Rifiuti. Deposito temporaneo: con RENTRI nessuna disattenzione potrà sfuggire al controllo

di Marcello FRANCO

Come è noto, salvo specifiche e limitate deroghe, il deposito temporaneo dei rifiuti propriamente inteso – ossia, secondo l’intera espressione di legge, il «deposito temporaneo prima della raccolta» – può essere eseguito solo nel luogo in cui i rifiuti sono stati prodotti e nel rispetto di una serie di regole e condizioni tra le quali, in particolare, il rispetto di un tempo o, in alternativa, di una quantità massima.

La disposizione oggi vigente, peraltro in ciò non molto dissimile dalla regola introdotta fin dal d.lgs. n. 22 del 1997, testualmente stabilisce, tra le condizioni o requisiti del deposito temporaneo, che « i rifiuti sono [debbono essere] avviati alle operazioni di recupero o smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalla quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all’anno [ossia nel corso di un anno], il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno».

In altri termini, il produttore di rifiuti per detenerli liberamente nel sito in cui li ha prodotti – ossia nell’intera area o stabilimento in cui si svolge l’attività che ha determinato la produzione degli stessi – ha la possibilità di scegliere liberamente se rispettare il limite di tempo: tre mesi da quando li ha prodotti, o quello di quantità: 30 metri cubi con un massimo di 10 per quelli pericolosi; in questo secondo caso però la detenzione in deposito non può superare l’anno. Ed è appena il caso di ricordare come, se si è optato per il limite temporale, non si hanno limiti quantitativi, si possono detenere in deposito anche notevolissime quantità di rifiuti, ma ciascuno dei rifiuti che si producono in quello stabilimento deve essere avviato a recupero o smaltimento entro tre mesi da quando è stato prodotto: questo riguarda tutti i rifiuti prodotti, nessuno escluso, anche quelli occasionali e di modesta quantità. Per contro, se si è scelta la regola del limite quantitativo, quando si raggiungono i 30 metri cubi totali o i 10 metri cubi di rifiuti pericolosi, bisogna azzerare l’intero deposito, non essendo consentito di limitarsi a mandare a recupero o smaltimento un quantitativo sufficiente per riportarsi al di sotto dei 30 (o 10) metri cubi.

La norma attualmente vigente, ossia l’art. 185- bis del d.lgs. n. 152/2006, introdotto dall’art. 1, comma 14, del d.lgs. n. 116/2020, al comma 3 precisa che « Il deposito temporaneo prima della raccolta è effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 [tra le quali vi è il limite temporale o quantitativo] e non necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente », a contrario, quindi, “se non è effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 non è un deposito temporaneo e pertanto, o comunque, necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente”; in tal modo viene dalla legge “convalidato” quello che era già l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione.

In sintesi, il mancato rispetto del limite di tempo o di quantità che il produttore si è scelto (o comunque la detenzione per più di un anno qualora non si siano raggiunti i 30 metri cubi in totale o i 10 metri cubi di rifiuti pericolosi) costituisce una forma di “gestione di rifiuti senza autorizzazione” sanzionata dall’art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 con la pena alternativa dell’arresto da 3 mesi a un anno “o” dell’ammenda da 2.600 a 26.000 euro, se si tratta solo di rifiuti non pericolosi; se invece si tratta anche o solo di rifiuti pericolosi la sanzione diventa cumulativa dell’arresto da 6 mesi a 2 anni “e” dell’ammenda da 2.600 a 26.000 euro.

Attualmente la verifica del rispetto dei limiti del deposito temporaneo, salvo forse casi assolutamente singolari, richiede necessariamente l’intervento in campo dei controllori. È quindi una verifica che viene eseguita occasionalmente, o comunque a spot o random, perché fondata sulla acquisizione e consultazione dei registri di carico e scarico dei rifiuti tenuti dal produttore degli stessi e titolare del deposito temporaneo, con successiva contabilizzazione dei dati da tali registri estratti, indagine che tra l’altro bene e spesso richiede parecchio tempo, in ragione della mole dei dati da acquisire ed elaborare, a meno che il controllato non gestisca tali documenti con sistemi informatici e li metta, volontariamente o coattivamente, a disposizione.

Con RENTRI, invece, la verifica da parte degli Enti di controllo del rispetto dei limiti, quanto meno di quelli temporali, diventerà estremamente semplice, forse automatica e generalizzata: per tutte le imprese obbligate all’iscrizione i dati dei rispettivi registri di carico e scarico saranno trasferiti informaticamente ed informatizzati nel registro nazionale e non occorrerà certo ricorrere a chissà quale “intelligenza artificiale” per dotare il software di sistemi di ricerca che rilevino con un semplice “clic” – o addirittura automaticamente dando un “alert” – il superamento di tre mesi (o di un anno) dalla data di registrazione di ogni singola presa in carico a quella in cui viene registrato il relativo scarico.

In questa prospettiva è prevedibile che tutte le imprese che non siano assolutamente sprovvedute si doteranno, se non li hanno già, di propri sistemi di “alert” idonei ad evitare il superamento del termine.

Ma basterà? A volte il superamento del termine non è determinato da disattenzione o negligenza, ma da eventi sopravvenuti ed imponderabili o comunque non imputabili al produttore del rifiuto e titolare del deposito temporaneo: un qualunque imprevisto occorso al trasportatore o al mezzo di trasporto che avrebbe dovuto provvedere al prelievo (un incidente stradale o un banale guasto) o al destinatario e all’impianto di destinazione. Questo però non fermerà l’“inesorabile controllore elettronico”, per il quale anche un giorno di ritardo significherà – parafrasando il comma 3 dell’art. 185- bis del d.lgs. n. 152/2006 – che “ il deposito temporaneo prima della raccolta non è stato effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 e, pertanto, necessita (avrebbe necessitato) di autorizzazione da parte dell’autorità competente ”. La conseguenza ineluttabile sarà l’avvio di un procedimento penale che, salvo l’esercizio da parte da parte dell’organo di vigilanza della facoltà di impartire una apposita prescrizione ai sensi e con gli effetti di cui all’art. 318- ter e seguenti del sopra citato d.lgs. n. 152/2006 (perché malauguratamente di facoltà si tratta, non di obbligo), ben difficilmente potrà concludersi con una sentenza diversa da quella di condanna.

Peraltro, non si vede quale prescrizione “regolarizzatrice”, ossia idonea a ripristinare la legalità, possa essere impartita dall’organo di vigilanza diversa dall’ordine di richiedere (ed ottenere) l’autorizzazione, salvo ritenere che per effetto di un sia pur tardivo avvio a recupero o smaltimento dei rifiuti in deposito da oltre tre mesi – ancora parafrasando il comma 3 dell’art. 185- bis – “ il deposito temporaneo prima della raccolta sia tornato ad essere effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 e, pertanto, non necessiti (più) di autorizzazione da parte dell’autorità competente”. In tale ipotesi, una volta avviati a recupero o smaltimento i rifiuti in deposito da oltre novanta giorni con conseguente regolarizzazione del deposito stesso e ripristino della regolarità, ed a prescindere dal fatto che ciò sia avvenuto d’iniziativa dell’interessato o per ordine dell’organo di controllo, quest’ultimo potrebbe limitarsi a comminare al contravventore una sanzione amministrativa secondo il disposto di cui al comma 2 dell’art. 318- quater del d.lgs. n. 152/2006, con effetto estintivo del reato a pagamento avvenuto.

Questa ipotesi conduce ad una soluzione decisamente più razionale rispetto all’alternativa tra l’assoggettamento ad autorizzazione di un deposito che, una volta rientrato nei limiti, non ne avrà più bisogno e una sanzione penale per una violazione di scarsissima gravità, considerato che con RENTRI il superamento dei novanta giorni sarà rilevabile “a tappeto” ed “in tempo reale”.

Sotto altro profilo, peraltro, quest’ultima circostanza, ossia il fatto che il superamento del termine sarà rilevabile “a tappeto” ed “in tempo reale”, non va assolutamente sottovalutata per gli effetti perversi che potrebbe produrre. Con RENTRI la registrazione dello scarico di un rifiuto preso in carico oltre novanta giorni prima – ma anche la mancata registrazione dello scarico di un rifiuto in giacenza da oltre novanta giorni – verrà meccanicamente ed ineluttabilmente rilevata, costituendo tale registrazione – ma anche la mancata registrazione – una sorta di “autodenuncia”.

A questo punto vien fatto di chiedersi se non sarebbe più ragionevole che per l’obbligo di avviare i rifiuti in deposito temporaneo nel rispetto del limite prescritto, ossia quello di tempo o quantità a seconda della scelta operata dall’interessato, venisse prevista una specifica sanzione amministrativa, anche con esclusione o quanto meno estrema attenuazione della stessa in caso di “ravvedimento operoso”, ossia di adempimento da parte dell’interessato tardivo, ma di sua iniziativa e non per l’intervento del controllore. E ciò, a ben vedere, potrebbe risultare ragionevole anche per tutte le altre condizioni del deposito temporaneo.

D’altro canto, si ha ragione di ritenere che proprio l’assenza di sanzioni ad hoc per la violazione delle varie condizioni cui è assoggettato il deposito temporaneo ha in un certo qual modo “costretto” la magistratura a concludere che il mancato rispetto di qualunque delle condizioni previste dalla legge per il regolare esercizio del deposito temporaneo, anche di una sola, comporti che l’attività posta in essere deve qualificarsi come gestione non autorizzata (da ultimo Cass., Sez. III, n. 30062 del 23.07.2024 con ampia citazione dei precedenti).

Ad onor del vero, la Cassazione a tale conclusione è pervenuta considerando la disciplina del deposito temporaneo una deroga all’obbligo dell’autorizzazione e come tale, ossia come norma in deroga, da interpretare in modo restrittivo, ragion per cui « solo l’osservanza di “tutte” le condizioni previste dalla legge per il deposito temporaneo – e quindi anche lo smaltimento con cadenza annuale [ovviamente ove ne ricorra il caso] – solleva il produttore dagli obblighi previsi dal regime autorizzatorio delle attività di gestione […] mentre, in difetto di tali condizioni – la sussistenza delle quali deve essere dimostrata dall’interessato, trattandosi di norma di favore (Sez. 3 n. 15680. 23 aprile 2010; Sez. 3 n. 30647, 15 giugno 2004; Sez. 3 n. 21587, 17 marzo 2004) – l’attività posta in essere deve qualificarsi come gestione non autorizzata, penalmente sanzionata, o abbandono » (sopra citata Cass., Sez. III n. 30062/2024).

A fondamento e supporto della natura derogatoria del deposito temporaneo la Corte di Cassazione ha sempre invocato – ed anche nell’ultima sua decisione invoca – la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 5 ottobre 1999 nei procedimenti riuniti C-175/98 e C-177/98 aventi ad oggetto domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Pretore di Udine ed espressamente attinenti al deposito temporaneo ed al suo esonero dall’autorizzazione.

In realtà tale sentenza è essenzialmente incentrata sull’“autonomia” del “deposito temporaneo” rispetto al “deposito preliminare” ed il conseguente non assoggettamento ad autorizzazione. Al proposito la Corte di Giustizia si limita ad affermare che: « è sufficiente rilevare che, stabilendo che le operazioni di recupero o di smaltimento dei rifiuti comprendono il deposito preliminare, escluso il deposito temporaneo, gli allegati II A, punto D 15, e II B, punto R 13 [corrispondenti, rispettivamente, all’all. B, punto D15, e all’all. C, punto R13, alla parte quarta del d.lgs. n. 152/2006], implicano necessariamente che il deposito temporaneo si distingua dal deposito preliminare. Così, il deposito preliminare fa parte delle operazioni di smaltimento o di recupero dei rifiuti, mentre il deposito temporaneo prima della raccolta ne è, invece, espressamente escluso.» (punto 42), soggiungendo che «Gli allegati II A e II B precisano inoltre, ai punti D 15 e, rispettivamente, R 13, che l’operazione di deposito temporaneo avviene prima dell’operazione di raccolta che, ai sensi dell’art. 1, lett. d), della direttiva 75/442, è la prima delle operazioni di gestione dei rifiuti.» (punto 43) e concludendo che «Di conseguenza, il deposito temporaneo precede un’operazione di gestione e, in particolare, l’operazione di raccolta di rifiuti e costituisce un’operazione preparatoria ad una delle operazioni di recupero o di smaltimento elencate negli allegati II A e II B, punti da D 1 a D 15 e, rispettivamente, da R 1 a R 13, della direttiva 75/442.» (punto 44) e che «Pertanto, il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti, dev’essere definito come un’operazione preliminare ad un’operazione di gestione dei rifiuti, ai sensi dell’art. 1, lett. d), della direttiva 75/442.».

Non sembra che così dicendo la Corte di Giustizia attribuisca al deposito temporaneo un carattere derogatorio rispetto alle “altre” operazioni di gestione dei rifiuti sottraendolo al regime autorizzatorio o comunque abilitativo e di controllo preventivo: dice espressamente che “non è” un’operazione di gestione dei rifiuti, sicché per la Corte il problema dell’assoggettamento o meno ad autorizzazione in termini di “esonero” nemmeno si pone.

Di “deroga” nella sentenza se ne parla solo riportando il parere della Commissione, la quale, pur concordando con i governi italiano, tedesco, olandese ed austriaco intervenuti nel procedimento con osservazioni scritte sostenendo che «il deposito temporaneo non è, in linea di principio, soggetto alle disposizioni sostanziali della direttiva 75/442» (punto 48), ha tuttavia aggiunto che, «in quanto deroga a norme che mirano a conseguire obiettivi di una fondamentale rilevanza, quali la protezione dell’ambiente e della salute, la nozione di “deposito temporaneo” deve interpretarsi in modo restrittivo e deve rispettare i principi menzionati all’art. 130 R del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 174 CE). » sicché (ed è sempre il parere della Commissione che viene riportato nella sentenza) «Gli Stati membri, che sono tenuti a garantire l’effetto utile della direttiva 75/442, in particolare dei principi generali enunciati al suo art. 4, devono quindi adottare disposizioni sufficientemente rigorose per evitare che le imprese possano fare un uso abusivo della deroga prevista da tale direttiva in caso di deposito temporaneo.» (punto 49).

In merito a tali osservazioni della Commissione la Corte conclude che «se è vero che le imprese che detengono rifiuti e che procedono al loro deposito temporaneo non sono soggette all’obbligo di registrazione o d’autorizzazione previsto dalla direttiva 75/442, non è men vero che tutte le operazioni di deposito, indipendentemente dal fatto che siano effettuate a titolo temporaneo o preliminare, nonché le operazioni di gestione di rifiuti ai sensi dell’art. 1, lett. d), di tale direttiva, sono soggette al rispetto dei principi della precauzione e dell’azione preventiva che l’art. 4 della direttiva 75/442 mira ad attuare e, in particolare, agli obblighi che risultano da questa stessa norma nonché dall’art. 8 della detta direttiva.» (punto 54).

In tutto ciò, comunque, la Corte di Giustizia assume come riferimento la norma eurounitaria secondo la quale è “deposito temporaneo” quello eseguito nel luogo in cui i rifiuti sono stati prodotti e prima della raccolta degli stessi senza alcun’altra condizione o limitazione di sorta.

Risulta quindi quanto meno discutibile che da questa sentenza della Corte europea si possa ricavare, oltre al carattere derogatorio del deposito temporaneo rispetto all’obbligo dell’autorizzazione, anche che l’“esenzione” dall’autorizzazione venga meno in caso di inosservanza (anche di una sola) delle altre condizioni e limitazioni non previste dalla norma europea, ma introdotte dalla norma italiana.

Vero è, come si è appena visto, che l’esclusione del deposito temporaneo dall’autorizzazione non si accompagna con l’esonero in tale fase da qualunque onere ed obbligo posto a tutela dell’ambiente in generale e per la corretta gestione dei rifiuti in particolare, ma eventuali disposizioni a tal fine introdotte a livello nazionale, ancorché suggerite e quasi sollecitate dalla Corte di Giustizia (punto 2 del dispositivo: «Le competenti autorità nazionali sono tenute, per quanto riguarda le operazioni di deposito temporaneo, a vegliare al rispetto degli obblighi risultanti dall’art. 4 della direttiva 75/442.»), non costituiscono per la medesima Corte requisiti aggiuntivi perché il deposito possa configurarsi come temporaneo e permanga l’esclusione dall’autorizzazione.

La qual cosa risulta confermata da un’altra sentenza della Corte avente ad oggetto proprio uno dei requisiti aggiuntivi previsti dalla norma italiana (C-387/07 dell’11 dicembre 2008, seconda ed ultima sentenza della Corte di Giustizia riguardante il deposito temporaneo, anch’essa originata da una domanda di pronuncia pregiudiziale promossa da un giudice italiano, il Tribunale di Ancona).

La questione posta, correlata alla disposizione nazionale che prescrive che il deposito venga eseguito raggruppando i rifiuti per categorie omogenee, era «Se il concetto di “deposito temporaneo” previsto nella direttiva 75/442 (...) sia tale da consentire, al produttore, la commistione o la miscelazione di rifiuti riconducibili a diversi codici nell’ambito del Catalogo Europeo dei Rifiuti così come previsto dalla decisione 2000/532 (...).».

Nel rispondere a tale quesito la Corte di Giustizia ha in primo luogo ribadito che « il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui [i rifiuti] sono prodotti, è escluso dall’elenco delle operazioni qualificate dalla direttiva 75/442 come operazioni di smaltimento o operazioni di recupero » (punto 21). Dopo di che ha rilevato come «La decisione 2000/532, con cui è stato adottato l’elenco dei rifiuti istituito conformemente agli artt. 1, lett. a), della direttiva 75/442 e 1, n. 4, della direttiva 91/689, non prescrive d’altronde alcuna misura relativa al deposito temporaneo dei rifiuti, prima della loro raccolta, nel luogo in cui sono prodotti.» (punto 22) e che «Di conseguenza, va constatato che né la direttiva 75/442 né la decisione 2000/532 impongono agli Stati membri di adottare misure che obbligano il produttore di rifiuti alla cernita e al deposito separato dei rifiuti, utilizzando a tal fine i codici dell’elenco allegato a detta decisione, al momento del loro deposito temporaneo, prima della loro raccolta, nel luogo in cui sono prodotti.» (punto 23). Ha quindi separatamente affrontato la questione relativa all’adozione da parte degli Stati membri di «misure specifiche che obblighino il produttore di rifiuti alla cernita e al deposito separato dei rifiuti, utilizzando a tal fine i codici dell’elenco allegato alla decisione 2000/532, al momento del loro deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti», precisando che, ancorché la direttiva europea non lo imponga, «gli Stati membri sono tenuti ad adottare siffatte misure qualora ritengano che esse siano necessarie per raggiungere gli obiettivi fissati dall’art. 4, primo comma, della citata direttiva.» e non già per assicurare che il deposito temporaneo resti escluso dal novero delle operazioni di gestione e, come tale, resti non assoggettato ad autorizzazione (punto 26).

Peraltro, a seguito dell’introduzione nel d.lgs. n. 152/2006 dell’art. 185-bis, appare superata o comunque di scarso o nullo interesse qualunque discussione sul se e fino a che punto la sentenza della Corte di Giustizia del 5 ottobre 1999 nelle cause riunite C-175/98 e C-177/98 (comunque ancora costantemente richiamata) possa essere invocata a fondamento e supporto dell’orientamento della Cassazione in base al quale il non assoggettamento ad autorizzazione del deposito temporaneo costituirebbe una norma in deroga al regime autorizzatorio ordinario e l’inosservanza anche di una sola delle condizioni e limitazioni previste dalla norma nazionale per il regolare esercizio di detto deposito determina che l’attività posta in essere costituisce una gestione non autorizzata o addirittura un abbandono o deposito incontrollato di rifiuti. Oggi è la norma di legge che precisa che il deposito temporaneo dei rifiuti prima della raccolta non necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente “solo” se effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 del citato art. 185- bis (comma 3 di detto articolo).

Ma a questo punto si potrebbe sollevare un ulteriore dubbio.

L’art. 185- bis è stato introdotto dall’art. 1, comma 14, del d.lgs. n. 116/2029 («Attuazione della direttiva (UE) 2018/851 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti e attuazione della direttiva (UE) 2018/852 che modifica la direttiva 1994/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio»).

Il d.lgs. n. 116/2020 è stato emanato in attuazione della delega di cui alla legge n. 117/2019 («Legge di delegazione europea 2018»).

La legge n. 117/2019 all’art. 1, comma 1, rinvia ai termini, procedure, principi e criteri direttivi di cui agli artt. 31 e 32 della legge n. 234/2012, oltre a prevedere all’art. 16 ulteriori principi e criteri direttivi per l’attuazione della direttiva (UE) 2018/851 e della direttiva (UE) 2018/852, che però non incidono su quelli in via generale richiamati dall’art. 1, comma 1.

La legge n. 234/2012 («Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea») all’art. 32 («Principi e criteri direttivi generali di delega per l’attuazione del diritto dell’Unione europea») dispone, tra l’altro, che « Salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge di delegazione europea e in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare, i decreti legislativi di cui all’articolo 31 [ossia quelli da emanare in attuazione delle leggi di delegazione europee] sono informati ai seguenti principi e criteri direttivi generali: a) (…); c) gli atti di recepimento di direttive dell’Unione europea non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, ai sensi dell’articolo 14, commi 24-bis, 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246; (…).».

La legge 246/2005 («Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005») all’art. 14 («Semplificazione della legislazione»), commi 24-bis, 24- ter e 24-quater, dispone che:

– «24-bis. Gli atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, salvo quanto previsto al comma 24-quater.»;

– «24-ter. Costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive.»;

– «24-quater. L’amministrazione dà conto delle circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Per gli atti normativi non sottoposti ad AIR, le Amministrazioni utilizzano comunque i metodi di analisi definiti dalle direttive di cui al comma 6 del presente articolo.».

Sulla base delle disposizioni di legge sopra riportate appare quantomeno fortemente dubbia la legittimità dell’art. 185-bis, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 – ai sensi del quale « Il deposito temporaneo [dei rifiuti] prima della raccolta è effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 e non necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente » – nella misura in cui lo stesso debba essere interpretato nel senso che “il deposito temporaneo dei rifiuti prima della raccolta solo se effettuato alle condizioni di cui ai commi 1 e 2 non necessita di autorizzazione da parte dell’autorità competente” e che pertanto, a contrario, “necessita di autorizzazione il deposito temporaneo dei rifiuti prima della raccolta qualora non sia effettuato nel rispetto di tutte le condizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 185-bis”. Non è chi non veda come in tal modo la norma, sottoponendo ad autorizzazioni ipotesi non previste dalla norma comunitaria (si è ampiamente visto come la Corte di Giustizia tassativamente escluda dall’autorizzazione il deposito temporaneo dei rifiuti alle sole condizioni che avvenga nel luogo ove sono prodotti e prima della raccolta), risulti in contrasto con il criterio direttivo che vieta l’introduzione – ed anche il mantenimento – di un “livello di regolamentazione superiore a quello minimo richiesto dalla direttiva europea”: parafrasando l’art. 14, comma 24-ter, lett. b) , della legge n. 246/2005, l’art. 185- bis con il comma 3 certamente determina una “estensione dell’ambito oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, estensione che certamente – e come minimo – comporta maggiori oneri amministrativi per i destinatari”.

Come se non bastasse, anche per la norma sanzionatoria comunemente applicata in caso di violazione delle regole nazionali sul deposito temporaneo sussistono fondati dubbi di legittimità.

L’art. 256 del d.lgs. n. 152/2006, per la parte penale, ossia i commi da 1 a 6, salvo gli adeguamenti formali (articoli richiamati e conversione in euro delle sanzioni pecuniarie) è tutt’oggi la riproduzione letterale dell’art. 51, commi da 1 a 6, del d.lgs. n. 22/1997, con la sola successiva aggiunta in premessa ai commi 1 e 3 della precisazione «Fuori dai casi sanzionati ai sensi dell’art. 29-quaterdecies, comma1». Né potrebbe essere altrimenti, non essendo intervenute altre modifiche rispetto al testo originario del 2006: il d.lgs. n. 152/2006, infatti, è stato emanato in attuazione della legge n. 308/2004 che prevedeva essenzialmente il riordino e coordinamento delle disposizioni vigenti in materia ambientale anche con integrazioni di carattere regolamentare, però senza alcuna delega in materia penale.

Ma anche l’art. 51, commi da 1 a 6, del d.lgs. n. 22/1997 (come ora riprodotto nel d.lgs. n. 152/2006) non aveva subito variazioni rispetto alla sua versione originaria, salvo le limitate modifiche introdotte con il d.lgs. n. 389/1997, cosiddetto “correttivo”, peraltro fondato sulla medesima legge di delega.

Più in generale, l’intero apparato sanzionatorio penale originariamente previsto dal d.lgs. n. 22/1997 e suo “correttivo” è rimasto a tutt’oggi sostanzialmente invariato, avendo subito un’unica importante modifica costituita dall’inserimento, però con legge parlamentare, del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, all’epoca art. 53- bis del d.lgs. n. 22/1997, ora art. 452- quaterdecies del codice penale.

Ne consegue che la verifica di conformità alla delega dei reati previsti nella parte quarta del d.lgs. n. 152/2006 e specificamente, per quanto qui interessa, dell’attuale art. 256, commi da 1 a 6, va quindi eseguita con riguardo ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega in attuazione della quale è stato emanato il d.lgs. n. 22/1997, ossia con riguardo a quelli previsti all’art. 2, comma 1, lett. d), della legge n. 146/1994, che di seguito si riporta.

L’art. 2, comma 1, lett. d), della legge n. 146/1994, premesso che «salva l’applicazione delle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, saranno previste sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi.», disponeva che «Le sanzioni penali, nei limiti, rispettivamente, dell’ammenda fino a lire duecento milioni e dell’arresto fino a tre anni, saranno previste, in via alternativa o congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi generali dell’ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli articoli 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689. In tali casi saranno previste: la pena dell’ammenda alternativa all’arresto per le infrazioni che espongano a pericolo o danneggino l’interesse protetto; la pena dell’arresto congiunta a quella dell’ammenda per le infrazioni che recano un danno di particolare gravità.».

Giova precisare come i sopra riportati criteri direttivi contenuti nella legge n. 146/1994 – in attuazione della quale è stato emanato non solo il d.lgs. n. 22/1997 in materia di rifiuti, ma anche il d.lgs. n. 152/1999 in materia di tutela delle acque, poi entrambi “trasfusi” nel d.lgs. n. 152/2006, rispettivamente, parte quarta e sezione seconda della parte terza – siano la riproduzione di criteri del tutto analoghi, per non dire identici, già contenuti in precedenti “Leggi comunitarie” di delega per l’attuazione di direttive europee (si veda ad esempio l’art. 2, comma 1, lett. c), della legge 31 ottobre 2003, n. 306, in attuazione della quale è stato emanato il d.lgs. n. 59/2005 istitutivo dell’AIA, poi “trasfuso”, con il d.lgs. n. 128/2020, nel d.lgs. n. 152/2006, titolo terzo- bis della parte seconda) e riproposti in tutte le ulteriori “Leggi comunitarie” poi intervenute fino al “consolidamento” dei medesimi criteri nell’art. 32, comma 1, lett. d), della legge n. 234/2012 puntualmente richiamato in tutte le leggi di delega successive e che così dispone: «al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, sono previste sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi. Le sanzioni penali, nei limiti, rispettivamente, dell’ammenda fino a 150.000 euro e dell’arresto fino a tre anni, sono previste, in via alternativa o congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi costituzionalmente protetti. In tali casi sono previste: la pena dell’ammenda alternativa all’arresto per le infrazioni che espongano a pericolo o danneggino l’interesse protetto; la pena dell’arresto congiunta a quella dell’ammenda per le infrazioni che rechino un danno di particolare gravità.».

In sintesi, da sempre e tutt’oggi, con i decreti legislativi di attuazione di direttive dell’Unione europea è consentito introdurre nuove ipotesi contravvenzionali solo per violazioni che concretamente mettano in pericolo o addirittura danneggino l’interesse protetto ed in particolare che prevedano la sanzione congiunta, pecuniaria e detentiva, solo qualora la violazione abbia effettivamente comportato un danno, per giunta di particolare gravità.

Per contro la maggioranza – forse la totalità – delle contravvenzioni previste dal d.lgs. n. 152/2006, introdotte con precedenti o successivi decreti legislativi sono catalogabili come reati di pericolo astratto; certamente lo sono quelle previste dall’art. 256. Il dubbio di legittimità dello stesso appare quindi più che fondato e non solo per la parte in cui prevede la pena congiunta per il solo fatto che la violazione, qualunque essa sia, è relativa a rifiuti pericolosi, parte per la quale la violazione del criterio di delega è assolutamente evidente.

In conclusione, prendendo le mosse dalla valutazione degli effetti che potrà avere il controllo meccanico e generalizzato attuabile con RENTRI sul rispetto dei limiti dei depositi temporanei da parte dei produttori di rifiuti, ossia gli effetti derivanti dall’applicazione di prescrizioni e sanzioni quanto meno claudicati sotto il profilo della loro legittimità, si ritiene che la materia meriterebbe di essere attentamente ripensata ed anche oltre il ristretto ambito della regolamentazione di tali depositi.

Marcello Franco

Venezia 15.11.2024