Reato di cui all’art. 51 bis D. Lgs. n. 22/97: reato di danno o reato di pericolo?[1] Di Serenella Beltrame. Reato di cui all

 

La tutela penale dell’ambiente: il modello sanzionatorio.

I reati di inquinamento e di pericolo concreto e attuale di inquinamento.

Reato di cui all’art. 51 bis D. Lgs. n. 22/97 e orientamenti della dottrina.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Considerazioni conclusive. 

 

La tutela penale dell’ambiente: il modello sanzionatorio.

 

In considerazione della ormai generalizzata consapevolezza della speciale valenza del bene <> in correlazione a quello della salute dell’uomo e, più in generale, della sua qualità della vita nonché dell’accresciuta sensibilità della popolazione ai fenomeni di inquinamento (basti ricordare i fatti della cronaca recente e, in particolare, le proteste popolari per le discariche di rifiuti nella Campania e per le emissioni elettromagnetiche delle antenne di Radio Vaticana), i conflitti di  interesse (economia – ecologia) che si vengono a creare nel tessuto sociale relativamente alla questione della protezione dell’ecosistema assumono dimensioni sempre più importanti se non, talvolta, allarmanti. Mentre la necessità di soluzioni e/o mediazioni tra gli interessi in gioco (tutti di primaria valenza: salute - libertà di iniziativa economica - occupazione) si fa via via più pressante ed improrogabile, le risposte che vengono prospettate a livello normativo, sotto il profilo dell’idoneità degli strumenti apprestati al fine di comporre tali conflitti ed a reprimere i più gravi comportamenti ai danni dell’ecosistema, non sempre paiono soddisfacenti ed adeguate e riflettono, il più delle volte, i difficili compromessi raggiunti in sede legislativa (il più delle volte sull’onda delle varie “emergenze” nei diversi settori ecologici: acqua, aria, rifiuti, elettromagnetismo) tra le esigenze, spesso contrapposte,  della politica economica e di quella di tutela ambientale.

Tali difficoltà ed incertezze hanno inciso, nell’epoca attuale come in quella passata, sulla scelta in ordine alle tecniche penalistiche di protezione dell’ecosistema che sino ad ora è stata caratterizzata dall’opzione verso un modello sanzionatorio che riguarda fattispecie penali ove non rilevano le forme di aggressione al bene (ambiente) bensì emerge come elemento essenziale della condotta la violazione di un obbligo che il soggetto è tenuto ad osservare per la qualifica rivestita[2].

Questa tematica afferente la tecnica di normazione fondata su meri reati di disobbedienza è stata oggetto di vivaci discussioni da parte della dottrina (che, peraltro, per lungo tempo ha trascurato questo settore relegato per lo più all’attenzione di pochi studiosi) per il rilievo che rivestono le questioni poste dal diritto ambientale per la teoria generale del reato e della pena.

Da tempo è stato evidenziato che la stragrande maggioranza dei reati ambientali si incentra sull’assenza o inosservanza del contenuto di un atto amministrativo (l’autorizzazione allo scarico nelle acque, allo smaltimento di rifiuti, all’emissione di fumi nell’atmosfera etc.), perno a sua volta di un sistema che mira soprattutto alla composizione del conflitto economia – ecologia, così che il loro disvalore di evento, più che nella lesione o messa in pericolo dell’equilibrio ecologico di acque aria o suolo, parrebbe consistere nel  mero <> arrecato a funzioni di governo[3].

In linea generale, si può affermare che il paradigma di illecito prescelto ed utilizzato dal legislatore in materia ambientale è quello del reato di pericolo presunto (o astratto).

In questa sede non si intende addentrarsi nelle sottili distinzioni emerse in dottrina afferenti la problematica dei reati di pericolo presunto e dei reati di pericolo astratto, ma per i limitati confini della presente ricerca basti ricordare che, secondo un’opinione i reati di pericolo presunto sono ipotesi in cui “il legislatore delinea un fatto tipico sul presupposto ch’esso costituisca, nella normalità dei casi, la messa in pericolo di un determinato interesse. Così, ad es., nell’art. 437, comma 1, c.p., la punibilità di <> è sancita, perché, di solito, una tale condotta espone a rischio la vita e l’incolumità personale di quanti si trovano nell’ambiente di lavoro. D’altro canto, la presunzione implicitamente formulata dal legislatore circa il pericolo non può esser contraddetta neppure quando risulti assodato che, in quella specifica situazione, l’interesse protetto non correva alcun rischio rilevante. In pratica, il pericolo si identifica con la ratio della fattispecie incriminatrice.

La rigidità di tale contrapposizione è stata tuttavia giustamente contestata dalla dottrina, che ha osservato come in alcune fattispecie sia bensì necessario un accertamento circa il pericolo, inteso però non come probabile danno di uno o più interessi concretamente determinati, ma solo come potenzialità lesiva generica. Così, ad es., l’art. 440 c.p. punisce la corruzione o l’adulterazione di acque o sostanze alimentari <>; la circostanza che la condotta debba precedere la messa in circolazione dell’acqua o dell’alimento, rende chiaro che la pericolosità in essi determinata, pur dovendo essere effettivamente riscontrata, denota soltanto un’attitudine lesiva prodromica rispetto al pericolo effettivo per la salute di chicchessia. A questa categoria potrebbe allora essere riservata la denominazione, di reati di pericolo astratto, sottolineando così la particolare natura che è per l’appunto <> dal riferimento alla probabilità lesiva di qualunque soggetto coinvolto nella tutela del bene”[4].

Sul piano operativo, come già da altri ben evidenziato, ne deriva che “in virtù dell’utilizzazione di tali modelli, al giudice penale è in linea di principio preclusa la possibilità di verificare in concreto se v’è stata una messa in pericolo al bene giuridico protetto”[5].

Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad utilizzare il modello del reato di pericolo presunto (o astratto), anziché quello del reato di pericolo concreto o, addirittura, di danno “è intuibile: è ben difficile andare a dimostrare, se si utilizza il paradigma del reato di pericolo concreto o del reato di danno, la sussistenza di un rapporto di causalità tra l’azione del singolo soggetto e l’evento…”.

Sul piano teorico, si è dubitato della legittimità costituzionale di tale opzione e, nello specifico, della compatibilità di tale modello con il principio di offensività, soprattutto in riferimento alle difficoltà connesse all’individuazione di un bene giuridico <>, autonomo rispetto ai beni giuridici  c.d. <>, vita ed integrità fisica dei singoli cittadini.

In proposito, va ricordato che un utile contributo al superamento di tale obiezione viene dalla concezione c.d. antropocentrica dell’ambiente che considera la protezione degli ecosistemi come funzionale al soddisfacimento dei bisogni umani[6], concezione che appare più aderente anche alla nozione delineata dal giudice delle leggi che costituisce diritto  vivente e vigente[7].

Tale concezione “è l’unica che consente di instaurare, nell’ottica della c.d. <> , il necessario rapporto fra il bene in oggetto, inteso quale bene <> ed i beni <>, quali la vita e la salute dei cittadini”[8].

Il modello afferente al reato di pericolo presunto consente, come già accennato, una tutela anticipata del bene ambiente in quanto individua la condotta vietata, secondo le ipotesi più ricorrenti, a) nella mancanza del provvedimento di  autorizzazione, b) nella violazione di una ingiunzione della Pubblica Amministrazione, c) nel superamento dei limiti di accettabilità previsti da una fonte sottordinata alla legge penale.

Proprio il costante riferimento del precetto penale alla disciplina amministrativa ha indotto la qualificazione del diritto penale dell’ambiente come normativa a tutela di <>, quali ad es. in materia urbanistica il governo del territorio, in materia di rifiuti la gestione dei rifiuti,  e non di veri e propri beni giuridici.

In dottrina, è stato evidenziato che “la stessa struttura dei modelli di illecito utilizzati sinora può indubbiamente far pensare ad una sorta di <> della norma penale. La prospettiva in discorso non sembra, tuttavia, cogliere in tutta la sua portata la funzione del collegamento tra norma penale e provvedimento amministrativo, Come, infatti, è stato giustamente rilevato, tale collegamento consente un previo bilanciamento tra gli interessi in gioco – cioè le esigenze della produzione da un lato e la tutela dell’ambiente, dall’altro – da cui non consegue che la norma penale tuteli una <> amministrativa, bensì un vero e proprio bene giuridico, l’ambiente, la cui protezione deve tuttavia essere <> con altri interessi, degni anch’essi di rilievo costituzionale, come, del resto, avviene negli altri settori del diritto penale dell’economia”[9].

Detto orientamento è conforme a quello del giudice delle leggi che (in materia di legge <>) ha affermato che “deve ritenersi ammissibile, sul piano costituzionale, la previsione legislativa di reati di mero pericolo, qualora il bene tutelato, per il suo valore – come apprezzato dallo stesso legislatore (e nella specie vi è una espressa considerazione nel testo costituzionale tra i principi fondamentali: art. 9 della Costituzione) – esiga protezione anche da potenziali interventi di manomissione, conseguenti alla mancanza della previa verifica dell’amministrazione mediante intervento abilitativo per determinate attività o condotte;

            che, in altri termini, il previo controllo amministrativo rispetto a determinate attività può essere giustificato per la rilevanza e la natura dell’interesse pubblico in gioco (…) quando il legislatore ritenga imprescindibile la verifica preventiva della compatibilità dell’attività privata con l’interesse pubblico tutelato (principio desumibile dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 in relazione all’art. 82 del d.P.R. 24 luglio 1997, n. 616, come modificato dall’art. 1 del d.-l. 27 giugno 1985, n. 312 nel testo risultante dalla legge di conversione n. 431 del 1985) ”[10].

Rispetto al modello di illecito di cui si discute molte riserve sono state avanzate sotto il profilo della sua adeguatezza in rapporto al principio di legalità in quanto lo schema della <>, usualmente adottato dal nostro legislatore, mal si concilia con il rispetto del principio di determinatezza e di tassatività della regola penale, soprattutto nel caso in cui l’indicazione di alcuni elementi del precetto, raramente secondari o marginali, è demandata ad atti del potere esecutivo[11]o a provvedimenti della Pubblica Amministrazione.

La determinazione delle fattispecie penali risente, quindi, delle <> interpretative che caratterizzano i precetti amministrativi, soprattutto quando il rinvio contenuto nelle norme incriminatrici fa riferimento a prescrizioni e parametri tecnici relativi all’attività d’impresa, di per sè stessi complessi e suscettibili di opzioni non sempre univoche e, per loro natura, in continua evoluzione in corrispondenza del progresso scientifico, tecnologico ed economico.

Da un altro punto di vista è stato evidenziato che il fenomeno cd. della <> si pone in potenziale conflitto con la riserva assoluta di legge tuttavia, è stato osservato, che “la Corte costituzionale, mossa pure da esigenze di <>  del sistema, ha in un certo senso ridimensionato il principio, figlio, nella sua accezione originaria, di una rigida ed ottocentesca separazione dei poteri, ammettendo l’eterointegrazione della norma penale, a condizione, però, che la fonte sottordinata si occupi di aspetti tecnici e che la prima detti quantomeno alla seconda principi e criteri direttivi. Sotto questo profilo, la normativa penale ambientale sembrerebbe non confliggere con il canone della riserva assoluta, atteso che, ad es., i c.d. limiti tabellari non possono non qualificarsi, al pari di ciò che avviene per gli stupefacenti, espressione di <> e che la necessità della previa autorizzazione riguarda un’attività comunque a monte descritta dalla legge penale”[12].

 

I reati di inquinamento e di pericolo concreto e attuale di inquinamento.

 

La breve analisi che precede relativa al modello sanzionatorio dominante in materia di reati ambientale è parsa indispensabile al fine di meglio inquadrare l’illecito penale di cui all’art. 51 bis D. Lgs. n. 22/97, dedicato alla “Bonifica dei siti”.

Tale disposizione prevede che “Chiunque cagiona l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto dall’articolo 17, comma 2, è punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno e con l’ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se non provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all’articolo 17. Si applica la pena dell’arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da lire diecimilioni a lire centomilioni se l’inquinamento è provocato da rifiuti pericolosi……”.

L’ art. 17, comma 2, D. Lgs. n. 22/97, stabilisce che “chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è  tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento. A tal fine…” sono imposti specifici adempimenti al responsabile dell’inquinamento[13].

Secondo il combinato disposto degli artt. 51bis e 17 D. Lgs. n. 22/97, si possono distinguere le seguenti ipotesi: a) chiunque cagiona l’inquinamento; b) chiunque cagiona un pericolo concreto ed attuale di inquinamento. In tali casi, il responsabile viene sanzionato con pena congiunta “se non provvede” alla bonifica secondo il procedimento di cui all’ art. 17. L’obbligo di provvedere agli interventi di bonifica può sorgere anche a seguito di ordinanza sindacale con la quale il responsabile dell’inquinamento viene diffidato a svolgere tali attività[14].

Ai fini dell’individuazione dei comportamenti delineati dalle disposizioni di cui agli artt. 17 e 51 bis D. Lgs. n. 22/97, assume particolare rilievo la nozione sito che riguarda una <>[15].

Il concetto di <> comprende anche le “aree e specchi d’acqua marittimi, lacuali, fluviali e lagunari in concessione, anche in caso di loro dismissioni...”[16].

Il <> è quello che “presenta livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l’ambiente naturale o costruito. Ai fini del presente decreto è inquinato il sito nel quale anche uno solo dei valori di concentrazione delle sostanze inquinanti …”[17] risulta superiore a quelli stabiliti dal regolamento. Da tale definizione appare evidente che è sufficiente il (o il pericolo) superamento  anche di uno solo dei valori - limite stabiliti per le sostanze inquinanti affinchè si perfezioni il comportamento delineato dalla norma incriminatrice.

Per  <> s’intende il <>[18].

Per effetto della novella di cui all’art. 9, comma 4, L. n. 93/2001, che ha introdotto il comma 13 ter nell’art. 17, D. Lgs. n. 22/97, “Gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale previsti dal presente articolo vengono effettuati indipendentemente dalla tipologia, dalle dimensioni e dalle caratteristiche dei siti inquinati nonché dalla natura degli inquinamenti”.

Da quest’ultimo inciso, anche se la disposizione richiede ulteriori approfondimenti in relazione ai contenuti degli allegati annessi al D. M. n. 471/99 che meglio possono chiarire la prima parte della stessa, si può evincere che l’ambito operativo delle disposizioni di cui agli artt. 17 e 51 bis  D. Lgs. n. 22/97 è esteso ai fatti di inquinamento causati non solo da rifiuti ma anche da altre fonti inquinanti, salvo le fattispecie disciplinate dalle altre leggi speciali[19] che dovranno essere coordinate con quella in esame.

Sin dall’entrata in vigore del decreto “Ronchi” la fattispecie in esame è stata oggetto di attenzione e discussione da parte della dottrina[20] al fine individuare il precetto penalmente sanzionato ovvero l’inquadramento dogmatico della norma incidente sulla determinazione del momento in cui il reato si perfeziona e sugli altri effetti penali ad esso consequenziali.

In proposito, si può affermare che due indirizzi hanno raccolto l’adesione di maggior parte degli autori.

 

Reato di cui all’art. 51 bis D. Lgs. n. 22/97 e orientamenti della dottrina.

 

Secondo un indirizzo “l’art. 51 bis - al pari dell’originario 50, comma 2 - prevede una fattispecie di reato omissiva propria, consistente nella mancata bonifica, da eseguirsi nell’osservanza del procedimento di cui all’ art. 17, comma 2, lett. a, b e c; laddove il superamento o il pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti di accettabilità, cagionato anche senza colpa, in quanto imputabile a titolo di responsabilità oggettiva, costituisce il necessario presupposto della condotta, da cui nasce l’azione doverosa  (id est: la bonifica), la cui omissione, imputabile a titolo di dolo o colpa, è sanzionata con la pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda. Dunque, una fattispecie di pericolo presunto. In altre parole, riteniamo, che il solo evento di aver cagionato l’ inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ai sensi dell’art. 17, comma 2, non possa ritenersi sufficiente ad integrare la condotta di reato, ma che ne costituisca solo un prius, un presupposto (che deve essere conosciuto dall’agente), ossia una situazione di fatto, richiesta dalla legge, perchè nasca l’obbligo giuridico di agire, la cui violazione è sanzionata dall’art. 51 bis. Il reato, pertanto, potrà dirsi consumato solo in quanto il soggetto obbligato abbia omesso, dolosamente o colposamente, di adempiere a ciascuno degli adempimenti richiesti dall’art. 17, comma 2, ai fini della bonifica.....”[21].

Appare utile precisare che i presupposti della condotta (lato sensu “presupposti del reato”) sono “antecedenti logico-giuridici della condotta, inseriti nella fattispecie incriminatrice, e tali da condizionarne la tipicità: così, ad. es., il precedente matrimonio nel delitto di bigamia (art. 556 comma 1 c.p.)…..Si tratta di <> della condotta, perché debbono preesistere ad essa, e non sono peraltro da essa dipendenti (il fatto di aver contratto un primo matrimonio non è certo determinato dal fatto di averne contratto un secondo); ma tale <> ha un valore essenzialmente <>, nel senso che i presupposti debbono effettivamente sussistere al momento in cui la condotta è tenuta: in termini funzionali essi sono dunque <>”[22].

 

Dopo aver esaminato comparativamente le fattispecie di cui agli artt. 51 bis, 1° comma, D. Lgs. n. 22/97 e 58, commi 1 e 4, D. Lgs. n. 152/99, un illustre Autore ha concluso che entrambe puniscono l’inosservanza di obblighi di bonifica e ripristino ambientale[23] e che “…la particolarità di queste fattispecie criminose deriva dal fatto che:

a) presuppongono un inquinamento o un pericolo concreto di inquinamento già realizzato. Con la rilevante differenza, tuttavia, che nell’ipotesi di cui all’art. 51 bis d. lgs. n. 22/1997 l’inquinamento è normativamente considerato quale superamento dei limiti cui al comma 1, lett. a), mentre nella fattispecie di cui all’art. 58, d. lgs. n. 152/1999 si fa riferimento ad un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, o, genericamente, ad un pericolo concreto e attuale di inquinamento ambientale”.

Criticando la tecnica normativa utilizzata dal legislatore l’Autore citato rileva che appare poco “sensato, con riferimento alla criminalità dì impresa, il predisporre una sanzione penale per l’inosservanza di obblighi di fare in un sistema legato, anche per principio costituzionale, alla responsabilità individuale. D’altronde, sarebbe impraticabile – restando ancorati al principio societas delinquere non potest – anche una soluzione che vedesse l’obbligo ripristinatorio come vera e propria sanziona penale principale o accessoria: tale pena verrebbe, infatti, ad imporre un obbligo praticamente inesigibile”[24].

 

Per il secondo orientamento il reato di cui all’art. 51 bis si configura come reato di  evento in cui la condotta si perfeziona con l’aver cagionato l’inquinamento o il pericolo concreto ed attuale di inquinamento, mentre l’omessa bonifica costituisce una causa di non punibilità[25].

Per questa opzione interpretativa la fattispecie di cui all’art. 51 bis imposta la condotta “penalmente rilevante, con l’espressione <>.

Epperciò, rimanda, direttamente alla norma – principio (sostanziale), fissata dalla prima parte del medesimo comma 2, e, quindi, alla fattispecie del <  il superamento dei limiti … ovvero determina un pericolo concreto ed attuale …  ecc., non esaurendosi nell’identificazione del precetto – penalmente presidiato – del <> ….  ed integrando, in termini più comprensivi, la prima parte del precetto – innanzi riportata e commentata – con l’espressione: << ….. se non provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all’art. 17>>.

Non è dato, perciò, leggere la norma, assumendo che: <bis>>.

Una simile impostazione è in sé contraddittoria sotto due profili:

a)      perché esordisce con l’affermazione <> che <> i siti inquinati devono essere sottoposti a bonifica…..

b)      perché cerca di rettificare la prima affermazione con il riferimento preciso al <ex art. 17, comma 2), ma tale richiamo ha, in realtà, un valore nullo, ai fini interpretativi dell’art. 51- bis  - ma allora perché inutilmente richiamarlo? – in quanto la norma incriminatrice è limitata (…) al corretto adempimento dell’obbligo di bonifica…..

In definitiva, a noi sembra che non sia consentito all’interprete  spezzare il vincolo logico-giuridico esistente tra la prima parte dell’art. 51-bis e la norma-principio dell’art. 17, comma 2, che identificano entrambi la stessa condotta, giuridicamente rilevante, ai fini civili, amministrativi e penali, secondo una impostazione normativa unitaria e sistematica, pur con la differenziazione dell’elemento soggettivo richiesto, ai fini penali, dall’art. 51-bis, risultante dalla stessa lettera di quest’ultimo”[26].

Un chiaro Autore ponendo  a confronto la pregressa fattispecie di cui all’art. 50, comma 2, D. Lgs. n. 22/97[27], con l’attuale 51 bis osserva in ordine alla prima che “Si trattava, dunque, di un reato omissivo a soggettività ristretta che aveva come presupposto della punibilità del fatto il superamento dei limiti di contaminazione di cui all’art. 17, lett. a) che a sua volta, per la determinazione degli standards, rinviava al regolamento di esecuzione. Secondo questa formulazione legislativa, la norma penale era applicabile anche a fatti pregressi di inquinamento: l’obbligo di bonifica penalmente sanzionato operava anche, ad esempio, nell’ipotesi di discariche abusive dismesse in data anteriore al Ronchi ma pur sempre fonti di inquinamento secondo i criteri di cui all’art. 17. La fattispecie di disobbedienza, appena indicata, aveva come unico presupposto, infatti, l'effettiva conoscenza dell’inquinamento pregresso del sito industriale anche se l’inquinamento fosse stato semplicemente <> dagli attuali destinatari”[28].

Lo stesso Autore dopo aver sottolineato le difficoltà interpretative afferenti la struttura di tale reato rileva che “Con l’introduzione dell’art. 51 bis (ad opera del decreto Ronchi bis) il legislatore, melius re pensa, sembra voler ovviare a queste difficoltà mutando la struttura del reato in questione: da reato d’obbligo a reato di offesa. La condotta causale consistente nel cagionare l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento normativamente fissato (art. 17, commi 1 e 2) entra a far parte del precetto penale e da mero presupposto del reato diventa, invece, condotta tipica. L’art. 51 bis intende punire <> precisando, con il rinvio al comma 2 dell’art. 17, che per inquinamento si intende il superamento (o il pericolo concreto ed attuale di superamento) dei limiti di contaminazione di cui all’art. 17, commi 2 e 1, che rinviano per la loro determinazione al regolamento di esecuzione…”.

 

La giurisprudenza della Corte di Cassazione.

 

Il giudice di legittimità condividendo l’inquadramento dogmatico per primo esaminato classifica la fattispecie di cui agli artt. 17 e 51 bis, D. Lgs. n. 22/97 “come reato di pericolo presunto che si consuma ove il soggetto non proceda al corretto adempimento dell’obbligo di bonifica con le cadenze procedimentalizzate dall’art. 17”[29].

Tale qualificazione appare “più coerente con il sistema complessivo, delineato dall’art. 17 e soprattutto dal secondo comma, con i principi comunitari e nazionali in tema di danno ambientale e di centralità, in materia di rifiuti, della bonifica e messa in sicurezza dei siti, con la pregressa disposizione contemplata all’art. 50 secondo comma, di cui costituisce esplicita specificazione di una delle due tesi sostenute in dottrina nel vigore della predetta, e con analoga disposizione (art. 58 quarto comma d. lvo n. 152 del 1999), contenuta nella normativa di un settore affine (quello dell’inquinamento idrico) in una successiva disciplina, che ricalca quella dell’art. 51 bis in esame, dovendosi escludere dalla condotta cioè dall’elemento oggettivo del reato l’attività che ha cagionato l’inquinamento, che potrà anche essere accidentale senza violare l’art. 27 Cost., in quanto la stessa integra soltanto il fatto originante gli obblighi di bonifica e non il precetto citato.

L’interpretazione seguita si presenta, poi, più rispondente ai principi di offensività e di proporzionalità della pena, perché, attraverso il rafforzamento penalistico dell’effettività delle misure reintegratorie del bene offeso, si fa assumere all’interesse pubblico alla riparazione una connotazione particolare, che permea di sé il precetto e diviene esso stesso bene giuridico protetto.

L’esegesi avanzata è, infine, più consona alla limitatezza delle risorse ambientali ed all’irreversibilità di alcuni danni, a volte incommensurabili, ed ai connotati propri del diritto penale ambientale, nel quale l’apprestamento di una serie di reati di pericolo presunto “di scopo” e di un modello di tutela c.d. ingiunzionale risponde in via immediata alla tutela dell’ambiente”.

Per quanto riguarda i profili dell’operatività della disposizione in esame la Suprema Corte osserva che “in considerazione dell’inquadramento dell’inquinamento o del pericolo dello stesso fra i presupposti di fatto, la norma di cui all’art. 51 bis d. lvo cit.  si applicherà anche a situazioni verificatesi in epoca anteriore all’emanazione del regolamento, non solo nell’ipotesi in cui il soggetto responsabile venga diffidato dal Comune ai sensi dell’art. 17 cit..

Infatti, dall’accentramento del disvalore delle norme previste dagli artt. 51 bis e 17 d. lvo cit. all’omissione dell’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentalizzate dall’art. 17, il cui adempimento di per sé integra la contravvenzione in parola, ne deriva che i presupposti del reato - al contrario degli elementi essenziali – assumono rilevanza, ai fini della colpevolezza, solo in quanto siano noti all’agente, eppertanto, ciò che rileva è che essi devono effettivamente sussistere, preesistere od essere concomitanti alla condotta di reato”.

Sul punto, a fronte delle censure mosse a questa opzione per inosservanza del principio di irretroattività  della norma penale[30] va precisato che l’inquinamento normativamente delineato dall’art. 17, comma 2, D. Lgs. n. 22/97, può configurarsi come valido presupposto della condotta solo ed esclusivamente nel momento in cui detto <> è riconosciuto come tale dalla legislazione vigente, ovvero nel momento in cui è entrato in vigore il regolamento individuante i limiti di accettabilità (16.12.1999).

Esemplificando, se un sito in cui è ubicato un deposito di rifiuti a seguito di processi naturali o antropici di decontaminazione non presenta violazioni ai valori  limite del regolamento (ovviamente dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo), quel fatto non è produttivo di alcun obbligo giuridico afferente gli interventi di bonifica proprio perché quell’accadimento si è esaurito nel momento in cui non rivestiva alcuna valenza per l’ordinamento giuridico in ordine agli interventi de quo.

Per ipotesi anche se  all’atto del deposito il suolo presentava valori superiori a quelli del D.M. n. 471/99 ma gli stessi non sono riscontrabili nella vigenza del regolamento, al responsabile non sarà imputabile alcun obbligo di bonifica proprio perché quel fatto si è esaurito prima di assumere la qualificazione giuridica di presupposto del reato e, cioè, di inquinamento normativamente definito.

Nel caso in cui, invece, il sito risulta contaminato successivamente all’entrata in  vigore del regolamento l’inquinamento non è “pregresso”  bensì attuale, in itinere ed integrante legittimamente a tutti gli effetti il presupposto di fatto fonte degli obblighi di bonifica e ripristino ambientale.

A tali conclusioni giunge anche la sentenza de qua come è agevole desumere dai contenuti delle specifiche valutazioni in fatto demandate al giudice a quo circa la sussistenza attuale del pericolo di superamento dei valori limite di cui al D.M. n. 471/199 in relazione al periodo intercorrente dal 16 dicembre 1999 al 14 febbraio 2000, data del sequestro.

 

Considerazioni conclusive.

 

Com’è noto, l’utilizzo delle prescritte procedure di messa in sicurezza, bonifica e ripristino è consentito anche ad iniziativa degli interessati[31], che possono essere i proprietari o titolari di diritti reali di godimento sui fondi inquinati estranei  alla genesi del fenomeno di contaminazione[32], oppure anche i responsabili dell’inquinamento in atto[33].

In particolare, per quest’ultimi il termine per comunicare agli enti pubblici competenti la situazione di inquinamento in atto e gli interventi di mesa in sicurezza d’emergenza adottati è scaduto il 31 marzo 2001[34].

Tale disposizione è stata accolta con favore da più parti in quanto volta a facilitare e promuovere la realizzazione delle  attività di recupero dei siti contaminati nell’ambito di rapporti di cooperazione tra i soggetti interessati e la Pubblica Amministrazione  in forma non contenziosa.  

Da subito, tuttavia, è stato posto in evidenza che tale comunicazione espone i soggetti agenti al rischio dell’autoincriminazione per i reati di cui si discute oltre che per gli altri previsti dalla normativa a tutela dell’ecosistema in contrasto con il principio nemo se detegere[35].

Un approccio normativo volto alla soluzione di tale problematica è stato prospettato con la legge finanziaria per il 2001[36] che introduce una causa di non punibilità per i reati “direttamente connessi all'inquinamento del sito posti in essere anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 22 del 1997 che siano accertati a seguito dell'attività svolta, su notifica dell'interessato, ai sensi dell'articolo 17 del medesimo decreto legislativo n. 22 del 1997, e successive modificazioni….”; detta scriminante non è applicabile quando i fatti di inquinamento sono stati commessi a titolo di dolo o comunque nell'ambito di attività criminali organizzate.

Tale soluzione appare inutiliter data.

Detta causa di non punibilità riguarda i reati consumati antecedentemente all’entrata in vigore del decreto “Ronchi” (cioè prima del 01.03.1997) e, quindi, per quanto riguarda la fattispecie di cui all’art. 51 bis, secondo la teoria del reato con evento di danno il problema comunque non si pone perché la fattispecie si perfeziona con il (o pericolo di) superamento dei valori-limite dopo l’entrata in vigore del regolamento (16.12.1999) e, conseguentemente, l’ipotesi è pacificamente esclusa dalla previsione-sanatoria  de qua; analogamente, per quanto concerne la teoria del reato omissivo, se il presupposto di fatto, ovvero l’inquinamento nei termini normativamente definiti, non è attuale al 16.12.1999 non origina in alcun modo gli obblighi di  bonifica e, quindi, tantomeno detti obblighi potevano ritenersi sussistenti o, addirittura, inosservati ancor prima di sorgere, cioè antecedentemente al 16.12.1999.

Per quanto riguarda le altre violazioni alla normativa ambientale di natura contravvenzionale le stesse sono ampiamente prescritte ancor prima dell’iscrizione al Registro notizie di reato nel caso in cui detta iscrizione sia conseguente, come pare dovrebbe accadere nel caso di specie, alla cd. autodenuncia scaduta il 31.03.2001.

Infatti, il termine prescrizionale ordinario triennale (previsto per le contravvenzioni) è scaduto ancor prima del 31.03.2001, ovvero il 01.03.2001, cioè dopo tre anni dall’entrata in vigore del decreto “Ronchi”,  e, quindi, non si pone neppure per l’Autorità giudiziaria il problema di porre in essere eventuali atti interruttivi della prescrizione in quanto la fattispecie estintiva si è già perfezionata.



[1]Articolo pubblicato in Ambiente Consulenza, 2001, n. 9, p. 843.

[2] V. S. Panagia, La tutela dell’ambiente naturale nel diritto penale d’impresa, Padova, 1993, p. 2 e segg.. L’Autore in nota (v. nota n. 3)  rileva che “La dottrina (v. per tutti Patrono, Inquinamento idrico da insediamenti produttivi e tutela penale dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.-dic. 1989, Padova, 1027)  preferisce parlare di reati di disobbedienza che caratterizzano il cosiddetto diritto penale della volontà. Tenuto conto della specificità delle fattispecie penali ambientali, a noi sembra che rilevi non tanto la mera violazione di un dovere di obbedienza, quanto piuttosto la violazione di un obbligo che fa parte di un rapporto giuridico complesso intercorrente fra privato e pubblica amministrazione, caratterizzato anche da condotte materiali quali lo sversamento, lo scarico, le emissioni, ecc. che però non assumono autonoma rilevanza sul piano della fattispecie penale ove rileva invece la violazione dell’obbligo che tipicizza il rapporto funzionale intercorrente fra pubblica amministrazione e imprenditore. Si punisce insomma non lo scarico o l’emissione in sé, ma la violazione dell’obbligo di munirsi di una determinata autorizzazione, permesso, domanda, relativa ad una determinata condotta positiva. Contenuto essenziale del precetto è dunque l’obbligo e ciò particolarmente rileva in tema di errore. L’errore sull’obbligo di fornirsi dell’autorizzazione concretizzerà, infatti, un errore sul comando cioè un errore sul precetto penale….”.

[3] V. M. Catenacci, <> e <> oggetto di tutela nella legge <> sull’inquinamento delle acque, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.-dic. 1996, Padova, 1219. L’Autore sul punto richiama l’analisi di R. Bajno, Ambiente (tutela dell’) nel diritto penale, in Dig. disc. pen. I, Torino, 1987, 121, che a proposito della legge <>, notava:<  pericolosi, giacchè può ben accadere che senza permesso si scarichino sostanze prive di una sia pur astratta attitudine ad inquinare, (sì che) la tutela penale finisce con l’apparire incentrata ancor più che sulla fase dell’astratta emssa in pericolo del bene ambientale, sull’esigenza meramente formale della previa autorizzazione>>.

[4] Cfr. T. Padovani, Diritto penale, op. cit., p. 170 e segg. Contra, F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1982, p. 222, per cui “Il concetto del pericolo astratto, infatti, è inammissibile,perché, se il pericolo è probabilità di un evento temuto, non si può concepire una species di pericolo in cui questa probabilità manchi. Il pericolo in conseguenza è sempre concreto. Ne deriva che nei casi in cui si ravvisa un pericolo astratto, in realtà non si ha un forma speciale di pericolo, ma una presunzione di pericolo, la quale non ammette prova in contrario. La distinzione, quindi, va sostituita con l’altra fra reati di pericolo concreto e reati di pericolo presunto”.

[5]V. A. Manna, Le tecniche penalistiche di tutela dell’ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.-dic. 1997, Padova, p. 667.

[6] V. G. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, 1996, Padova, p. 41 e segg., ed ivi ulteriori richiami. Secondo la concezione c.d. ecocentrica, invece, i cicli biologici di  acque, aria e suolo costituiscono beni finali di tutela e, dunque, ogni loro alterazione configura un danno all’ambiente; “una concezione insomma che, confondendo tutela dell’ambiente e tutela della natura, considera la protezione degli ecosistemi come fine a sé stessa, e non invece di volta in volta funzionale al soddisfacimento di bisogni umani”.  

[7] Secondo la ricostruzione del giudice delle leggi, “l’ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità.... L’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche od estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat  naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (art. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto. Vi sono, poi, le norme ordinarie che, in attuazione di detti precetti, disciplinano ed assicurano il godimento collettivo ed individuale del bene ai consociati; ne assicurano la tutela imponendo a coloro che lo hanno in cura, specifici obblighi di vigilanza e di interventi. Sanzioni penali, civili ed amministrative rendono la tutela concreta ed efficiente. L’ambiente è, quindi, un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme”,cfr. C.Cost. sent. n. 641, 30.12.1987, in Foro it. 1988, I, c. 694, con nota di F. Giampietro, Il danno all’ambiente innanzi alla Corte costituzionale. V. anche nello stesso senso, C. cost. sent. n. 210/1987 , in Riv. Giur. Amb., con nota Borgonovo Re, e infra, C. Cost. ord. n. 158, 04.05.1998.

In dottrina è stato sottolineato che “Un significato autonomo ed unitario della nozione di ambiente (e di quella,  relativa e conseguente, di tutela dell’ambiente) può essere trovato solo accogliendo, con tutti i limiti che ne conseguono, la prospettiva ecologica: <> allora va inteso come equilibrio ecologico, di volta in volta, della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento; <> va intesa come tutela dell’equilibrio ecologico della biosfera o degli ecosistemi considerati” (v. B. Caravita, Diritto pubblico dell’ambiente, 1990, Bologna,  p. 53).

[8] V. A. Manna, Realtà e prospettive della tutela penale dell’ambiente in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., ott.- dic. 1998, Padova, 852 e segg.

[9] V. A Manna, op. loc. cit. p. 853. Contra,, v. P. Patrono, I reati in materia di ambiente, in Riv. trim. dir. pen. econ., lug.- set. 2000, Padova, 670 e segg., nello specifico, p. 675 e segg. , che afferma: “La normativa in materia di inquinamento dà, quindi, la prevalenza al concetto di ambiente naturale come insieme delle componenti naturali (aria, acqua, suolo) che lo costituiscono ma non lo limita, come obiettivo di tutela, alla integrità di tali componenti. Così come, guardando agli obiettivi di tutela espressamente enunciati dal legislatore, e, di norma, all’ordine di tale enunciazione, si può sicuramente affermare che accanto all’ambiente naturale la prevalenza viene data alla salute umana, ma poi, si pongono accanto a tali interessi, altri, di sicura minore importanza, da perseguire. E, forse, nessuno dei beni cui espressamente viene finalizzata la tutela penale trova adeguata difesa attraverso l’utilizzo della sanzione penale.

La mancata scelta legislativa del bene da tutelare attraverso le singole fattispecie criminose – una sorta di formale plurioffensività disomogenea – comporta necessariamente la predisposizione di una tecnica di tutela penale anticipata che prescinde- anche a livello sanzionatorio – dall’offesa a un concreto bene giuridico: tutela di funzioni e non di beni. Si appiattisce la sanzione verso il basso e si creano fattispecie esclusivamente contravvenzionali senza predisporre fattispecie di reato che colpiscano adeguatamente l’eventuale illecito sostanziale realizzato.

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