamente la Corte territoriale ha posto in dubbio la permanenza delle conseguenze pregiudizievoli in concreto arrecate, senza tenere conto delle conclusioni alle quali è pervenuto il consulente tecnico di ufficio (dr. Cecchi), secondo le quali “esiste tuttora un problema ambientale per la continua dispersione delle polveri fini nelle acque con intorbidamento direi persistente del tratto di mare prospiciente la spiaggia (…) Risulta evidente che questo fenomeno di dispersione, considerato che il ripascimento è stato effettuato con circa 20.000 mc. di materiali di scarto di miniera [che corrispondono a circa 40.000 tonnellate) durerà per decenni”.

Il difensore di Luigi Paoletti, a sua volta, ha eccepito - sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione - che:

d) incongruamente è stata esclusa, nella specie, la verificazione di un danno rilevante e permanente, in contrasto con le conclusioni raggiunte dal consulente tecnico di ufficio e dal consulente tecnico del P.M., nonché con osservazioni effettuate dall’ICRAM (Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare). Anteriormente all’opera illecita di ripascirnento contestata agli imputati non vi era stato nella località di Cavo alcun fenomeno di dilavamento nelle acque marine di materiale ferroso, mentre questo era stato ivi trasportato da miniere distanti ed aveva intorbidato il mare, nonché danneggiato la flora e la fauna marine, con gravi effetti di carattere estetico sull’intero paesaggio della località balneare;

e) il danno lamentato dal Paoletti - proprietario ed esercente di un albergo sito a non più di una quindicina di metri dal mare - non si esaurisce nel danno ambientale ex art. 18 della legge n. 349/1986, ma investe tutti i profili di cui all’art. 2043 cod. civ., tenuto anche conto che, in seguito ai fatti in esame, l’attività di ricezione turistica era sensibilmente diminuita e l’esercizio alberghiero, che ha subito una notevole lesione alla reputazione commerciale, é attualmente chiuso.

 

Motivi della decisione

I ricorsi di entrambe le parti civili sono fondati e meritano accoglimento.

 

1. La responsabilità civile per danno all’ambiente e l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349.

Con l’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (istitutiva del Ministero dell’ambiente) venne data attuazione, in Italia, al principio comunitario “chi inquina paga”, secondo il quale i costi dell’inquinamento devono essere sopportati dal responsabile attraverso l’introduzione, quale forma particolare di tutela, dell’obbligo di risarcire il danno cagionato all’ambiente a seguito di una qualsiasi attività compiuta in violazione di un dispositivo di legge.

L’art. 18 della legge n. 349/1986 disponeva che:

1. Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato.

2. Per la materia di cui. al precedente comma 1 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, ferma quella della Corte dei Conti, di cui all’art. 22 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.

3. L’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.

4. Le associazioni individuate in base all’art. 13 della presente legge e i cittadini, al fine di sollecitare l’esercizio dell’azione da parta dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza.

5. Le associazioni individuate in base all’art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.

6. Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dai trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.

7. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale.

8. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.

Trattavasi di una peculiare responsabilità di tipo extracontrattuale (aquiliana) connessa a fatti, dolosi o colposi, cagionanti un danno “ingiusto” all’ambiente, dove l’ingiustizia era individuata nella violazione di una disposizione di legge e dove il soggetto titolare del risarcimento era lo Stato.

La strada risarcitoria restava aperta ai privati solo ove essi lamentassero la lesione di un bene individuale compromesso dal degrado ambientale, sia esso la salute che il diritto di proprietà o altro diritto reale.

Quanto al contenuto del risarcimento, che il giudice era chiamato ad assicurare, posizione dominante rivestiva il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile (art. 18, comma 8), da disporsi “ove possibile”.

La previsione doveva essere confrontata con quella dell’art. 2058 cod. civ. - secondo cui il risarcimento in forma specifica costituisce una misura eccezionale, operabile su domanda espressa del danneggiato ed assicurata unicamente se essa non risulti eccessivamente onerosa per il debitore - e deve rilevarsi, in proposito, che il legislatore aveva inteso sottrarre alla sfera giuridica del “danneggiato” la scelta di avanzare una domanda siffatta, nella consapevolezza delle notorie difficoltà di azione della pubblica Amministrazione, e però, usando l’espressione “ove possibile”, aveva inteso sintetizzare (alla stregua del 2° comma dell’art. 2038 cod. civ., che fa riferimento alla possibilità economica del risarcimento in forma specifica, negandolo nel caso di eccessiva onerosità per il debitore) la necessità comunque, di una valutazione comparativa dei diversi interessi, che tenesse conto delle effettive possibilità materiali, sia ecologiche che economiche.

Qualora il ripristino dello stato dei luoghi non fosse stato possibile, nel senso anzidetto, doveva farsi luogo al risarcimento per esatto equivalente, ossia per l’esatto ammontare del danno cagionato, determinabile in riferimento agli importi necessari alla riduzione in pristino.

Ove poi non si potesse pervenire alla quantificazione del danno, il giudice avrebbe dovuto determinarne l’importo in via equitativa, tenendo conto di alcuni parametri di giudizio che la legge indicava: nella gravità della colpa individuale del responsabile, nel costo necessario per il ripristino dello stato dei luoghi, nel profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali (art. 18, comma 6).

Ai sensi del 7° comma dell’art. l8 infine, nei casi di concorso di più soggetti nello stesso evento dannoso, essi rispondevano nei limiti della rispettiva responsabilità individuale (risultava così introdotta una parziarietà passiva, che invertiva la regola generale della piena solidarietà dei responsabili nella disciplina risarcitoria civilistica).

 

2. L’art. 18 della legge n. 349/1986 nell’interpretazione di questa Corte Suprema

L’art. 18 della legge n. 349/1986 è stato interpretato da questa Corte Suprema con criteri ermeneutici diversi.

In un primo approccio metodologico è stata evidenziata la specialità della disciplina da esso introdotta rispetto alla previsione generale dell’art. 2043 cod. civ., individuando le differenze formali e sostanziali rispetto al regime codicistico e sottolineando la natura “adespota” dell’ambiente, quale bene immateriale, e, conseguentemente, l’irrilevanza del profilo dominicale (pubblico o privato) delle sue componenti naturali (vedi Cass., Sez.. Unite, 25 gennaio 1989, n. 440).

In seguito, la disciplina dell’art. 18 è stata innestata nel regime ordinario della responsabilità, con riferimento all’art. 2043 cod. civ. (ed all’art. 2050 cod. civ. per le attività pericolose), configurando una sorta di “regime misto” che ha mutuato dalla disciplina codicistica la responsabilità oggettiva per le attività pericolose e la solidarietà dei responsabili e dalla disciplina speciale il profilo della rilevanza autonoma del danno-evento (la lesione in sé del bene ambientale), sostituito al “danno-conseguenza” considerato dal codice, e parametrando il danno medesimo non al pregiudizio patrimoniale subito ma “alla gravità della colpa del trasgressore, al profitto conseguito dallo stesso ed al costo necessario al ripristino” (vedi Cass., Sez. I, 1 settembre 1995, n. 9211).

Questa Corte ha ribadito la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema della responsabilità civile, rilevando che esso consiste nell’alterazione, deterioramento, distruzione in tutto o in parte dell’ambiente, inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni, appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento (vedi Cass. civ., 9 aprile 1992, n. 4362).

Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell’ambiente, nonché della particolare rilevanza del valore d’uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene.

Da ciò discende il superamento della funzione compensativa del risarcimento.

Con successivo orientamento questa Corte ha affermato che la stessa cenfigurabilità del bene-ambiente e la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall’art. 18 della legge n. 349/1986 trovano “la fonte genetica direttamente nella Costituzione, considerata dinamicamente e come diritto vigente, e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (artt. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale e ambientale” ed ha ritenuto, pertanto, che, anche prima della legge n. 349/1986, la Costituzione e la norma generale dell’art. 2043 cod. civ. “apprestavano all’ambiente una tutela organica” [così Cass., 19 giugno 1996, n. 5650 (relativa alla catastrofe del Vajont del 1963)].

Secondo tale interpretazione la disciplina speciale posta dall’art. 18 è stata retroattivamente applicata a fatti lesivi dell’ambiente posti in essere in data anteriore a quella dell’entrata in vigore della stessa legge n. 349/1986.

E’ stato altresì affermato che “il danno ambientale presenta una triplice dimensione personale (quale lesione del diritto fondamentale dell’ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell’ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali), in questo contesto persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in forza di una autonoma legittimazione” (così Cass., .sez. III, 19 gennaio 1994, n. 439, ric. Mattiuzzi).

 

3. Il contenuto del danno ambientale nell’interpretazione della Corte Costituzionale.

La Corte Costituzionale - nella sentenza n 641 del 1987 - conferisce al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che “la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo. Consentono di misurare l’ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali ... E per tutto questo l’impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all’ambiente e quindi al danno ambientale un valore patrimoniale”.

Avverte ancora il giudice delle leggi che “risulta superata la considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge solo a seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell’ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell’ente, non incidendosi su un bene appartenente allo Stato ... La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo”.

Lo schema di azione adottato - riconducibile al paradigma dell’art. 2043 cod. civ. porta “ad identificare il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori”.

Dalle anzidette argomentazioni della Corte Costituzionale, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha desunto che il contenuto stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni-conseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di quell’interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità.

Per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l’ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa “in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge”, che l’art. 18 specificamente riconosceva idonea a compromettere l’ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato. Ciò trovava conferma nella circostanza che, qualora non fosse possibile una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice - per espressa previsione dello stesso art. 18 della legge n. 349/1926 - procedeva in via equitativa, tenendo presenti parametri che prescindevano da termini di ristoro soggettivo quali “la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo del bene ambientale” (vedi, in tal senso, Cass., Sez, III, 10 giugno 2002, n, 22539, ric. Kiss Ghunter ed altri).

Questa III Sezione penale aveva in precedenza affermato (in tema di smaltimento di rifiuti) che: “Non danno luogo a risarcimento - di regola - violazioni meramente formali. La stessa lesione dell’immagine dell’ente, il quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante dall’affidamento di compiti dì controllo o gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente, in tal caso il risarcimento deve essere riconosciuto soltanto quando sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell’ente” (Cass., sez, III: 14 gennaio 2002, n. 1145, Cucchiara ed altro; 25 maggio 1992, n. 6297, Barigazzi).

 

4. Il danno ambientale nelle disposizioni del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152

Il D.lgs. n. 152/2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5) l’art. 18 della legge n. 349/1986 e, nell’art. 300:

- prevede, al 1° comma, che “E’ danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”.

Tale norma riporta in termini puntuali la nozione comunitaria di “danno ambientale” posta dalla direttiva 2004/35/CE, sostituendo l’espressione “mutamento negativo misurabile” con quella di “deterioramento significativo e misurabile, diretto e indiretto”;

- specifica, al 2° comma, che “Ai sensi della direttiva 2004/15/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto delle condizioni originarie, provocato c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale mediante le azioni” [che incidano in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico e/o quantitativo oppure sul potenziale ecologico delle acque interessate, quali definite nella direttiva 2000/60/CE].

L’art. 311 dello stesso D.Lgs. n. 152/2006 dispone poi, ai primi due commi, che:

“1. Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presento decreto.

2. Chiunque, realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo, in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”.

Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio ha, dunque, due alternative per procedere al recupero del danno ambientale: può agire in via giudiziaria ovvero procedere al recupero in via amministrativa attraverso la procedura regolata dagli artt. 312 e seguenti del D.Lgs. n. 152/2006, in parte già anticipata dai commi da 439 a 443 della legge finanziaria n. 266/2005 [emissione di un’ordinanza immediatamente esecutiva con cui si ingiunge, ai responsabili del fatto che abbia causato il danno, il ripristino ambientale entro un termine fissato, a titolo di risarcimento in forma specifica, nonché - in caso di inottemperanza ovvero qualora il ripristino risulti in tutto o in parte impossibile oppure eccessivamente oneroso ai sensi dell’art. 2058 cod. civ. - di una successiva ordinanza con la quale viene ingiunto il pagamento, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica, di una somma pari al valore economico del danno accertato e residuato, a titolo di risarcimento per equivalente pecuniario].

Il Ministro dell’ambiente che abbia adottato l’ordinanza di cui all’art. 313 non può proporre né procedere ulteriormente nel giudizio per il risarcimento del danno ambientale, salva la possibilità dell’intervento in qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale (art. 315).

Ai sensi dell’art. 310 del medesimo D.Lgs., pure i soggetti di cui all’art. 309, comma 1 (le Regioni, le Province autonome e gli Enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse alla partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino) sono legittimati ad agire, secondo i principi generali, anche per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del Ministero, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, avanti al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.

Anche a fronte di tali recenti disposizioni normative (che pure presentano difetti di coordinamento sia tra loro sia con altre disposizioni dello stesso testo legislativo), ritiene questo Collegio che debbano ribadirsi le conclusioni alle quali si è pervenuto - in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale -  nell’interpretazione dell’art. 18 della legge n. 34/1986 (di cui si è data conto dianzi).

Contrariamente a quanto argomentato nella sentenza impugnata, va affermato - in particolare - che integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. “perdite provvisorie”, previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in materie di prevenzione e riparazione del danno ambientale) approvata il 21 aprile 2004 e già considerate risarcibili dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema sotto forma di “modifiche temporanee dello stato dei luoghi” (vedi Cass., Sez. III, 15 ottobre 1999, n. 13716).

La risarcibilità delle perdite temporanee è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.

 

5. La posizione della parte civile Luigi Paoletti.

Quanto alla posizione del ricorrente Paoletti, va evidenziato anzitutto che - anche ai sensi dell’art. 313, 7° comma, del D.Lgs. n. 152/2006 - “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.

In tale prospettiva va rilevato, quindi, che detta parte civile è coinvolta direttamente nella vicenda con profili spiccatamente personali (lesione alla reputazione commerciale e diminuzione dell’attività di ricezione turistica dell’albergo) e l’entità oggettiva dell’intervento contestato si pone come potenzialmente idonea a compromettere, anche sotto il profilo patrimoniale, le caratteristiche della struttura alberghiera da lui gestita.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, inoltre:

- ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito, ma è sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia, infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (vedi Cass. pen.: Sez. 1, 18 marzo 1992, n. 3220; Sez. IV, 15 giugno 1994, n. 7008; Sez. VI, 26 agosto 1994, n. 9266);

- la facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, prevista dall’art. 539 c.p.p., non incontra restrizioni di sorta in ipotesi di incompiutezza della prova sul quantum, bensì trova implicita conferma nei limiti dell’efficacia della sentenza penale nel giudizio civile per la restituzione e il risarcimento del danno fissati dall’art. 651 c.p.p., escludendosi, perciò, l’estensione del giudicato penale alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall’imputato (vedi Cass. pen., Sez, IV, 26 gennaio 1999, n. 1045).

- la condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell’esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito (vedi Cass. civ., Sez, III, 11 gennaio 2001, n. 329).

Con motivazione incongrua, dunque, alla stregua dei principi anzidetti, la Corte territoriale ha rilevato che la parte civile Paoletti “non ha comprovato il danno subito seppure non patrimoniale”.

 

6. La sentenza impugnata, in conclusione, per tutte le considerazioni dianzi svolte deve essere annullata nei confronti delle parti ricorrenti, relativamente alle statuizioni civili, e deve disporsi il rinvio alla Corte di Appello di Firenze in sede civile, la quale si pronunzierà anche in ordine alle spese del presente giudizio.