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Per le “piazzole ecologiche” occorre l’autorizzazione?

di Vincenzo PAONE

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articolo pubblicato  su Ambiente & Sviluppo IPSOA n. 6-2006

Il quesito che ci poniamo ha la sua ragion d’essere a seguito di recenti (e conformi) decisioni della Cassazione ([1]) in cui si è stabilito che le “ecopiazzole” costituiscono una fase di gestione dei rifiuti – e cioè lo stoccaggio - soggetta perciò ad autorizzazione in forza del d.leg. 22/97.

Dell’argomento si è già occupata questa Rivista ([2]) e quindi limiteremo il presente contributo all’approfondimento di alcuni profili lasciati più in ombra.

Due premesse sono necessarie.

In primo luogo, non vi è alcun dubbio che la realizzazione di un'area adibita a deposito di rifiuti (sia urbani sia pericolosi) e lo svolgimento conseguente di un attività sistematica, reiterata e ripetuta nel tempo di gestione dei rifiuti, caratterizzata da connotazioni organizzative (anche attraverso l'apposizione di cassonetti all'interno dell'area) e produttiva di un tendenziale degrado dello stato dei luoghi per effetto della presenza di materiali destinati all'abbandono, integra il reato di cui all'art. 51, 3° comma (discarica abusiva): questo è l’insegnamento di Cass. 20 gennaio 2005, M., n. 17414 ([3]).

In questa vicenda, l’imputato aveva anche eccepito l’inconfigurabilità del reato in quanto i rifiuti ammassati dovevano essere considerati come propri dell'ente comunale sicché si configurava, al più, un'attività di gestione di "rifiuti propri", rientrante nella previsione del 2° (e non del 3°) comma dell'art. 51.

La Cassazione ha liquidato facilmente questa doglianza osservando che il riferimento alla nozione di rifiuti propri è stato eliminato dalla novella di cui all'art. 1, comma 24, della legge n. 426/1998 ([4]).

Aggiungiamo a questa giusta obiezione, che non solo non è fondato che il Comune possa essere considerato “produttore” dei rifiuti, presupposto per qualificare gli stessi come “propri”, giacchè è evidente che produttori dei medesimi sono coloro che se ne sono disfatti, ma il problema della qualificazione dei rifiuti ammassati era in ogni caso irrilevante in quanto l’art. 51, 3° comma, nel punire chi realizzi una discarica abusiva, non distingue affatto tra rifiuti propri e di terzi.

Il riferimento alla qualificazione dei rifiuti (se propri o di terzi) sta alla base del motivo per cui non si può asserire che le ecopiazzole rientrino nello schema del “deposito temporaneo” in quanto il luogo di produzione dei rifiuti non è certo la “piazzola ecologica” dove gli abitanti del comune conferiscono i propri rifiuti!

Aderiamo perciò senza difficoltà alle conclusioni della recente giurisprudenza in argomento. E questa era la seconda premessa prima di esporre la nostra opinione sulla questione delle ecopiazzole.

 

La Cassazione non convince

Nutriamo ampie riserve sulla tesi principale sostenuta dalla Corte suprema ([5]) e cioè che occorra l’autorizzazione perchè, in assenza di specifica norma derogatoria, “la competenza dei comuni a curare la gestione dei rifiuti urbani e assimilati e a disciplinarla con appositi regolamenti comunali ai sensi dell'art. 21 d.leg. n. 22 non configura alcuna deroga alla disciplina di cui ai capi IV e V del titolo I dello stesso decreto: in particolare non esonera gli stessi comuni che intraprendono operazioni di smaltimento o di recupero, anche nella forma incoativa dello stoccaggio, dall'obbligo di munirsi del necessario titolo abilitativo”.

A parte quanto osserveremo più avanti in termini più generali, un rilievo specifico va mosso alla sentenza Z. in si è escluso che l’ecopiazzola costituisca una mera raccolta di rifiuti sostenendo che “per raccolta si intende l'operazione di prelievo, di cernita e di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto [art. 6, comma 1, lett. e)], sicchè essa è necessariamente effettuata nel luogo di produzione dei rifiuti”.

Questa perentoria affermazione, a nostro parere, non sembra supportata dal testo della disposizione invocata (e neppure dall’art. 1 della direttiva 75/442 che definisce la "raccolta" come l'operazione di raccolta, di cernita e/o di raggruppamento dei rifiuti per il loro trasporto) perché non vi sono elementi per asserire che il concetto di raggruppamento dei rifiuti, richiamato nella citata norma, vada limitato alla sola operazione di ritiro dei rifiuti presso i singoli produttori.

Ne deriva che nella “raccolta” dei rifiuti può rientrare anche l’attività svolta mediante il loro conferimento (e successivo stazionamento) in un determinato luogo a ciò deputato.

Un riscontro a favore di questa interpretazione si rinviene nel decreto sui rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche: infatti, l’art. 3 d.lg. 25 luglio 2005 n. 151, nel definire i centri di raccolta dei RAEE, adotta questa nozione: “spazi, locali e strutture per la raccolta separata e il deposito temporaneo di RAEE predisposti dalla pubblica amministrazione o su base volontaria da privati”, e nel definire la “raccolta separata” stabilisce che si tratta di “operazioni di conferimento e di raggruppamento in frazioni merceologicamente omogenee dei RAEE presso i centri di raccolta”.

Affrontando ora la problematica in termini più generali, ricordiamo che da tempo è stato chiarito che il diritto di privativa non attribuisce al comune la potestà di esercitare liberamente qualsiasi attività afferente la gestione dei rifiuti: le sezioni unite 28 febbraio 1989, Porto ([6]), chiamate a pronunciarsi sull’obbligo di autorizzazione anche per le discariche comunali, hanno infatti concluso che “la contrapposizione «autorizzazione amministrativa-adempimento di un obbligo», è impropriamente configurata nella specie, dal momento che l’obbligo del comune di provvedere allo smaltimento dei rifiuti urbani (art. 3 d.p.r. 915/82) non contrasta con l’obbligo di richiedere autorizzazione regionale (art. 6), ove intenda provvedervi a mezzo discarica, né quell’obbligo di smaltimento ricomprende anche l’impianto e la gestione di una discarica e dunque un’implicita esenzione dal provvedimento autorizzativo”.

La vicenda all’esame della Corte non richiedeva di pronunciarsi sulla diversa ipotesi di gestione degli “impianti di smaltimento dei rifiuti urbani” (così recitava la lett. c) e d) dell’art. 6) da parte del comune, ma ci pare evidente che, essendo identico il regime cui erano sottoposti (nel citato decreto) le discariche e gli altri “impianti di innocuizzazione e di eliminazione”, era perfettamente logico ritenere che l’autorizzazione fosse necessaria anche per svolgere attività di smaltimento dei rifiuti a mezzo impianti di trattamento che, al pari della discarica, rappresentano un concreto pericolo per la tutela dell’ambiente.

Il ragionamento svolto dalla Corte Suprema non solo è ancora attuale, ma soprattutto va condiviso interamente: infatti, nella sentenza Porto si legge che “la regione, nel rilasciare l’autorizzazione, esercita il suo potere di vigilanza e di controllo, attribuitole dalla legge in materia ed in particolare in tema di quantità, struttura, localizzazione, funzionamento, innocuità, miglioramento, eliminazione delle discariche, controllo che sarebbe frustrato se taluni soggetti, sia pure a qualificazione pubblica come i sindaci dei comuni, potessero autonomamente provvedere all’impianto ed alla gestione di discariche, con le immaginabili possibili conseguenze di sovrapposizione, distorsioni, confusioni, inquinamenti, deturpazioni, nell’ottica dell’area operativa propria della regione, che deve agire sulla base di un programma organico ed unitario per le dichiarate finalità d’interesse pubblico”.

Se questa dunque è la ratio della normativa sui rifiuti, ad essa occorre rifarsi per interpretare la disciplina contenuta nel d.leg. 22/97 riproduttiva, in larga massima, di quella emanata nel 1982 ed analizzata dalle sezioni unite.

 

Qualche precedente della Cassazione in materia

A quanto ci consta, la problematica qui in esame, dopo la sentenza del 1989, è stata affrontata raramente e, comunque, in modo alquanto superficiale.

Infatti, Cass. 17 giugno 1992, Amabile, ([7]), che ha discusso il caso in cui un comune effettuava la concentrazione dei rifiuti prodotti sul suo territorio in una determinata area, ha ritenuto che nell'accezione “smaltimento dei rifiuti urbani e speciali” vadano ricomprese le varie fasi (tra cui il trasporto e lo stoccaggio provvisorio) scandite dall'art. 16 d.p.r. n. 915 per ognuna delle quali sono richieste altrettante autorizzazioni.

La pronuncia suscita però notevole perplessità perché l’art. 16 d.p.r. n. 915 - chiamato in causa - concerne i rifiuti tossici e nocivi, mentre in quella fattispecie si discuteva di rifiuti urbani per i quali non era prevista analoga rigorosa disciplina. Nè la Cassazione ha spiegato perchè la fase operativa, denominata con il termine “concentrazione”, non potesse ritenersi compresa nell’attività di raccolta dei rifiuti urbani oggetto di privativa comunale e quindi esentata dall’obbligo di autorizzazione.

Nella successiva sentenza del 26 ottobre 2001, Lanfranconi, ([8]), la Corte è stata dell’avviso che la temporanea conservazione dei rifiuti all’interno di una piazzola per la raccolta differenziata ([9]) non fosse soggetta ad autorizzazione ai sensi della l. reg. Lombardia 1º luglio 1993 n. 21. In questa decisione, tuttavia, non troviamo alcun particolare approfondimento della questione perché la Cassazione, annullando la sentenza impugnata per carenza di motivazione sul punto decisivo se la condotta attribuita all'imputato potesse farsi effettivamente rientrare nella nozione di conservazione temporanea di rifiuti all'interno di una piazzola per la raccolta differenziata ai sensi della legislazione regionale, non ha enunciato una posizione esplicita sul concetto di ecopiazzola.

 

Interviene anche il Consiglio di Stato

Sull’argomento merita invece di essere debitamente segnalata la sentenza del Consiglio di Stato 17 febbraio 2004 n. 609 ([10]).

Preliminarmente, la sentenza ha chiarito che “Se è vero che nella normativa vigente non appare la formula, né, quindi, la definizione di “area ecologica”...è altresì vero: a) tanto che una formula sufficientemente simile (isola ecologica) è utilizzata nell’art. 9, comma 3, del d.p.r. 27 aprile 1999, n. 158, per designare i luoghi dove è “attivata” la raccolta differenziata dei rifiuti che può dar adito ad agevolazioni tariffarie; b) quanto che se ne dà sufficiente descrizione nel provvedimento impugnato, considerato che riguarda l’apprestamento di un’area per la raccolta differenziata dei rifiuti; c) quanto che il citato art. 6 del d. lgs. n. 22/1997, alla lettera e) del comma 1, inscrive la fase della raccolta differenziata in quella della raccolta in generale, e dunque prima che si dia luogo al trasporto, ma altresì, e principalmente, prima che si proceda allo smaltimento o al recupero dei rifiuti”.

Nel merito, i giudici amministrativi hanno osservato che “Lo smaltimento, secondo lo stesso art. 6 citato, consta delle operazioni elencate nell’allegato B al decreto legislativo. Sono tutte operazioni che concernono il trattamento finale o conclusivo dei rifiuti (v. le voci dalla D 1 alla D 14). Il deposito preliminare, poi, contemplato nella voce D 15, è definito come quello che si colloca, in sequenza temporale, “prima delle operazioni di cui ai punti” precedenti. E, perciò, dopo la fase del trasporto, che, nel caso in esame, vale a dire della raccolta differenziata, non vi è stata ancora. Il recupero, sempre secondo la stessa norma, consiste in una delle attività elencate nell’allegato C. Sono tutte operazioni che si traducono in una nuova utilizzazione dei rifiuti o nella loro rigenerazione o nel loro “riciclo”: si vedano anche le definizioni che sono date nell’art. 4 del decreto legislativo. Il senso della relazione riportato dallo stesso T.A.R. non consente di affermare che la raccolta e la separazione dei rifiuti, previste nell’area “ecologica” in discussione, si atteggi come attività di recupero dei rifiuti stessi, quale è definita dal testo normativo. Ne segue che si mostra fondata la tesi principale dell’appello, con la quale si sostiene che si è di fronte, unicamente, ad attività di raccolta, con pesatura e raggruppamento (o separazione) dei vari tipi di rifiuto conferiti dai cittadini. Ne deriva che non può essere condiviso, perciò, l’accoglimento del secondo motivo del ricorso introduttivo (il primo motivo è stato respinto), circa la necessità di seguire la procedura di valutazione di impatto ambientale, prescritta per gli impianti di smaltimento e di recupero”.

 

Conclusioni.

Per verificare se la gestione della struttura denominata genericamente ecopiazzola sia soggetta ad autorizzazione o sia liberamente esercitabile in regime di privativa ex art. 21 è dunque determinante stabilire la natura delle operazioni in concreto svolte dall’ente comunale.

Se l’attività che si svolge nell’ecopiazzola si limita al raggruppamento dei rifiuti, alla loro cernita – eventualmente come attività complementare della raccolta differenziata – e al loro provvisorio stazionamento in loco in attesa del ritiro da parte di altri soggetti (in funzione di successive operazioni di smaltimento o recupero), anche se obiettivamente ci troviamo in presenza di uno “stoccaggio”, nondimeno l’autorizzazione non deve essere richiesta ([11]) perchè quell’attività è strutturalmente e logicamente connessa alla fase della raccolta dei rifiuti e quindi rappresenta una modalità di effettuazione di un servizio obbligatorio per il comune.

E’ poi rispettata la ratio di tutela della normativa sui rifiuti perchè, nell’ipotesi descritta, non vi sono profili di pericolosità per l’ambiente maggiori di quelli derivanti da un sistema di raccolta dei rifiuti effettuato con il loro prelievo diretto presso il luogo di produzione e con il trasporto all’impianto deputato all’esercizio delle operazioni descritte nell’allegato B o C del d.leg. 22/97. O maggiori di quelli derivanti da una modalità del servizio di raccolta basato sulla predisposizione di appositi “cassonetti” installati lungo le strade per consentire il conferimento dei rifiuti (anche in forma differenziata) da parte dei cittadini ([12]).

Resta invece fermo che la gestione di impianti, destinati all’effettuazione di più o meno complesse operazioni di trattamento dei rifiuti, installati all’interno delle cd. ecopiazzole fa scattare l’obbligo del rispetto di tutte le norme del decreto Ronchi.



[1] V. Cass. 21 aprile 2005, Z., 27 giugno 2005, R., e da ultimo Cass. 26 ottobre 2005, M., n. 45084 (L’attività svolta nelle c.d. ecopiazzole non può qualificarsi, per difetto dei presupposti di legge, come “deposito temporaneo” trattandosi, invece, di stoccaggio /sub specie /di deposito preliminare di rifiuti speciali e, quindi, di una fase di smaltimento degli stessi, successiva al trasporto dal luogo di produzione, come tale soggetta alle procedure autorizzatorie previste per tale attività. E’ irrilevante la circostanza che l’attività in tal modo effettuata risulti del tutto inoffensiva e sia finalizzata ad assicurare una maggiore tutela della salute dei cittadini attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti destinati al recupero, poiché il bene protetto dalla norma incriminatrice riguarda l’affidamento all’autorità pubblica, secondo le competenze stabilite dal D.Lv. 22-1997, del controllo sulla gestione di materiale potenzialmente pericoloso per la salute dei cittadini, come sono i rifiuti).
[2] V. Garzia, Osservazioni sul problema della qualificazione giuridica delle c.d. ecopiazzole comunali, e Maglia, Ancora sul regime giuridico delle ecopiazzole, 2006, 20 e 23.
[3] Ced Cass., rv. 231636 – 231637.
[4] Secondo la stessa sentenza, le argomentazioni svolte conservano validità pure nel vigore della disciplina posta dal d.leg. 13.1.2003, n. 36 che non contiene disposizioni più favorevoli per l'indagato. Il sito di accumulo di rifiuti va considerato, infatti, "discarica" anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2, lett. g), d.leg. n. 36/2003, non configurandosi, nella specie, deposito temporaneo, ne' stoccaggio in attesa di recupero o trattamento, ne' stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno”.
[5] Che ha trovato invece in Santoloci, “Ecopiazzole” - la cassazione: e’ attivita’ di stoccaggio soggetta ad autorizzazione regionale – la provincia non puo’ derogare alla norma nazionale e riservare la gestione ai sindaci, in www.dirittoambiente.com (Id., Le "ecopiazzole" sono stoccaggi, depositi temporanei o di libera realizzazione da parte dei comuni?, ibid.) un convinto sostenitore.
[6] Foro it., 1989, II, 353; Cass. pen., 1989, 1192.
[7] Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 1, 2.
[8] Riv. giur. ambiente, 2002, 510.
[9] Si ricordi, comunque, che la detenzione per brevissimi periodi di rifiuti non da origine a stoccaggio provvisorio soggetto ad autorizzazione regionale, purché risulti che detti rifiuti sono trattenuti in attesa del ritiro da parte di ditte specializzate, e che tale ritiro sia frequente e comunque a scadenze molto ravvicinate: così Cass. 13 febbraio 1992, G.G..
[10] RivistAmbiente, 2004, 534.
[11] O non è necessaria l’attivazione della procedura semplificata.
[12] Salvo che non si voglia sostenere, per coerenza con la tesi postulata dalla Cassazione, che è soggetta ad autorizzazione anche questo sistema di raccolta dei rifiuti!