La gestione dei rifiuti in uscita dagli impianti di trattamento alla luce degli interpelli del MASE 

di Oreste PATRONE

Con l’interpello del 29 aprile 2025, il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, tornando su un precedente pronunciamento di analogo contenuto del 18 luglio 2024, ha fornito ulteriori chiarimenti in merito alla corretta gestione dei rifiuti in uscita dagli impianti di trattamento. In tale occasione, il Ministero ha ribadito che i rifiuti provenienti da impianti di trattamento meccanico o meccanico-biologico [TM/TMB] non possono essere gestiti come deposito temporaneo, ritenendo che tale modalità sia riservata esclusivamente ai rifiuti prodotti prima della raccolta e presso il luogo di produzione originaria.

Si tratta, com’è noto, di un criterio interpretativo ai sensi dell’art. 3-septies del D.lgs. 152/2006, e dunque privo di efficacia vincolante. Tuttavia, la sua diffusione istituzionale e amministrativa impone una riflessione critica, poiché la lettura proposta appare non conforme alla lettera della norma né alla logica sistemica della gestione dei rifiuti.

L’argomentazione ministeriale poggia sull’assunto che, una volta conferiti a un impianto di trattamento, i rifiuti cessino di essere “raccolti” e rientrino nel ciclo autorizzato, con conseguente impossibilità di ulteriori fasi di raccolta.

L’art. 183, comma 1, lett. o), del D.lgs. 152/2006 definisce la raccolta come “il prelievo dei rifiuti, la cernita preliminare e il deposito ai fini del trasporto verso un impianto di trattamento”.
Nessun elemento testuale impone tuttavia che tale impianto debba essere il primo o l’unico della filiera. Anzi, il sistema stesso del diritto ambientale – fondato sulla tracciabilità dei flussi e sulla responsabilità del produttore – presuppone che ogni volta che un impianto genera rifiuti a seguito del proprio processo di trattamento, si apra una nuova fase di raccolta.

Gli impianti TM/TMB producono infatti, in modo pacifico, output residuali [CSS, frazione organica stabilizzata, scarti e sovvalli] che vengono conferiti ad altri impianti di recupero o smaltimento. In tal caso, non si comprende per quale motivo l’impianto di trattamento non debba assumere a pieno titolo la qualifica di “produttore di rifiuti”, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. f), e la successiva movimentazione di tali rifiuti non debba dare luogo a una nuova raccolta ai sensi della definizione normativa.

L’idea che la raccolta si esaurisca con il primo conferimento si fonda su una visione monolitica e statica del ciclo di gestione, incompatibile con la realtà impiantistica e con la stessa struttura logica del sistema. Occorre, invece, riconoscere la natura dinamica e ciclica della raccolta, intesa non come evento puntuale ma come funzione sistemica che si ripete ogniqualvolta un soggetto qualificato produce e movimenta nuovi rifiuti. 

Da ciò deriva una distinzione concettualmente utile – benché non esplicitata dal legislatore – tra raccolta primaria, riferita ai rifiuti prodotti dall’attività originaria, e raccolta secondaria, riferita ai rifiuti derivanti da impianti di trattamento. Negare quest’ultima significherebbe negare la qualifica di produttore agli impianti, in contrasto con quanto previsto dall’art. 183, comma 1, lett. f), del D.lgs. 152/2006 e con l’evidenza che è dalla sua attività che si determina la formazione di nuovi rifiuti, dando origine a un autonomo ciclo di gestione e a una nuova fase di raccolta. 

Del resto, si tratta di un principio pacificamente riconosciuto, radicato tanto nella prassi quanto nella giurisprudenza amministrativa. Già il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5242 del 2014, riferendosi ai rifiuti generati dall’attività di tritovagliatura, aveva affermato con chiarezza che, “sulla base della definizione di nuovo produttore, il trattamento muta la composizione merceologica e le caratteristiche chimico-fisiche del rifiuto, producendo così un nuovo rifiuto”. In questo senso, la giurisprudenza ha avuto il merito di restituire coerenza logica e sistematica a un quadro normativo che, pur complesso, mantiene una struttura concettuale chiara: ogni volta che un soggetto – sia esso un’industria, un impianto di recupero o un TMB – effettua operazioni che modificano la natura o la composizione dei rifiuti, egli diviene, a pieno titolo, nuovo produttore. 

Tale principio, lungi dall’essere una mera costruzione interpretativa, costituisce un cardine della tracciabilità e della responsabilità gestionale, elementi che reggono l’intero sistema di disciplina dei rifiuti. Lo stesso interpello, inoltre, riconosce che né la messa in riserva né il deposito preliminare risultano concettualmente idonei a descrivere la fattispecie in esame, rinviando la relativa disciplina alla sede autorizzativa. Si crea, così, un’area grigia solo per effetto dell’impostazione interpretativa ministeriale, non per reale lacuna del sistema: è la lettura del MASE, più che la norma, a generare l’ambiguità che pretende di risolvere.

L’attività interpretativa sembra talvolta trarre gratificazione dall’individuazione delle criticità più che dalla ricerca delle soluzioni. È una tendenza, tutta italiana, a penetrare nelle pieghe più minute della norma alla ricerca di eccezioni, paradossi o fattispecie marginali, come se il valore dell’interpretazione risiedesse più nella capacità di individuare l’anomalia che di ricomporre la coerenza del sistema.
Così, l’analisi giuridica rischia di ridursi a un esercizio intellettuale fine a sé stesso, che moltiplica le incertezze invece di scioglierle e costruisce i problemi anziché risolverli nelle pieghe del dettato normativo. È il segno di una cultura amministrativa che talvolta confonde l’analisi microscopica per profondità, rinunciando a quella visione d’insieme che da sola può restituire al diritto la sua funzione ordinatrice.

L’interpello ministeriale, pur non vincolante, rischia di introdurre un equivoco concettuale che attribuisce rilievo autorizzatorio a una fattispecie estranea al sistema definitorio della gestione dei rifiuti, che non trova fondamento nella logica né nella struttura della disciplina dei rifiuti.

In conclusione, la raccolta non va intesa come un segmento chiuso e irripetibile del ciclo dei rifiuti, ma come una funzione ricorrente e generativa, che accompagna ogni passaggio del sistema autorizzato. Solo questa lettura, aderente al dato normativo e coerente con la prassi impiantistica, consente di preservare la razionalità del diritto ambientale e la sua effettiva capacità di governo dei processi reali, evitando che la funzione interpretativa degeneri in supplenza normativa.