Cassazione S.U. sentenza n. 41281 del 18/12/2006
Pres. Marvulli Est. Brusco Imp.Greco
Le relazioni di servizio della polizia giudiziaria sono atti
irripetibili soltanto se contengono un tipo di accertamento che non
è possibile compiere nuovamente nel dibattimento, e
specificamente se contengono la descrizione di
un’attività
materiale ulteriore rispetto a quella investigativa e non riproducbile,
ovvero la descrizione di luoghi, cose o persone, soggetti a
modificazioni. Aggiungono che le relazioni di servizio, se pure
documentano atti non ripetibili, sono acquisite al fascicolo per il
dibattimento a condizione che siano redatte nella forma del verbale o,
benché redatte nella forma dell’annotazione,
rechino la
sottoscrizione del pubblico ufficiale redigente e non lascino
incertezza assoluta sulle persone intervenute.
PROVE - ATTI IRRIPETIBILI - NOZIONE - RELAZIONI DI SERVIZIO P. G. -
IRRIPETIBILITA' - CONDIZIONI - ACQUISIZIONE AL FASCICOLO PER IL
DIBATTIMENTO - CONDIZIONI.
Le Sezioni unite precisano che l’atto è
irripetibile in
ragione del suo contenuto di consacrazione di un risultato ulteriore
rispetto alla mera attività investigativa, che non lo rende
riproducibile in dibattimento per la necessità di non
disperdere
l’informazione probatoria e di non farne venire meno
genuinità ed affidabilità. Chiariscono quindi che
le
relazioni di servizio della polizia giudiziaria sono atti irripetibili
soltanto se contengono un tipo di accertamento che non è
possibile compiere nuovamente nel dibattimento, e specificamente se
contengono la descrizione di un’attività materiale
ulteriore rispetto a quella investigativa e non riproducbile, ovvero la
descrizione di luoghi, cose o persone, soggetti a modificazioni.
Aggiungono che le relazioni di servizio, se pure documentano atti non
ripetibili, sono acquisite al fascicolo per il dibattimento a
condizione che siano redatte nella forma del verbale o,
benché
redatte nella forma dell’annotazione, rechino la
sottoscrizione
del pubblico ufficiale redigente e non lascino incertezza assoluta
sulle persone intervenute.
GIUDIZIO - POTERI PROBATORI OFFICIOSI DEL GIUDICE - CONDIZIONI
Le Sezioni unite confermano, alla luce della riforma costituzionale
dell’art. 111 in tema di “giusto
processo”,
l’orientamento espresso con la sentenza Martin, n. 11227 del
1992, e stabiliscono che il potere del giudice di disporre
d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, ai
sensi
dell’art. 507 c.p.p., può essere esercitato pur
quando non
vi sia stata precedente acquisizione di prove, ed anche con riferimento
a prove che le parti avrebbero potuto chiedere e non hanno chiesto, ma
sempre che l’iniziativa probatoria sia assolutamente
necessaria e
miri pertanto all’assunzione di una prova decisiva
nell’ambito delle prospettazioni delle parti. Resta peraltro
integro il potere delle parti di chiedere l’ammissione di
nuovi
mezzi di prova in conseguenza dell’integrazione probatoria
officiosa del giudice.
(Sezioni Unite Penali, Presidente N. Marvulli, Relatore C. Brusco)
PREMESSO IN FATTO:
I) La sentenza impugnata e i motivi di ricorso. Il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Biella ha proposto ricorso immediato
per cassazione avverso la sentenza 7 marzo 2003 del Tribunale di
Biella, in composizione monocratica, che ha assolto GRECO ANTONIO da
plurime imputazioni concernenti il reato di cui all’art. 485
cod.
pen. (quattro evasioni dagli arresti domiciliari commesse tra il 6 e il
31 maggio 2000).
Il Tribunale ha ritenuto che non fosse stata provata la
responsabilità dell’imputato; il pubblico
ministero
infatti non aveva depositato la lista testimoniale e il giudice aveva
respinto la richiesta di ammissione dei testi ai sensi
dell’art.
507 c.p.p. ritenendo inapplicabile questa norma nel caso di inerzia
della parte; inoltre era stata respinta la richiesta di inserimento nel
fascicolo per il dibattimento delle relazioni di servizio redatte dagli
organi di polizia giudiziaria.
A fondamento del ricorso il pubblico ministero ricorrente deduce:
- la violazione dell’art. 507 c.p.p.; in base
all’orientamento della Corte costituzionale (sentenza 26
marzo
1993 n. 111) e a quello, assolutamente prevalente, della Corte di
cassazione (ed in particolare delle sezioni unite: sentenza 21 novembre
1992 n. 17, Martin) l’interpretazione che il giudice di primo
grado ha dato della norma indicata non può essere condivisa,
secondo il ricorrente, perché trascura di considerare che il
nuovo processo penale, pur essendo fondato sul principio dispositivo,
ha pur sempre per fine ultimo la ricerca della verità;
ciò giustificherebbe un’interpretazione non
limitativa dei
poteri officiosi del giudice anche nei casi di inerzia delle parti;
- la violazione dell’art. 431 comma 1° lett. b del
codice di
rito; l’accertamento compiuto dalla polizia giudiziaria sulla
presenza della persona nella sua abitazione non costituirebbe infatti
un atto di mera informativa ma conterrebbe un accertamento e la
descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modificazioni
nel tempo e sarebbe quindi correttamente inquadrabile tra gli atti non
ripetibili della polizia giudiziaria con la conseguente
possibilità di acquisizione al fascicolo per il dibattimento.
In conclusione il ricorrente chiede l’annullamento con rinvio
della sentenza impugnata.
II) L’ordinanza di rimessione alle sezioni unite. La sesta
sezione di questa Corte, alla quale il procedimento era stato
assegnato, ha, con ordinanza 13 giugno 2006, disposto la trasmissione
degli atti a queste sezioni unite rilevando che su entrambe le
questioni proposte con i motivi di ricorso sussiste contrasto nella
giurisprudenza di legittimità.
Quanto al primo tema di contrasto nell’ordinanza di
trasmissione
si sottolinea che - dopo che le sezioni unite (con la già
citata
sentenza 6 novembre 1992 n. 11227, Martin) avevano ritenuto che il
potere del giudice di disporre d’ufficio
l’assunzione di
nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., potesse
esercitarsi non solo quando non vi era stata precedente ammissione di
prove ma altresì con riferimento a prove che le parti
avrebbero
potuto chiedere e non hanno richiesto - si sono formati due
orientamenti divergenti nella giurisprudenza di legittimità.
Il
primo, maggioritario, si è posto sulla linea accolta dalle
sezioni unite; secondo altre decisioni invece il potere officioso del
giudice nel procedimento di formazione della prova può
essere
integrativo e sussidiario ma mai del tutto sostitutivo dei poteri
propri delle parti.
In merito al problema relativo alla delimitazione del concetto di atti
non ripetibili – con particolare riferimento alla
possibilità di inquadrare in questa categoria le relazioni
di
servizio che riproducono attività di constatazione ed
osservazione effettuate dalla polizia giudiziaria - la sesta sezione ha
evidenziato una duplice e ricorrente divaricazione nella giurisprudenza
di legittimità sostenendosi, in alcune decisioni, che le
indicate relazioni costituiscono atti non ripetibili equiparabili a
perquisizioni, sequestri ed ispezioni con la conseguente
possibilità di acquisire questi atti al fascicolo per il
dibattimento. Per converso il secondo e contrastante orientamento
esclude invece questa possibilità affermando che le
relazioni in
questione costituiscono una mera constatazione ed acquisizione della
notizia di reato, che può essere agevolmente ridescritta
dall’operante nel corso del dibattimento, e non possono
quindi
essere acquisite all’indicato fascicolo.
CONSIDERATO IN DIRITTO:
III) Gli atti non ripetibili in generale. Per ragioni di ordine logico
è opportuno esaminare preliminarmente la questione relativa
alla
possibilità di acquisire al fascicolo per il dibattimento le
relazioni di servizio. Dalla risposta a questo quesito discende infatti
la rilevanza dell’altro quesito perché una
risposta
positiva (nel senso che la relazione di servizio di cui si tratta nel
presente giudizio fosse ritenuta acquisibile e utilizzabile dal
giudice) renderebbe privo di rilievo l’esame
dell’altro
tema proposto.
Su questo problema il contrasto nella giurisprudenza di
legittimità è effettivo e risalente negli anni;
anche
dopo che le sezioni unite di questa Corte l’avevano risolto
con
la sentenza 28 ottobre 1998 n. 4, Barbagallo, rv. 212758 –
affermando la possibilità di inserimento nel fascicolo per
il
dibattimento dei “verbali di sopralluogo e di osservazione e
delle riprese fotografiche connesse” (in una decisione
peraltro
dedicata all’esame di altri temi) – la
giurisprudenza della
Corte di cassazione si è nuovamente divaricata soprattutto
sul
quesito se rientrino tra gli atti irripetibili le relazioni di servizio
sulle attività di constatazione, osservazione, pedinamento,
controllo ecc. mentre non v’è un effettivo
contrasto sulla
natura irripetibile degli atti che descrivono situazioni di luoghi,
persone o cose soggette a modificazioni.
In particolare, per restare alle pronunzie più recenti, tra
le
decisioni che hanno seguito il percorso delle sezioni unite possono
essere ricordate Cass., sez. V, 12 ottobre 2005 n. 39995, Gissi, rv.
232380; sez. II, 12 gennaio 2005 n. 2353, Are, rv. 230618; sez. III, 27
maggio 2004 n. 28930, Troncone, rv. 229494; mentre per
l’orientamento opposto si sono espresse, tra le altre, Cass.,
sez. VI, 8 giugno 2004 n. 39230, Aiuto, rv. 230375; sez. I, 23 ottobre
2002 n. 37286, Marucci, rv. 222537; sez. I, 13 giugno 2003 n. 30122,
Ventaloro, rv. 225493.
A differenza del tema che verrà successivamente affrontato
quello relativo all’individuazione dei criteri da seguire per
affermare la natura non ripetibile di un atto della polizia giudiziaria
riguarda direttamente il “giusto processo”
nell’assetto derivante dall’innovato art. 111 della
Costituzione dopo la riforma introdotta dalla legge costituzionale 23
dicembre 1999 n. 2 e dopo l’entrata in vigore della legge di
attuazione 1° marzo 2001 n. 63.
L’inserimento del verbale di un atto della polizia
giudiziaria
nel fascicolo per il dibattimento, al di fuori dei casi previsti,
costituisce infatti una deroga non solo al principio di
oralità
(che, pur caratterizzando il sistema accusatorio, non ha peraltro
copertura costituzionale) ma in particolare al principio del
contradditorio nella formazione della prova perché consente
che
l’atto, formato nella fase procedimentale, venga utilizzato,
previa lettura, per la decisione.
E’ vero che la legge di attuazione indicata non ha modificato
l’art. 431 c.p.p. ma questa norma va oggi interpretata alla
luce
della previsione contenuta nel comma 4 dell’art. 111 che
impone
il contradditorio come regola per la formazione della prova mentre il
comma successivo consente la deroga a questo principio solo nel caso di
consenso dell’imputato, di provata condotta illecita e
“per
accertata impossibilità di natura oggettiva”.
Dal nuovo assetto della disciplina costituzionale sulla formazione
della prova derivano quindi due conseguenze: 1) al di fuori degli altri
casi indicati (consenso e provata condotta illecita) l’atto
di
cui si discute, per poter essere ritenuto non ripetibile, non deve
essere rinnovabile in dibattimento per “accertata
impossibilità di natura oggettiva”; 2) in caso di
dubbio
un’interpretazione costituzionalmente orientata non
può
che imporre una delimitazione degli atti acquisibili al fascicolo
dibattimentale alle sole ipotesi nelle quali la rinnovazione sia
effettivamente ed oggettivamente impossibile.
Va ancora precisato che la non ripetibilità degli atti della
polizia giudiziaria riguarda l’irripetibilità
originaria
mentre l’ipotesi prevista dall’art. 512 c.p.p.
riguarda i
casi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione
dell’atto e che la disciplina degli atti non ripetibili
riguarda,
oltre che gli atti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero,
anche quelli compiuti dal difensore come prevede la lett. c
dell’art. 431 a seguito della modifica introdotta
dall’art.
15 della l. 7 dicembre 2000 n. 397.
IV) Criteri per stabilire la natura non ripetibile dell’atto.
Ciò premesso, non avendo il legislatore provveduto a
individuare
gli atti non ripetibili né ad indicare i criteri necessari
per
qualificare tale un atto del procedimento, sta all’interprete
individuare questi criteri avendo presente la necessità di
non
incorrere in un duplice contrapposto errore: il primo errore
è
quello di fare riferimento al contesto in cui l’atto
è
stato compiuto perché in questo caso non esisterebbe atto
ripetibile in dibattimento non essendo mai riproducibile il contesto in
cui l’atto è stato formato (anche le dichiarazioni
rese
dalla persona informata sui fatti non sono ripetibili nel medesimo
contesto).
Il secondo errore in cui potrebbe incorrere l’interprete
è
quello di fare esclusivamente riferimento alla possibilità
di
descrizione delle attività compiute perché, in
questo
caso, sarebbe ben difficile ritenere non ripetibili quegli atti che,
fino ad oggi, dottrina e giurisprudenza hanno concordemente ritenuto
tali (perquisizioni, sequestri, arresto, fermo ecc.).
L’agente o
l’ufficiale di polizia giudiziaria infatti ben potrebbe
essere
chiamato a descrivere nel dibattimento le attività svolte in
queste occasioni.
Va ancora ricordato che possono ritenersi superate le teorie che
facevano riferimento, per individuare gli atti in questione, alla
natura di “atto a sorpresa” o di “atto
indifferibile” (gli atti che hanno queste caratteristiche
possono
talvolta essere ripetibili mentre atti a sorpresa o indifferibili non
necessariamente hanno caratteristiche di irripetibilità).
Per verificare a quale nozione di ripetibilità abbia fatto
riferimento l’art. 431 c.p.p. occorre intanto procedere con
un
criterio di esclusione considerando che mai potranno essere considerate
originariamente irripetibili le dichiarazioni che,
nell’impianto
accusatorio del nostro codice, costituiscono il tipico esempio di atto
ripetibile con modalità narrative. Non è un caso
che, ben
prima della modifica dell’art. 111 della Costituzione, sia
stata
abrogata l’originaria previsione del codice (art. 500 comma
4° c.p.p.) che consentiva l’acquisizione al fascicolo
per il
dibattimento delle dichiarazioni assunte dal p.m. o dalla p.g. nel
corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e
nell’immediatezza
del fatto, utilizzate per le contestazioni. Nel bilanciamento tra i
principi che si riferiscono alla genuinità
dell’atto e al
rispetto del contradditorio nella formazione della prova in tema di
dichiarazioni la prevalenza non poteva che essere attribuita al secondo
principio (unica eccezione potrebbe essere oggi ritenuta quella delle
dichiarazioni rese da persona in punto di morte).
La ripetibilità non può peraltro consistere nella
mera
possibilità di descrivere le attività compiute
dagli
agenti e ufficiali di polizia giudiziaria. L’esame delle
fattispecie concordemente ritenute appartenere alla categoria degli
atti non ripetibili consente invece di affermare che questi atti sono
caratterizzati dall’esistenza di un risultato ulteriore
rispetto
alla mera attività investigativa della polizia giudiziaria e
dall’acquisizione di informazioni ulteriori derivate da
questa
attività; ma deve trattarsi di casi in cui questo risultato
ulteriore non sia più riproducibile in dibattimento se non
con
la perdita dell’informazione probatoria o della sua
genuinità. Insomma si deve trattare di un risultato
estrinseco
rispetto alla mera attività d’indagine che, di per
sé, può sempre essere ridescritta in dibattimento
senza
che alcuna informazione vada perduta.
Ciò appare evidente nel caso delle intercettazioni
telefoniche
(le cui trascrizioni sono peraltro inserite nel fascicolo per il
dibattimento per espressa previsione normativa: art. 268 c. 7°
c.p.p.). Chi le ha materialmente eseguite potrebbe, in astratto,
descrivere in dibattimento le attività svolte ed anche
riferire
il contenuto delle conversazioni intercettate, ma non potrebbe certo
riprodurre le conversazioni captate: quello che in ipotesi potrebbe
riferire sarebbe comunque diverso da quanto è stato captato
e
andrebbe dunque perduta un’informazione probatoria
potenzialmente
rilevante nel processo.
Per quanto riguarda altri casi di atti tipici comunemente ritenuti
irripetibili (perquisizioni, sequestri, arresti ecc.) la costruzione
è di meno immediata evidenza ma il concetto è
analogo.
Qualunque attività svolta dagli appartenenti alla polizia
giudiziaria può essere ridescritta in forma narrativa nel
contradditorio delle parti ma se questa attività si
è
cristallizzata in un atto o in un fatto estrinseci alla mera
attività investigativa il risultato
dell’attività
può essere descritto ma non riprodotto.
Così l’apprensione materiale in cui si concretizza
il
sequestro, la ricerca materiale del corpo di reato che si svolge nel
corso della perquisizione, la concreta privazione della
libertà
personale nei casi di arresto o fermo: tutte attività
ulteriori,
diverse ed estrinseche rispetto a quelle investigative, che vengono
cristallizzate in un verbale il cui contenuto informativo non sarebbe
riproducibile in dibattimento o lo sarebbe ma con il risultato della
perdita della genuinità e immediatezza che caratterizza la
redazione del verbale che riproduce queste attività diverse
ed
ulteriori.
In parte diversa è la nozione di non ripetibilità
riguardante la descrizione di luoghi, cose o persone di interesse per
lo sviluppo delle indagini, o per la celebrazione del processo, che
assume carattere di irripetibilità quando si tratti di
situazioni modificabili per il decorso del tempo (carattere peraltro
presente anche negli atti tipici non ripetibili). In questi casi la non
ripetibilità deriva non da un’assoluta
impossibilità di descrizione delle situazioni modificabili
ma
dalla perdita di informazioni che deriva dalla possibilità
di
mutamento dello stato di luoghi, cose o persone che non renderebbe
possibile, in caso di necessità, la ripetizione
dell’atto.
In questi casi la non ripetibilità trova
un’indiretta
conferma normativa nelle disposizioni degli artt. 354 commi 2°
e
3° (che abilita la polizia giudiziaria a compiere rilievi sullo
stato delle cose, dei luoghi e delle persone nel caso di pericolo di
alterazione, dispersione o modificazione), 360 (che abilita il pubblico
ministero, in situazioni analoghe, a disporre accertamenti tecnici non
ripetibili utilizzabili nel dibattimento) e 391 decies commi 2°
e
3° c.p.p. (ove si fa espresso riferimento alla documentazione
di
atti non ripetibili compiuti dal difensore in occasione
dell’”accesso ai luoghi” e agli
accertamenti tecnici
non ripetibili). Queste norme consentono infatti, in deroga alla
disciplina ordinaria, di svolgere attività investigativa -
la
cui documentazione è utilizzabile in dibattimento - a
soggetti
che di regola non dispongono dei relativi poteri proprio
perché
in dibattimento non sarebbe più possibile dare luogo al
corrispondente mezzo di prova se non con la perdita della
genuinità e quindi dell’affidabilità
dell’atto.
E la conferma che il concetto di non ripetibilità
è
strettamente ricollegato (anche) alla modificazione di cose, luoghi e
persone si rinviene nel disposto dell’art. 117 delle disp.
att.
c.p.p., che estende la disciplina dell’art. 360 c.p.p. agli
accertamenti che modifichino le situazioni indicate, e
dell’art.
223 delle medesime disposizioni che prevede una particolare disciplina
per le analisi di campioni con l’espressa previsione di
acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei verbali di analisi
non ripetibili e dei verbali di revisione di analisi.
In conclusione ciò che giustifica l’attribuzione
della
qualità di non ripetibilità ad un atto della
polizia
giudiziaria, del pubblico ministero o del difensore è la
caratteristica di non essere riproducibile in dibattimento. Ma
ciò non è sufficiente: nel bilanciamento di
interessi tra
la ricerca della verità nel processo e sacrificio del
principio
costituzionale relativo alla formazione della prova è
necessario
che l’atto abbia quelle caratteristiche di
genuinità e
affidabilità che possono derivare soltanto da
quell’attività di immediata percezione
cristallizzata in
un verbale che inevitabilmente andrebbe dispersa ove si attendesse il
dibattimento.
V) Le relazioni di servizio in particolare. Passando più
specificamente al tema che forma oggetto del motivo di ricorso in esame
va rilevato che il problema viene spesso impropriamente proposto come
relativo alla verifica se le relazioni di servizio possano, o meno,
essere considerate atti non ripetibili della polizia giudiziaria ai
fini della possibilità del loro inserimento nel fascicolo
per il
dibattimento.
La questione è però impropriamente proposta
perché
il problema non è quello della denominazione
dell’atto ma
del suo contenuto. La nozione di atto non ripetibile non ha natura
ontologica ma va ricavata dalla disciplina processuale. Ciò
che
rileva è il tipo di informazione contenuto
nell’atto
redatto dalla polizia giudiziaria: se contiene un tipo di accertamento
che non sarà possibile compiere nuovamente nel dibattimento,
secondo i criteri indicati, l’atto dovrà essere
considerato non ripetibile – e quindi inseribile nel
fascicolo
per il dibattimento – indipendentemente dalla sua
denominazione
(la necessità di fare riferimento al contenuto
dell’atto
per verificare se la relazione si riferisca effettivamente ad
attività non ripetibili è stata di recente
ribadita da
Cass., sez. I, 12 aprile 2005 n. 14664, Palermo, rv. 231328).
Quindi, anche per le relazioni di servizio, perché possano
essere ritenute non ripetibili non sarà sufficiente che
contengano informazioni su attività d’indagine
che, per
loro natura, possono essere descritte in dibattimento ma è
necessario che contengano la descrizione di
un’attività
materiale svolta, ulteriore rispetto a quella investigativa e non
riproducibile, ovvero la descrizione di luoghi, cose o persone che,
parimenti, possono essere ritenute non ripetibili perché
soggetti a modificazioni secondo i criteri in precedenza indicati.
Anche nel caso delle relazioni di servizio si potrebbe affermare che
queste attività materiali e questi rilievi potrebbero essere
ripetuti in dibattimento con la descrizione narrativa delle
attività svolte da parte di chi le ha compiute e con la
ricostruzione verbale della situazione di luoghi, persone e cose da
parte di chi ha compiuto i rilievi. Ma non è
così: il
narrante può descrivere ciò che ha compiuto o
ciò
che ha visto ma non compiere nuovamente
un’attività che si
è concretizzata in un risultato oggettivo estrinseco che non
può essere nuovamente compiuto (non solo il sequestro, la
perquisizione, l’arresto ecc. ma altresì il
rilievo dei
luoghi, la descrizione della cosa soggetta a modificazioni ecc.);
può ridescrivere una situazione ma non riprodurla come
è
stata “fotografata” nell’immediatezza. In
questi casi
la mancata acquisizione dell’atto condurrebbe alla perdita di
un’informazione certamente più genuina della
descrizione
che potrebbe farsene in dibattimento e che si può rivelare
essenziale per l’esito del processo.
Ma questa perdita dell’informazione probatoria non si
verifica
nei casi in cui la relazione di servizio (o altro atto della polizia
giudiziaria) si limiti a descrivere attività investigative
consistenti in osservazione, constatazione, pedinamenti, accertamento
della presenza di persone e di loro attività come contatti,
spostamenti ecc. ovvero si limitino a descrivere le circostanze di
tempo e di luogo in cui è stata acquisita la notizia di
reato.
In questi casi non v’è alcuna
“impossibilità
di natura oggettiva” alla riproduzione narrativa in
dibattimento
delle attività svolte; non v’è alcun
risultato
estrinseco in cui si sia concretizzata l’attività
d’indagine che non possa essere riprodotto in dibattimento;
non
esiste alcuna perdita di informazioni probatorie genuine.
Per esemplificare: il pedinamento può essere descritto in
dibattimento da chi l’ha compiuto che potrà
riferire, per
esempio, delle attività svolte e delle persone con cui il
pedinato ha avuto contatti. Se il pedinato verrà osservato
mentre consegna sostanza stupefacente ad un terzo saranno
l’arresto e il sequestro della sostanza che non potranno
essere
riprodotti in dibattimento non la descrizione
dell’attività investigativa precedentemente svolta
e delle
modalità di acquisizione della notizia di reato.
Del resto in che cosa si differenziano queste “relazioni di
servizio” dall’informativa di reato prevista
dall’art. 347 c.p.p. e della cui natura di atto ripetibile
(salvo
per quelle parti che possano farsi rientrare nella nozione in
precedenza indicata) nessuno ha mai dubitato ? Anzi nella redazione del
nuovo codice il legislatore ha avuto presente proprio il vecchio
“rapporto” quale elemento discriminante atto a
sottolineare
l’affermazione del sistema accusatorio nella formazione della
prova pervenendo a mutarne la denominazione e ritenendo conclamata la
non acquisibilità al fascicolo per il dibattimento.
Sarebbe poi singolare consentire che la polizia giudiziaria, con una
mera scelta terminologica (qualificando come “relazione di
servizio” un’informativa di reato) divenisse
arbitra della
possibilità di derogare al principio della formazione della
prova nel contradditorio delle parti.
I casi in cui le relazioni di servizio si limitino a descrivere le
attività di indagine rientrano dunque tra le
attività
ripetibili proprio perché la ripetizione si esaurisce con la
descrizione narrativa di questa attività; tra
l’altro,
proprio per contrastare il pericolo di perdita
dell’informazione
probatoria derivante dal decorso del tempo e dall’attenuarsi
dei
ricordi, è previsto che il testimone possa essere
autorizzato a
consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti (art. 499
c. 5° c.p.p.).
Se però, nel corso di queste attività, sorge la
necessità di documentare una situazione modificabile dei
luoghi,
delle persone o delle cose i relativi rilievi possono assumere natura
di atti non ripetibili e (per questa sola parte) divenire inseribili
nel fascicolo per il dibattimento. Parimenti se
l’attività
d’indagine è accompagnata da rilievi fotografici,
fonografici o cinematografici (alla cui collocazione tra i documenti
potrebbe essere di ostacolo la circostanza che non preesistono al
procedimento; ma la soluzione è controversa: v. da ultimo
Cass.,
sez. V, 20 ottobre 2004 n. 46307, Held, rv. 230394, che ha ritenuto che
queste rappresentazioni siano acquisibili come documenti) anche queste
attività di documentazione devono essere ritenute non
ripetibili
proprio perché non possono essere riprodotte in dibattimento
se
non con una descrizione narrativa che non riproduce quanto descritto
nel rilievo fotografico, fonografico o cinematografico con conseguente
perdita dell’informazione probatoria (oltre che della sua
genuinità).
VI) La redazione dei verbali degli atti non ripetibili. Va a questo
punto affrontato un problema ulteriore: l’art. 431 comma
1°
lett. b parla di “verbali” di atti non ripetibili
(e allo
stesso modo si esprime la lett. c per gli analoghi atti del pubblico
ministero e del difensore). Le relazioni di servizio non sempre vengono
redatte con la forma del verbale anche per la (prevalente) funzione di
atto interno all’amministrazione che le medesime svolgono.
Ma è chiaro che i casi che interessano sono quelli nei quali
la
relazione di servizio, per il suo contenuto, assume anche
un’efficacia esterna. E dunque occorre fare riferimento alla
norma che disciplina la documentazione
dell’attività di
polizia giudiziaria: l’art. 357 c.p.p. E da questa norma
è
possibile ricavare un’ulteriore conferma di quanto si
è
fin qui detto: la relazione di servizio che descrive le
attività
di indagine in nulla differisce dall’annotazione prevista dal
primo comma e come tale mai potrà essere acquisita al
fascicolo
per il dibattimento. La documentazione delle altre attività
per
le quali è richiesta la redazione del verbale
potrà
essere acquisita in presenza delle caratteristiche ricordate (quindi
sempre per quelle previste dalla lett. d – perquisizioni e
sequestri – e solo in presenza di caratteristiche di
modificabilità nell’ipotesi della lett. f).
In questi casi se la relazione riguarda atti non ripetibili nel senso
indicato e contiene tutti gli elementi previsti per la redazione del
verbale indicati nell’art. 136 c.p.p. non possono esservi
dubbi
sulla possibilità di utilizzazione dell’atto
risolvendosi,
il problema accennato, in una questione nominalistica.
Se invece l’atto non contiene questi elementi è la
stessa
disciplina codicistica che ci fornisce la soluzione: l’art.
142
precisa infatti in quali casi il verbale deve essere ritenuto nullo (se
vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se
manca la
sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto). Con la
conseguenza che, in questi casi, l’atto non potrà
essere
acquisito al fascicolo per il dibattimento anche se contiene la
documentazione di atti non ripetibili.
VII) Conclusioni sul secondo motivo di ricorso. In base ai principi
enunciati possono in parte ricomporsi anche le divergenze che si sono
riscontrate sulla natura non ripetibile di atti di vario genere
compiuti dalla polizia giudiziaria (se si tratta di atti di privati
– per es. querele e denunce – il problema della
irripetibilità originaria neppure si pone trattandosi di
atti
ripetibili in forma narrativa) dovendosi escludere che la categoria
degli atti non ripetibili costituisca un numerus clausus.
Si pensi al verbale di constatazione della polizia tributaria che non
potrà essere considerato atto irripetibile salvo che per
quelle
parti che documentino situazioni modificabili (per es. la consistenza
del magazzino, le risultanze di documentazione contabile che non viene
sequestrata o altre situazioni soggette a variazioni per opera del
tempo o delle persone) e analogamente per quanto riguarda i verbali
relativi alle infrazioni in materia di lavoro e quelle in materia di
circolazione stradale.
La natura di atti non ripetibili dovrà invece essere
riconosciuta agli accertamenti e rilievi planimetrici o volumetrici
(per es. a seguito di un incidente stradale o nel caso di rilevazione
di violazioni urbanistiche), alle rilevazioni tecniche su luoghi, cose
e persone (per es. per accertare la presenza di tracce di sparo o di
sostanze stupefacenti) in tutti i casi in cui vi sia
possibilità
di mutamento delle situazioni rilevate.
In conclusione deve ritenersi corretta la soluzione adottata dal
giudice e ribadita nella sentenza impugnata: la relazione di servizio
della quale era stato chiesto l’inserimento nel fascicolo per
il
dibattimento descriveva una mera attività di indagine
esauritasi
con la sua esecuzione che poteva agevolmente (e senza perdita di alcuna
informazione probatoria) essere descritta in dibattimento;
né
esisteva alcun situazione di luoghi, cose o persone modificabile per il
decorso del tempo. Non poteva quindi essere acquisita e utilizzata
senza il consenso delle parti.
VIII) I poteri di iniziativa probatoria del giudice. Accertato che il
giudice ha correttamente escluso che l’atto in questione
potesse
entrare a far parte del fascicolo per il dibattimento occorre ora
affrontare la questione - che forma oggetto del primo motivo di ricorso
- relativa all’ambito dei poteri di iniziativa probatoria del
giudice nel processo penale.
La sesta sezione di questa Corte ha rilevato come, dopo la
più
volte ricordata sentenza Martin di queste sezioni unite (le cui
conclusioni sono state condivise dalla Corte costituzionale), sia
periodicamente riemerso, nella giurisprudenza di
legittimità, un
orientamento di segno opposto che restringe i poteri officiosi del
giudice escludendo in particolare che questi poteri possano esercitarsi
nei casi di inerzia delle parti.
L’analisi della giurisprudenza di legittimità
dimostra
peraltro come gli orientamenti effettivamente dissenzienti rispetto a
quello delle ss.uu. siano assolutamente episodici: per quanto consta in
realtà questi precedenti sono costituiti dalla sentenza sez.
V,
1° dicembre 2004 n. 15631, Canzi, rv. 232156 e dalla
più
risalente sez. I, 30 gennaio 1995, Rizzo, rv. 201939. Altre decisioni
(sez. I, 28 settembre 1995, Di Lena, rv. 202864; sez. I, 8 giugno 2000,
Fiderno, rv. 216595 e sez. III, 10 dicembre 1996, Adragna, rv. 207461),
pur talvolta accreditate (anche nell’ordinanza di rimessione
a
queste sezioni unite) come espressione del contrario orientamento, sono
in realtà caratterizzate da peculiarità dei
singoli casi
(peculiarità che, nell’economia di questa
decisione
è irrilevante esaminare) che non consentono di ritenerle
adesive
dell’uno o dell’altro orientamento.
Ciò premesso occorre osservare, come prima riflessione sul
tema,
che è comunemente riconosciuto che il nuovo codice, pur
richiamandosi ad un modello processuale che fa riferimento al c.d.
“processo di parti” non abbia peraltro inteso
accogliere
integralmente il principio dispositivo che pur caratterizza questo tipo
di processo. Del resto questo principio neppure è
integralmente
accolto nel processo civile – tipico processo di parti nel
quale
il principio dispositivo trova la sua più ampia applicazione
– nel quale il giudice è dotato (art. 115 c.p.c.)
di ampi
poteri officiosi nella disponibilità delle prove, sia pure
nei
soli casi previsti dalla legge, peraltro numerosi ed incisivi
(interrogatorio non formale delle parti: art. 117; ispezione di persone
e di cose: art. 118; nomina di consulente tecnico: art. 191; richiesta
d’informazioni alla p.a.: art. 213; assunzione di testi de
relato: art. 257 ecc.).
Coerentemente quindi l’art. 507 c.p.p. conferma come questa
opzione nel processo penale non sia stata piena e incondizionata. E
può anche ricordarsi – a conferma della
compatibilità del sistema accusatorio con le deroghe al
principio dispositivo - che è relativamente recente
un’innovazione legislativa che ha consentito, nel sistema
nordamericano, la nomina d’ufficio dell’esperto
indipendente (expert witness) da parte del giudice (ad opera della Rule
706 delle Federal Rules of Evidence del 1975 riguardante sia il
processo civile che quello penale) confermando normativamente una
deroga del principio dispositivo che peraltro la giurisprudenza civile
aveva già affermato (nella giurisprudenza penale permane
ancor
oggi un certo rifiuto nell’applicazione della norma).
Il problema è dunque quello di individuare
l’ambito di
applicazione dei poteri officiosi di natura probatoria del giudice e,
in questa ottica, deve anzitutto rilevarsi che sull’assetto
codicistico non ha influito la recente riforma dell’art. 111
della Costituzione che ha accentuato esclusivamente quello che
costituisce il principio fondante del processo accusatorio –
la
formazione della prova nel contradditorio delle parti – ma
nulla
ha innovato sul principio dispositivo che, pur essendo uno dei principi
cui si ispirano i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo
così decisivo come i criteri che riguardano la formazione
della
prova.
Occorre anche precisare che nella cultura giuridica europea
continentale il principio dispositivo è stato visto come un
antidoto non tanto alla sopravvivenza di poteri officiosi del giudice
che, in sede di decisione, si trovi
nell’impossibilità di
adottare un giudizio equo e consapevole quanto al classico esempio del
giudice inquisitore rappresentato (ancor oggi nei paesi dove
sopravvive) dall’istituto del giudice istruttore previsto
anche
dal nostro ordinamento previgente.
Il giudice istruttore, in realtà, costituiva un organo
d’accusa mascherato da giudice terzo e le sue iniziative
erano
prevalentemente dirette ad acquisire gli elementi per fondare
l’accusa nel giudizio; aveva il potere di formulare egli
stesso
un’ipotesi ricostruttiva del fatto (nella prassi talvolta
formulava anche i capi d’imputazione) e ricercava le fonti di
prova necessarie a fondarla. Tutte attività che, nel codice
vigente, sono state opportunamente trasferite al pubblico ministero (va
anche ricordato che in alcuni paesi dove sopravvive – per es.
in
Francia – il giudice istruttore svolge altresì la
funzione
di garantire un esercizio indipendente dell’azione penale che
il
p.m., organo dell’esecutivo, non può svolgere).
Ma l’art. 507 ha un diverso ambito di applicazione e,
soprattutto, un diverso scopo: quello di consentire al giudice - che
non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o
insufficienza del materiale probatorio di cui dispone - di ammettere le
prove che gli consentono un giudizio più meditato e
più
aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a
ricostruire. Senza neppure scomodare i grandi principi (in particolare
quello secondo cui lo scopo del processo è
l’accertamento
della verità) può più ragionevolmente
affermarsi
che la norma mira esclusivamente a salvaguardare la completezza
dell’accertamento probatorio sul presupposto che se le
informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più
ampie è più probabile che la sentenza sia equa e
che il
giudizio si mostri aderente ai fatti.
Ciò consente di eliminare anche l’equivoco secondo
cui
l’acquisizione d’ufficio delle prove da parte del
giudice
fa venir meno la sua terzietà. Il giudice istruttore del
precedente ordinamento poteva non apparire terzo (e in parte non lo
era) perché formulava ipotesi ricostruttive e indagava per
averne conferma non diversamente dall’organo
dell’accusa;
ma perché mai non dovrebbe essere considerato terzo un
giudice
scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni
conoscitive insufficienti ben sapendo che è possibile
colmare
almeno una parte delle lacune esistenti ? E’ questo potere
(da
esercitare solo in caso di assoluta necessità !) un residuo
del
principio inquisitorio oppure vale a fondare un processo veramente
“giusto” ?
C’è un altro equivoco da superare: che questa
limitazione
del principio dispositivo nuoccia alla difesa dell’imputato o
mini il principio della parità delle parti. Certo possono
esservi pubblici ministeri che omettono di depositare la lista testi
(per inerzia o per un erroneo convincimento di poter provare
diversamente l’ipotesi di accusa: questo processo ne
è un
esempio) ma è forse statisticamente più
significativa la
percentuale di difensori negligenti che non utilizzano tutti gli
strumenti a loro disposizione per un’efficace difesa dei loro
assistiti. E l’art. 507 ha dunque anche la funzione di
evitare
che si pervenga a condanne ingiuste.
Dal punto di vista dell’adeguamento ai principi
costituzionali
(ricordiamo comunque che il sistema accusatorio non è
costituzionalizzato; sono costituzionalizzati alcuni principi
fondamentali del sistema accusatorio) e dello scopo della norma
è quindi evidente che all’art. 507 può
essere dato
il significato più ampio conforme alla formulazione
letterale
della norma. Senza dimenticare che questo assetto si inserisce in un
sistema caratterizzato dall’obbligatorietà
dell’azione penale che impone una costante verifica
dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico
ministero, e
quindi anche delle sue carenze od omissioni.
Una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe
idonea a vanificare il principio
dell’obbligatorietà
dell’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con
l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di
richiesta di archiviazione del pubblico ministero. E ciò
spiega
anche la differenza con quanto avviene nei sistemi accusatori di common
law - nei quali le deroghe al principio dispositivo sono inesistenti (o
assolutamente eccezionali) – essendo, questa disciplina
processuale, ricollegata alla disponibilità
dell’azione
penale da parte del pubblico ministero che può rinunziare ad
essa, di fatto, anche con la mancata richiesta di ammissione delle
prove.
Va ancora osservato che le limitazioni che il diverso orientamento
vorrebbe introdurre (che vi sia stata assunzione delle prove e non vi
sia stata inerzia delle parti) neppure vengono accennate nella
direttiva 73 della legge delega che parla genericamente di
“potere del giudice di disporre l’assunzione di
mezzi di
prova” mentre sia la relazione al progetto preliminare che
quella
al progetto definitivo confermano l’inesistenza di
limitazioni
(nel solo progetto definitivo è stato introdotto il limite
temporale peraltro neppure connotato da caratteristiche di
perentorietà).
Per quanto riguarda in particolare il limite temporale, è da
rilevare che l’affermazione, contenuta in alcune isolate
decisioni (e in alcuni commenti), che la formulazione della norma non
consentirebbe di applicare il principio dell’ammissione
d’ufficio delle prove perché la norma fa
riferimento allo
spazio temporale successivo alla “acquisizione delle
prove”
costituisce un’evidente forzatura apparendo ovvio che la
norma si
riferisce al caso normale in cui acquisizione di prove vi sia stata ma
sarebbe privo di senso inserirvi un divieto quando acquisizione di
prove non vi sia stata o quelle proposte non siano state ritenute
ammissibili.
Più ragionevole, ma non condivisibile, è la tesi
che
configura il divieto come una sorta di sanzione per l’inerzia
della parte ma anche questa opzione incontra le obiezioni di cui si
è detto: la formulazione letterale della norma contrasta con
questa interpretazione e i limiti in cui, nel nostro sistema
processuale, sono stati accolti i principi del sistema accusatorio non
consentono di escludere un’iniziativa di ufficio del giudice
diretta ad acquisire le informazioni necessarie per la sua decisione.
Deve quindi essere confermato l’orientamento espresso da
queste
sezioni unite con la già citata sentenza Martin del 1992 (e
condiviso anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 marzo 1993
n. 111) nella quale opportunamente si rilevava, a conferma della
correttezza dell’orientamento di ritenere il potere del
giudice
esercitabile anche in caso di inerzia delle parti, che nel giudizio di
appello al giudice è consentito (art. 603 comma 3°
c.p.p.)
di disporre d’ufficio la rinnovazione
dell’istruzione
dibattimentale in tutti i casi previsti dai commi precedenti e quindi
anche nel caso di prove che, benché conosciute, non erano
state
assunte.
V’è ancora, in questa sentenza,
un’importante
precisazione che consente di evitare che l’esercizio del
potere
in esame avvenga in modo troppo esteso o addirittura arbitrario:
l’iniziativa deve essere “assolutamente
necessaria”
(sia l’art. 507 che il 603 usano questa espressione) e la
prova
deve avere carattere di decisività (altrimenti non sarebbe
“assolutamente necessaria”) diversamente da quanto
avviene
nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle parti
in
cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibili e rilevanti.
Può ancora aggiungersi che questo potere andrà
esercitato
nell’ambito delle prospettazioni delle parti e non per
supportare
probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa
ipotizzare. La formulazione di un’ipotesi autonoma e
alternativa
da parte del giudice costituisce infatti (v. Cass., sez. un., 30
ottobre 2003 n. 20, Andreotti) “violazione sia delle corrette
regole di valutazione della prova che del basilare principio di
terzietà della giurisdizione”.
E’ infine superfluo sottolineare che, a seguito
dell’iniziativa officiosa, resta integro il potere delle
parti di
chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova –
secondo la
regola indicata nell’art. 495 comma 2° c.p.p. (prova
contraria) - la cui assunzione si sia resa necessaria a seguito
dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e,
da
diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in deroga
al
principio dispositivo non fa venir meno l’onere del pubblico
ministero di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno,
l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori
esistenti.
IX) Conclusioni. Consegue alle considerazioni svolte
l’accoglimento del ricorso limitatamente al primo motivo con
il
conseguente annullamento della sentenza impugnata e rinvio al giudice
che l’ha pronunziata che dovrà quindi provvedere
sulla
richiesta di esercitare i poteri d’ufficio previsti
dall’art. 507 c.p.p. senza che vengano in considerazione
decadenze o inerzie in cui le parti siano incorse.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, annulla
l’impugnata sentenza e rinvia per nuovo esame al Tribunale di
Biella.
Polizia Giudiziaria. Atti irripetibili
- Dettagli
- Categoria principale: Polizia Giudiziaria
- Categoria: Cassazione Penale
- Visite: 68696