Cassazione: gli indumenti usati non sono sottoprodotti

di Gianfranco AMENDOLA

pubblicato su unaltroambiente.it. Si ringraziano Autore ed Editore

Recentemente la Cassazione è tornata, anche se sommariamente e indirettamente, sulla vexata quaestio relativa alla qualificazione come rifiuto degli abiti usati1. Il fatto è semplice: due ditte esercenti attività di commercio all’ingrosso di prodotti tessili e materiali da recupero avevano conferito a una società di recupero di rifiuti non pericolosi notevoli quantitativi di “rifiuti tessili” senza autorizzazione e senza i formulari prescritti per il trasporto di rifiuti, ricevendone poi il prodotto recuperato. Alla contestazione che si trattava di rifiuti, la difesa eccepiva che i rifiuti tessili siano da considerare sempre e comunque materia prima secondaria o sottoprodotto, o comunque rifiuti che hanno cessato di essere tali, per cui non erano applicabili gli obblighi suddetti. Ma tali argomentazioni venivano respinte dalla Suprema Corte in quanto “delle due l’una: o si tratta di sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184 bis d.lgs. n. 152 del 2006 o di cosa (indumenti usati) di cui il detentore si è disfatto e che ha successivamente cessato di essere rifiuto ai sensi del successivo art. 184 ter; in entrambi i casi necessitano requisiti e condizioni di fatto che devono essere volta per volta dimostrati da chi predica la natura di “non rifiuto” del bene”; introducendo, quindi, il richiamo agli indumenti usati (di cui, nella esposizione in fatto non è cenno, visto che si parla sempre e solo, genericamente, di rifiuti tessili) per concludere che, comunque, nel caso di specie, sia che si trattasse di sottoprodotti sia che si trattasse di indumenti usati che avevano cessato di essere rifiuti, spettava all’interessato l’onere della prova; il che non era avvenuto.

Ma, proprio con riferimento agli indumenti usati la Cassazione va oltre, aggiungendo che, comunque, essi non possono essere definiti sottoprodotti in quanto non derivano da un processo di produzione “trattandosi piuttosto di cosa abbandonata dal suo detentore (e dunque rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 152 del 2006) e in quanto tale non normata nemmeno dal Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti adottato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare con D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 che esclude dalla sua applicazione i residui derivanti dall’attività di consumo (art. 3, lett. b)”. Così come “la cessazione della qualifica di rifiuto dell’indumento usato (o comunque del rifiuto tessile non proveniente da un processo di produzione) è subordinata alle operazioni di recupero, che necessitano di essere a loro volta autorizzate o comunque soggette a procedura semplificata ai sensi degli artt. 214 e segg. d.lgs. n. 152 del 2006, previste dal D.M. – Ministero dell’Ambiente – 5 febbraio 1998, Allegato 1, suballegato 1, n. 8…”, che, nel caso di specie, non risultavano provate.

Come è noto, la problematica sulla natura (rifiuto o non rifiuto) degli abiti usati è questione ampiamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza con particolare riferimento alla cessione per beneficenza o a titolo gratuito di indumenti che possono essere riutilizzati. Rinviando ad altri scritti per maggiori dettagli2, sembra sufficiente, in questa sede, richiamare, in proposito, la nostra conclusione secondo cui l’abito usato non è un rifiuto se è chiara la volontà del soggetto di non “disfarsi” del bene ma di cederlo a terzi, a titolo gratuito od oneroso, affinché continui ad essere utilizzato nella sua originaria funzione, in quanto è del tutto evidente che in tal caso non c’è alcun rischio di inquinamento ambientale. Non a caso, infatti, l’art. 183 comma 1, lett. r, D. Lgs. 152/06 (TUA) definisce “riutilizzo qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti3. Anche perché, se così non fosse, dovremmo procedere penalmente contro tutti i rivenditori di abiti usati; con la sola precisazione che, ovviamente, deve trattarsi di abito usato riutilizzabile senza bisogno di trattamenti particolari4. E pertanto si deve valutare, in primo luogo, la diretta utilizzabilità dell’indumento come tale perché il venir meno di questa utilizzabilità comporta, di regola (ma non sempre), il pericolo che di quella cosa ci si voglia disfare con rischio di inquinamento ambientale.

Diverso è, ovviamente, il caso in cui l’abito usato non sia direttamente riutilizzabile ovvero venga espressamente conferito dal detentore nell’ambito della raccolta dei rifiuti urbani. In questo caso, senza riutilizzo diretto, vi è rischio di inquinamento ambientale e, quindi, si tratta di rifiuto che, come ricordato dalla Cassazione, cesserà, eventualmente, di essere tale solo quando e se verranno rispettate le condizioni imposte dall’art. 184 ter TUA per EoW (fine rifiuto), dettagliate nel D. M. 5 febbraio 1998, il quale, in tema di recupero di “indumenti, accessori di abbigliamento ed altri manufatti tessili confezionati post-consumo” onde ottenere “indumenti, accessori di abbigliamento ed altri manufatti tessili confezionati utilizzabili direttamente in cicli di consumo“, prevede (punto 8.9.3, lettera a, del suballegato 1 dell’allegato 1) selezione ed igienizzazione per l’ottenimento di alcune specifiche sanitarie5; cui si deve aggiungere la successiva precisazione normativa (terzo comma dell’art. 14 legge 19 agosto 2016, n. 166, in tema di “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi“) che la igienizzazione deve essere attuata solo se necessaria per raggiungere le specifiche tecniche di cui sopra6.

Proprio su queste basi normative, del resto, la Cassazione, nel 2013, aveva confermato la sussistenza del reato di traffico illecito di rifiuti in una fattispecie consistente nella “illecita condotta di una pluralità di soggetti che aveva organizzato la raccolta di abiti dismessi ed accessori, prodotti come rifiuti urbani da parte di privati e, previo trasporto presso ditte che fungevano da centro di smistamento, li avevano affidati alla vendita presso il mercato interno ed estero, in assenza del trattamento legislativamente previsto per il recupero, configurando così i reati di associazione a delinquere, attività organizzata per il traffico illeciti di rifiuti e falso”; con la specificazione successiva che “il trasporto avveniva senza il necessario passaggio presso lo stabilimento… , dove si sarebbero dovute effettuare quelle attività di fumigazione e disinfestazione idonee a trasformare gli abiti in materie prime secondarie……..” 7.

Quanto alla possibile qualificazione degli indumenti usati quali sottoprodotti, la Cassazione giunge a conclusione negativa in quanto, ai sensi dell’art. 184 bis TUA, è un sottoprodotto e non un rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che sia “originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto” (comma 1, lett. a); condizione che non ricorre nel caso di indumenti usati. Tanto è vero che il D.M. n. 264 del 13 ottobre 2016 (Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti) non prevede alcun criterio con riferimento agli indumenti usati e, nel contempo, ne esclude l’applicazione per i residui derivanti da attività di consumo (art. 3, lett. b).

Insomma, vi è la piena conferma che un indumento usato, se non può essere direttamente riutilizzato, è da considerare rifiuto e non potrà mai invocarsi la deroga relativa ai sottoprodotti.

Conclusione che ci sembra totalmente condivisibile e perfettamente aderente alla normativa comunitaria.

Ci sia, tuttavia, consentito, a questo punto, un piccolo appunto non di sostanza ma di forma rispetto alla motivazione della Suprema Corte. Nella sentenza, infatti, come abbiamo visto, si parla di “cosa abbandonata dal suo detentore (e dunque rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 152 del 2006)”. Ma è appena il caso di ricordare che la attuale definizione di rifiuto contenuta nell’art. 183 TUA non parla affatto di “abbandono”, bensì, ricalcando fedelmente il testo comunitario, di “disfarsi8, mentre il verbo “abbandonare” era utilizzato in precedenza, nella prima definizione italiana introdotta dal DPR 915 del 19829; definizione che, proprio per questa diversità è stata, per anni, fino alla sua modifica, oggi recepita dal TUA10, insieme alla nozione di <<materia prima secondaria>> oggetto di accese dispute dottrinarie e giurisprudenziali, con echi fino alla Corte di Giustizia Europea ed alla Cassazione a Sezioni Unite. Rinviando ad altre opere per approfondimenti e richiami11, sotto il profilo sostanziale, basta evidenziare, in questa sede, che l’uso del verbo <<abbandonare>> porta a ritenere che sia rifiuto solo quello che non serve più a nessuno (<<abbandonato >> quindi) e non quello che non serve più al detentore (che se ne «disfa », quindi, anche se può servire ad altri); restringendo così notevolmente l’applicazione della normativa sui rifiuti. Osservazione che, ovviamente riguarda anche gli abiti usati, che possono essere “buttati”, riutilizzati o recuperati.

Trattasi, comunque, di osservazione solo formale che non ha alcuna rilevanza rispetto al caso deciso dalla Cassazione; e, peraltro, va anche rilevato che in altri passi, la sentenza parla di <<disfarsi>>.

In conclusione, quindi, la sentenza in esame appare rilevante perché conferma e precisa la natura degli indumenti usati anche con riferimento alla categoria dei “sottoprodotti”.

Ma è comunque il caso di aggiungere, in fine, alle considerazioni strettamente giuridiche anche alcuni dati che confermano la rilevanza della problematica a fini di tutela ambientale.

Secondo i dati UE ogni anno in Europa si producono 5.8 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, pari a 11 chili a persona. E, purtroppo, la maggior parte di questi rifiuti – ben l’87% in tutto il Continente – finisce in discarica oppure viene incenerita o esportata all’estero. Eppure, -continua la UE-, con un efficiente sistema di raccolta e riciclo, solo una porzione compresa tra l’1 e il 3% di tutti gli indumenti raccolti tramite differenziata finirebbero effettivamente in discarica, con vantaggi enormi dal punto di vista ambientale. E se si considera che il recupero dei filati permette di risparmiare tra il 20 e il 40% sia di energia che di acqua rispetto alla produzione ex-novo, vi sarebbero notevoli benefici anche in termini di consumi ed emissioni.

In questo quadro, per una volta tanto, abbiamo precorso i tempi. Perché, ai sensi del D. Lgs. 116/2020,

dal 1 gennaio 2022, è stato introdotto l’obbligo per i Comuni di raccogliere tutte le tipologie di rifiuti tessili, anche quelli che possono essere trattati e riciclati per produrre nuovi filati. Obbligo che, per gli altri paesi europei, entrerà in vigore nel 2025, con l’obiettivo di arrivare a fine anno con almeno il 50% dei prodotti tessili riciclati o “preparati per il riuso”, percentuale che deve arrivare al 75% entro il 2030. E dovrebbe diventare operante nel settore anche la Responsabilità Estesa dei Produttori (EPR), come già avviene per i RAEE.

Peraltro, in Italia opera un accordo ANCI-CONAU (Unione imprese raccolta riuso e riciclo abbigliamento usato) proprio per regolamentare la raccolta differenziata degli indumenti usati. Raccolta che, su strada, avviene con cassonetti appositi i quali porteranno al trattamento di questi rifiuti da operatori autorizzati; mentre, come già abbiamo visto, la donazione di abiti usati per beneficenza prevede il conferimento dai privati presso le sedi operative dei soggetti donatari, non attraverso cassonetti su strada.

Anche se poi, nella realtà di tutti i giorni, in contrasto con questa normativa troppo spesso gli indumenti usati finiscono tra i rifiuti indifferenziati.


  1. Cass. pen., sez. 3, 29 maggio (c.c)- 18 settembre 2024, n. 35000, Lazzarin in questa rivista, novembre 2024↩︎
  2. Ci permettiamo rinviare, tra i primi, al nostro “Sono sempre rifiuti gli abiti dismessi?“, in www.industriambiente.it, 2013.↩︎
  3. Per approfondimenti, citazioni e richiami relativi alla nozione di rifiuto, ci permettiamo di rinviare al nostro Diritto penale ambientale, Pacini Giuridica 2024, pag. 111 e segg..↩︎
  4. E peraltro, nello stesso quadro, anche un abito usato, ceduto come indumento utilizzabile, può tuttavia diventare “rifiuto” se, alla cernita, risultasse inidoneo alla sua funzione (ad esempio perché troppo liso); anche se, come è evidente, è solo da questo momento che scattano i doveri sui “rifiuti”.↩︎
  5. Si segnala, in proposito, che è in fase avanzata di elaborazione uno schema di Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di RIFIUTI TESSILI ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (cd. “EoW Tessili”)↩︎
  6. In proposito si rinvia, al nostro Abiti usati-rifiuti: l’ennesimo pasticcio del legislatore in www.dirittoambiente.net. 21 marzo 2017↩︎
  7. Cass. pen. sez. 3, c.c. 27 marzo 2013, dep. 30 luglio 2013, n. 32955, Strammiello. Si noti che, in questa sentenza, la suprema Corte non si soffermava sulla qualificazione degli “abiti dismessi” in quanto, nel caso di specie, erano “prodotti come rifiuti urbani” da parte di privati.↩︎
  8. per rifiuto si intende << qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi>>;↩︎
  9. Art. 2, primo comma: <<Per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali abbandonato o destinato all’abbandono>>↩︎
  10. art. 6, comma 1, lett. a, D.Lgs. n. 22/1997. Vale la pena di ricordare che, prima di quella data, fu introdotta anche una nuova categoria, tutta italiana, quella dei <<residui>>, con il decreto legge n. 443, emanato dal governo Ciampi il 9 novembre 1993, reiterato dai due governi successivi ben quindici volte con modifiche, il quale, in sostanza, attraverso questo espediente terminologico, voleva sottrarre i rifiuti da recuperare alla disciplina dei rifiuti.↩︎
  11. Sulle prime vicende storiche ci permettiamo rinviare al nostro Inquinamenti, EPC, Roma 1997 ed al nostro I rifiuti: normativa italiana e comunitaria, Il Sole 24 Ore-Pirola, Milano 1998. Da ultimo, cfr. il nostro Gestione dei rifiuti e normativa penale, Giuffrè, Milano 2003, pag. 59 e segg.↩︎