La verità, vi prego, sui codici a specchio
di Alberto GALANTI
Già in passato si era sottolineato[1] come il diritto vivente europeo si fosse ormai orientato verso la dissoluzione dei dubbi che attanagliavano il dibattito nazionale in relazione ai rifiuti contrassegnati da un codice speculare, ossia quei rifiuti che, a seconda della presenza ovvero della concentrazione di sostanze pericolose, possono essere, alternativamente, pericolosi o non pericolosi [2].
In particolare, si faceva riferimento alla “Comunicazione della Commissione – Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti (2018/C 124/01)”, pubblicata il 9 aprile 2018 sulla Gazzetta UE (C 124/134), che forniva indicazioni molto chiare in ordine al procedimento da seguire nella classificazione dei rifiuti [3].
Si era sostenuto in particolare che nel caso di rifiuti connotati da codice specchio il primo gradino è costituito dall’ottenere informazioni sulla composizione del rifiuto e sulla presenza di sostanze pericolose al suo interno, informazioni che possono essere desunte dalla scheda tecnica del rifiuto, dal suo processo produttivo, da prove dirette o da analisi chimiche. Se, proceduto a svolgere tutte le operazioni di cui sopra, non è possibile “valutare le caratteristiche di pericolo presentate dai rifiuti”, il rifiuto va classificato come pericoloso.
Se, invece, le operazioni di cui sopra consentono di valutare la pericolosità dei suoi componenti, il passo successivo è costituto dal verificare se per effetto della presenza di tali sostanze il rifiuto presenti una delle caratteristiche di pericolo da HP1 a HP15.
Il passo successivo era costituito dalla verifica della assenza, nelle concentrazioni previste dall’apposito regolamento, di POP, ossia gli inquinanti organici persistenti.
Solo al termine di questo percorso, concluso in senso negativo, il rifiuto poteva essere classificato come non pericoloso.
Si era altresì evidenziato la Corte di Cassazione, con ordinanza del 27 luglio 2017 n. 37460, aveva sollevato questione di pregiudizialità europea dinanzi alla Corte di Giustizia UE (Cause riunite Verlezza e altri c/ Italia da C 487/17 a C 489/17).
In data 28 marzo 2019 la Corte di Giustizia ha depositato la motivazione della sentenza.
Essa, se letta congiuntamente alle conclusioni dell’Avvocato generale e al predetto Documento della commissione, fornisce all’esegeta un panorama davvero esaustivo, quello che potremmo definire “lo statuto dei rifiuti con codici speculari”.
Ma soprattutto rende finalmente senza alibi la condotta di chi “trucca le carte” nel procedimento di “caratterizzazione” dei rifiuti.
Essa è una operazione che il produttore compie, consistente nel determinare le caratteristiche del rifiuto (una sorta di “mappatura” dello stesso) attraverso la raccolta di tutte le informazioni disponibili: natura delle materie prime o dei rifiuti in ingresso all’impianto (“analisi merceologica”), analisi delle eventuali schede del produttore, conoscenza e descrizione del processo operato, indicazione delle eventuali sostanze con cui le materie o i rifiuti sono entrati in contatto. Questa è la c.d. “analisi tecnica” del rifiuto.
Tali attività, in moltissimi casi, non sono sufficienti a determinare con chiarezza se un rifiuto è o meno pericoloso. Allora il rifiuto deve essere sottoposto ad “analisi chimica”.Tali analisi debbono essere svolte, sotto il profilo quantitativo, in modo tale che la percentuale soggetta a campionamento e analisi sia rappresentativa dello stesso e, sotto il profilo qualitativo, tali da ricercare tutte quelle sostanze, o loro composti, la cui presenza potrebbe essere suggerita dalle informazioni di cui sopra (non a caso la versione in lingua inglese della decisione 2014/955/UE relativa alla classificazione di rifiuti parla di ricerca di tutte le “ sostanze pericolose corrispondenti alle classi di pericolo”).
Se è già stata formulata una previsione sul possibile impianto di destino, occorre inoltre che siano svolte tutte le analisi necessarie a verificare che il rifiuto prodotto sia compatibile con le autorizzazioni in possesso di tale impianto (c.d. “caratterizzazione di base” ex D.M. 29.09.2010 per il collocamento in discarica). Tale ulteriore caratterizzazione non va confusa con quella operata ai fini della classificazione del rifiuto. Come si è avuto modo di evidenziare icasticamente, infatti, quest’ultima è una sorta di carta di identità del rifiuto, mentre la caratterizzazione di base ai fini del collocamento in discarica è una sorta di certificato di morte dello stesso.
La Comunicazione della Commissione
Preliminarmente va sottolineato come la Corte di Giustizia (par. 47), poiché la comunicazione della Commissione del 9 aprile 2018 è successiva ai fatti di causa, ritenga che non si debba tener conto della stessa nell’ambito delle sue risposte alle questioni pregiudiziali, in considerazione della natura penale di tali procedimenti.
Tale assunto, a sommesso avviso di chi scrive, appare errato, in quanto la Comunicazione della Commissione non ha alcuna valenza innovativa, limitandosi al contrario a dettare delle linee guida alla luce della legislazione vigente, assumendo tutt’al più valenza interpretativa. Ad essa quindi non avrebbe dovuto applicarsi il principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole al reo.
In ogni caso, la notizia positiva è che le conclusioni cui perviene la corte sono perfettamente sovrapponibili a quelle della Comunicazione della Commissione, come dalla stessa Corte espressamente evidenziato.
La legittimità del D.L. 116/2014
Altro spunto importante è la affermazione, condivisa sia dall’Avvocato Generale che dalla Corte europea, secondo cui la disciplina introdotta in Italia con il D.L. 116/2014 (che aveva riscritto la parte introduttiva dell’Allegato alla parte IV del D. lgs. 152/2006, dettando norme in materia di classificazione dei rifiuti) era sostanzialmente compatibile con il diritto armonizzato europeo.
Priva di pregio appare, quindi, l’obiezione, presente anche in testi governativi, e segnatamente nell’ultima modifica normativa (il c.d. “decreto Mezzogiorno”, art. 9 del decreto legge 20 giugno 2017, n. 91) secondo cui tale normativa sarebbe stata incompatibile con il nuovo regolamento UE e la nuova Decisione in materia di classificazione dei rifiuti.
Ancora, secondo le parti private, la legge n. 116/2014 costituirebbe una «regola tecnica» che avrebbe dovuto essere notificata previamente alla Commissione. Poiché tale notifica non è avvenuta, detta legge, sempre secondo le difese degli imputati, non avrebbe potuto applicarsi ai singoli.
Secondo la Corte, al contrario, “ è pacifico che, adottando le disposizioni della legge n. 116/2014, la Repubblica italiana ha adempiuto obblighi derivanti da direttive in materia di classificazione dei rifiuti, in particolare dalla direttiva 2008/98. Pertanto, ammettendo che la legge n. 116/2014 rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 98/34, l’assenza di notifica di tali disposizioni da parte di detto Stato membro non costituirebbe un vizio procedurale sostanziale tale da comportare l’inapplicabilità ai singoli delle regole tecniche di cui trattasi. Detta assenza non inficia la loro opponibilità ai singoli e non ha quindi, in quanto tale, alcuna incidenza sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali ”.
Crolla un altro dei totemsu cui riposava, lo vedremo, la teoria della probabilità.
La questione linguistica
Il giudice del rinvio nutriva anche dubbi sull’interpretazione di due termini di cui al punto 2 della rubrica «Valutazione e classificazione» dell’allegato della decisione 2000/532, come modificati dalla decisione 2014/955.
Secondo il testo italiano di tale disposizione, infatti, «(...) l’iscrizione di una voce nell’elenco armonizzato di rifiuti contrassegnata come pericolosa, con un riferimento specifico o generico a “sostanze pericolose”, è opportuna solo quando questo rifiuto contiene sostanze pericolose pertinenti che determinano nel rifiuto una o più delle caratteristiche di pericolo (...) ».
Rileva l’avvocato Generale (la Corte non tratta questo aspetto) che il giudice del rinvio afferma che, secondo talune interpretazioni, l’impiego dei termini «opportuna» e «pertinenti», in relazione ai codici specchio, confermerebbe che può sussistere un potere discrezionale di valutazione e che l’accertamento della pericolosità è limitato ai componenti del rifiuto pertinenti in funzione della loro pericolosità.
Dopo avere fatto riferimento alle altre versioni linguistiche di tale disposizione onde verificare se sussistano differenze e, in caso affermativo, interpretarla in funzione dell’economia generale e della finalità della normativa di cui essa fa parte, l’avvocato generale conclude nel senso che“ le versioni in lingua spagnola, portoghese, francese e inglese della disposizione in parola coincidono nel senso che, quando si tratta di rifiuti con codici specchio, il loro inserimento nell’elenco armonizzato di rifiuti contrassegnati come pericolosi si giustifica o è appropriato solo «(...) quando questo rifiuto contiene sostanze pericolose che determinano nel rifiuto una o più delle caratteristiche di pericolo (...)». Un rifiuto al quale risulta applicabile un codice specchio è classificato con una voce MH solo se contiene sostanze che determinano in esso una o più delle quindici caratteristiche di pericolo previste nell’allegato III della direttiva 2008/98”.
Pertanto, secondo l’Avvocatura generale della Corte, “ non esiste alcun margine di discrezionalità o di opportunità al riguardo ”.
Cade, e anche rumorosamente, un altro presupposto fondante della “teoria probabilistica”: il produttore, in altri termini, non ha alcuna discrezionalità nella selezione delle sostanze da ricercare, esse discendono direttamente dalla natura e dall’origine del rifiuto stesso.
I codici a specchio
Venendo al nocciolo della questione in esame (sintetizzato nei primi tre quesiti rimessi alla Corte di giustizia UE [4]), come ricorda l’Avvocato Generale (punto 33 delle sue conclusioni), “ la classificazione di un rifiuto come pericoloso comporta rilevanti conseguenze giuridiche, giacché la direttiva 2008/98 assoggetta la sua gestione a condizioni rigorose. Tra l’altro, essa impone di fornire elementi di prova ai fini della tracciabilità dei rifiuti secondo il sistema istituito dallo Stato membro (articolo 17), vieta la miscelazione (articolo 18), stabilisce obblighi specifici in termini di etichettatura e imballaggio (articolo 19) e prescrive che i rifiuti pericolosi siano trattati esclusivamente in impianti appositamente designati che hanno ottenuto un’autorizzazione speciale.
Se la composizione del rifiuto è nota, il produttore lo classifica, conformemente all’EER, secondo una voce AH o una voce ANH. La classificazione risulta invece più complessa quando si tratta di rifiuti riconducibili a voci specchio, poiché il produttore o detentore deve intraprendere una valutazione più approfondita per assegnarli, in definitiva, a una voce MH o a una MNH. Il giudice a quo si trova di fronte a quest’ultima situazione ” (punto 45).
Secondo la Corte, invece (punti 40 e 41 della sentenza), “ qualora la composizione di un rifiuto cui potrebbero essere attribuiti codici speculari non sia immediatamente nota, spetta al suo detentore, in quanto responsabile della sua gestione, raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato.Infatti, in mancanza di tali informazioni, il detentore di un siffatto rifiuto rischia di venir meno ai suoi obblighi in quanto responsabile della sua gestione, qualora successivamente risulti che tale rifiuto è stato trattato come rifiuto non pericoloso, malgrado presentasse una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98 ”.
L’avvocato generale e la Corte convengono con il giudice del rinvio, secondo cui è necessaria non una ricerca indiscriminata di tutte le sostanze che i rifiuti potrebbero astrattamente contenere, ma un’adeguata caratterizzazione degli stessi basata prima sull’accertamento della loro esatta composizione e, successivamente, sulla verifica della pericolosità delle sostanze così individuate.
Ed infatti, al punto 50 delle conclusioni dell’avvocato generale si legge che “ ai sensi dell’articolo 3, punto 2, della direttiva 2008/98, per valutare la pericolosità occorre, in primo luogo, conoscere la composizione del rifiuto, onde individuare le sostanze pericolose in esso contenute che possono attribuirgli una o più delle quindici caratteristiche di pericolo (da HP 1 a HP 15) dell’allegato III. Spetta al produttore o detentore procedere alle verifiche necessarie nel caso in cui non conosca la composizione del rifiuto.Esistono modi diversi per il produttore o detentore del rifiuto per raccogliere informazioni sulla sua composizione pertinente, sulle sostanze pericolose presenti e sulle potenziali caratteristiche di pericolo dello stesso:
– informazioni sul processo chimico e sul processo di fabbricazione che «generano rifiuti» e sulle relative sostanze in ingresso e intermedie, inclusi i pareri di esperti. Possono essere fonti utili le relazioni BREF (35), i manuali dei processi industriali, le descrizioni dei processi e gli elenchi di materiali di ingresso forniti dal produttore;
– informazioni fornite dal produttore originario della sostanza o dell’oggetto prima che questi diventassero rifiuti, ad esempio schede di dati di sicurezza (SDS), etichetta del prodotto o schede di prodotto;
– banche dati sulle analisi dei rifiuti disponibili a livello di Stati membri; e
– campionamento e analisi chimica dei rifiuti.
Una volta raccolte le informazioni sulla composizione del rifiuto, il produttore deve accertare se esso sia identificato come pericoloso (non sarà il caso standard) o contenga sostanze che presentano caratteristiche di pericolo (il caso standard, che ricorre nei presenti procedimenti). Le sostanze devono essere classificate secondo il regolamento (CE) n. 1272/2008 (36), mentre la presenza di sostanze pericolose nei rifiuti deve essere accertata conformemente all’allegato III della direttiva 2008/98.
Il regolamento n. 1272/2008, che adatta per l’Unione europea il sistema internazionale di classificazione delle sostanze chimiche delle Nazioni Unite (sistema generale armonizzato – GHS), fornisce criteri dettagliati per la valutazione delle sostanze e la determinazione della classificazione dei pericoli presentati dalle stesse.
Ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, di detto regolamento, i rifiuti non costituiscono una sostanza, una miscela o un articolo; di conseguenza, gli obblighi ivi previsti non si applicano ai produttori o detentori di rifiuti. Tuttavia, l’allegato VI prevede una serie di classificazioni armonizzate di sostanze pericolose, che devono essere utilizzate nella classificazione dei rifiuti, dato che molti dei codici specchio si riferiscono, specificamente, a «sostanze pericolose» ”.
Le conclusioni dell’avvocato generale e della Corte proseguono asserendo che la presenza di sostanze pericolose deve essere accertata dal produttore o detentore del rifiuto conformemente all’allegato III della direttiva 2008/98, che descrive quindici caratteristiche che rendono i rifiuti pericolosi.
Tale accertamento può essere eseguito:
a) mediante calcolo, vale a dire stabilendo se le sostanze presenti nei rifiuti in esame presentano valori uguali o superiori ai limiti di soglia basati sui codici di indicazione di pericolo (che dipendono individualmente dalle proprietà da HP 4 a HP 14), e
b) mediante prove atte a stabilire se i rifiuti presentano caratteristiche di pericolo (metodo particolarmente adatto per le caratteristiche da HP 1 a HP 4).
Se il rifiuto presenta una o più delle quindici caratteristiche di pericolo, il produttore o detentore deve classificarlo in una voce specchio di rifiuto pericoloso (MH). In caso contrario, esso potrebbe essere comunque classificato in tal modo qualora contenesse uno degli inquinanti organici persistenti (c.d. POP) indicati nell’allegato dell’EER (punto 2, terzo trattino) in quantità superiori alla soglia pertinente di cui all’allegato IV del regolamento (CE) n. 850/2004.
Secondo l’avvocato generale va senza dubbio esclusa la fondatezza di quella che il giudice del rinvio definisce la “tesi della probabilità”, secondo cui il produttore del rifiuto disporrebbe di un margine didiscrezionalità nella classificazione come pericolosi o come non pericolosi dei rifiuti riconducibili a voci specchio, in quanto sarebbe impossibile eseguire prove per individuare tutte le sostanze presenti nei rifiuti, che sarebbero inevitabilmente classificati con voci MH.
Ed infatti, secondo l’Avvocato generale “ la normativa dell’Unione impone al produttore o detentore di procedere a un ragionevole accertamento della composizione dei rifiuti e di verificare successivamente l’eventuale pericolosità delle sostanze individuate onde stabilire, in funzione dei loro valori di concentrazione, se ricadano nell’allegato III della direttiva 2008/98 o nell’allegato IV del regolamento n. 850/2004 ”.
Secondo l’avvocato generale l’articolo 7 e l’allegato III alla direttiva 2008/98 nonché l’allegato alla decisione 2000/532, rubrica «Valutazione e classificazione», punto 2, «Classificazione di un rifiuto come pericoloso», “ dovrebbero essere interpretati nel senso che il produttore o detentore di un rifiuto con codice specchio ha l’obbligo di accertarne la composizione e di verificare successivamente, mediante calcolo o prove, se esso contenga sostanze pericolose o che presentano uno degli indizi di pericolosità elencati nell’allegato III della direttiva 2008/98 o nell’allegato IV del regolamento n. 850/2004. A tal fine si possono utilizzare i campionamenti, le analisi chimiche e le prove previsti dal regolamento n. 440/2008 oppure riconosciuti a livello internazionale o ammessi dal diritto interno dello Stato membro ”.
La Corte parimenti conclude (par. 46) nel senso che “ conformemente all’allegato, rubrica intitolata «Valutazione e classificazione», punto 2, primo trattino, della decisione 2000/532, la classificazione di un rifiuto che può rientrare in codici speculari in quanto «rifiuto pericoloso» è opportuna solo quando tale rifiuto contiene sostanze pericolose che gli conferiscono una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98. Ne consegue che il detentore di un rifiuto, pur non essendo obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ha tuttavia l’obbligo di ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi, e non ha pertanto alcun margine di discrezionalità a tale riguardo ”.
Conclude la corte di Giustizia UE affermando che “ l’allegato III della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, come modificata dal regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014, nonché l’allegato della decisione 2000/532/CE della Commissione, del 3 maggio 2000, che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi, come modificata dalla decisione 2014/955/UE della Commissione, del 18 dicembre 2014, devono essere interpretati nel senso che il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento (CE) n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008, che istituisce dei metodi di prova ai sensi del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale ”.
Sembra quasi ultroneo sottolineare come, nel percorso logico della Corte e dell’avvocato generale, il fulcro risieda nella conoscenza della composizione del rifiuto. Conoscenza che non può certo essere assicurata dall’affidamento del rifiuto al laboratorio di analisi affinchè proceda in base a kit analitici predefiniti.
Il principio di precauzione
Il principio di precauzione viene toccato in due distinti punti della sentenza.
In primo luogo con riferimento alla conclusione raggiunta in ordine ai margini di discrezionalità in capo al produttore nella selezione delle sostanze pericolose da ricercare.
In tal senso, l’interpretazione sostenuta dalla Corte (quella della teoria della certezza attenuata) sarebbe anche “ conforme al principio di precauzione, che è uno dei fondamenti della politica di tutela perseguita dall’Unione in campo ambientale, posto che dalla giurisprudenza della Corte risulta che una misura di tutela quale la classificazione di un rifiuto come pericoloso s’impone soltanto qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, sussistano elementi obiettivi che dimostrano che una siffatta classificazione è necessaria (v., per analogia, sentenze del 7 settembre 2004, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, C 127/02, EU:C:2004:482, punto 44, nonché del 13 settembre 2017, Fidenato e a., C 111/16, EU:C:2017:676, punto 51) ”. Non vi è dubbio, quindi, che il principio di precauzione costituisce il “faro” che illumina il produttore del rifiuto nella selezione e ricerca della sostanze di cui è composto il rifiuto.
Inoltre, col quarto quesito la Corte di Cassazione chiedeva se il principio di precauzione debba essere interpretato nel senso che, in caso di dubbio riguardo alle caratteristiche di pericolo di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari, o in caso di impossibilità di determinare con certezza l’assenza di sostanze pericolose in tale rifiuto, quest’ultimo debba, in applicazione di tale principio, essere classificato come rifiuto pericoloso.
Secondo la Corte, “ il legislatore dell’Unione, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica, in modo che i detentori di rifiuti non siano obbligati a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ma possano limitarsi a ricercare le sostanze che possono essere ragionevolmente presenti in tale rifiuto e valutare le sue caratteristiche di pericolo sulla base di calcoli o mediante prove in relazione a tali sostanze ”.
La Corte conclude nel senso che “ una misura di tutela come la classificazione di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari in quanto rifiuto pericoloso è necessaria qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di tale rifiuto si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare la caratteristica di pericolo che detto rifiuto presenta ”, con la precisazione che “ una siffatta impossibilità pratica non può derivare dal comportamento del detentore stesso del rifiuto ”.
Conclude quindi affermando che “ il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso ”.
Pertanto, se alla fine del percorso di caratterizzazione non sia nota la composizione del rifiuto, esso va classificato come pericoloso.
Sul punto, la sentenza differisce dalle conclusioni dell’avvocato generale. Egli infatti aveva sostenuto nelle sue conclusioni che “ il principio di precauzione o cautela non può essere fatto valere dal produttore o detentore di un rifiuto come pretesto per non applicare la procedura di classificazione dei rifiuti con codici specchio di cui alla direttiva 2008/98 e alla decisione 2000/532, salvo che l’analisi della sua composizione e/o degli indizi di pericolosità dei suoi componenti risulti impossibile ”, e che “ il principio di precauzione giustificherebbe invece la classificazione di un rifiuto in una voce speculare MH qualora risultasse impossibile analizzare la composizione dello stesso e/o gli indizi di pericolosità dei suoi componenti, per motivi non imputabili al produttore o detentore. In tal caso, sussisterebbe un rischio reale per la salute o per l’ambiente, che legittimerebbe la classificazione del rifiuto in una voce speculare MH quale misura restrittiva per «neutralizzare» la sua pericolosità ”.
In sostanza, l’avvocatura generale della Corte, forse perché lontana dai fatti di causa, aveva fornito una lettura opposta a quella concreta: nel caso di specie non si contestava al produttore di avere tentato di sottrarsi al principio di precauzione evitando di fare le analisi sulla composizione dei rifiuti classificandoli come speculari pericolosi, quanto al contrario di averli classificati come speculari non pericolosi senza adeguata caratterizzazione, in violazione del principio di precauzione, che gli imputati ritenevano non applicabile al produttore di rifiuti.
Tuttavia, questa affermazione ha una sua importanza, perché fa comprendere come il rifiuto debba essere sempre caratterizzato, in quanto potrebbero esistere differenti tipi di pericolosità (ad esempio irritante ed esplosivo) che necessitano di gestione e smaltimento differenti: conoscerne la composizione è quindi fondamentale ai fini di una gestione ecologicamente corretta e conforme al principio di precauzione.
Ad ogni buon conto, l’unica certezza è che il principio di precauzione dispiega la sua diretta efficacia anche nei confronti del produttore del rifiuto e anche nel procedimento di caratterizzazione.
I nodi irrisolti
Resta sullo sfondo il cuore del problema, che spetterà alla corte di Cassazione dirimere: posto che il produttore deve caratterizzare opportunamente il rifiuto nei modi che si sono detti; posto che il produttore deve classificare il rifiuto con codice speculare come pericoloso quando si trovi nell’impossibilità pratica non a lui imputabile di caratterizzarlo in modo completo; quidjuris nel caso in cui la causa dell’incompleta caratterizzazione sia al contrario imputabile al gestore (che è quello che accade in concreto nella maggioranza dei casi)?
Una lettura sistematica della normativa e della giurisprudenza dovrebbe condurre a ritenere che in casi siffatti il rifiuto dovrebbe essere classificato come pericoloso, e che non competa agli organi inquirenti dimostrarne la pericolosità, ma al produttore la non pericolosità. Come si è già avuto modo di affermare [5], “ in tali casi non di “inversione dell’onere della prova” deve parlarsi, ma di corretta applicazione dei principi stabiliti dall’Unione europea ”.
Altro punto fondamentale: quando si può affermare che il produttore ha adempiuto all’obbligo di corretta caratterizzazione del rifiuto?
Come si è già avuto modo di affermare “ con nota 5 giugno 2015 n. 24707, l’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha fornito un parere in ordine alla corretta classificazione dei rifiuti prodotti all’interno di uno stabilimento rifiuti del Lazio, identificati con il codice 191212 (rifiuti derivanti dal trattamento meccanico dei rifiuti, diversi da quelli di cui al codice 191211*). Secondo ISPRA, “ la norma pone in capo al produttore la responsabilità della corretta classificazione del rifiuto prodotto sulla base dell'origine e della composizione dello stesso. ...[omissis] … Per effettuare la classificazione dei propri rifiuti il produttore deve quindi selezionare i parametri da analizzare, partendo dalla conoscenza del processo che ha generato il rifiuto ed individuare le sostanze pericolose pertinenti la cui concentrazione deve essere valutata al fine di escludere la pericolosità del proprio rifiuto. La parte più interessante del parere è quella secondo cui i referti analitici relativi ai rifiuti devono necessariamente essere accompagnati da “una relazione tecnica esaustiva che consenta di conoscere le caratteristiche del rifiuto in ingresso all’impianto, le fasi di processo, i flussi e le caratteristiche dei rifiuti e/o materiali prodotti”. Detta relazione, secondo ISPRA, “risulta indispensabile per escludere eventuali elementi di pericolosità del rifiuto qualora lo stesso sia identificato da una voce specchio dell’elenco europeo dei rifiuti. Pertanto, classificare il rifiuto utilizzando solo i risultati di referti analitici, riferiti chiaramente ad un numero parziale di parametri non costituisce un approccio metodologico corretto ”.
L’assenza di una relazione esaustiva del processo di caratterizzazione del rifiuto potrà quindi costituire di per sé indice di un procedimento incompleto.
In tutti questi casi non dovrà essere cura degli organi inquirenti dimostrare, tramite analisi, la natura pericolosa del rifiuto: in caso di omessa o insufficiente caratterizzazione di un rifiuto con codice speculare, e successiva classificazione come non pericoloso, al produttore potrà contestarsi, a seconda dei casi, la gestione illecita di rifiuti (art. 256 TUA) ovvero il delitto di attività organizzate per il traffico di rifiuti (art. 452-quaterdecies c.p.), se da tale erronea classificazio ne deriva una gestione del rifiuto non conforme alla legge o all’autorizzazione.
Alberto Galanti, Magistrato
[1] “La classificazione dei rifiuti con “codice specchio” - Dalla Commissione europea un contributo di chiarezza” (pubblicato sul sito Diritto Penale Contemporaneo, 17 maggio 2018, nonché in DPC n. 5/2018, pag. 177 ss.).
[2] Si evidenziava in particolare (ibidem, pag. 180 ss.) come si contendessero il campo da anni due opposte tesi, semplicisticamente denominate “teoria della probabilità” (secondo cui la c.d. caratterizzazione analitica dovrebbe riguardare solo le sostanze ritenute “pertinenti”, selezionate discrezionalmente dal produttore) e “teoria della certezza” (secondo cui sarebbe sempre necessaria la conoscenza precisa della composizione del rifiuto per escluderne la natura pericolosa).
[3] Si concludeva peraltro nel senso che tra la “teoria della certezza” e la “teoria della probabilità”, il normatore europeo avesse scelto una terza via, che potremmo definire “teoria della certezza attenuata”.
[4] Si riporta il testo dei tre quesiti:
a) Se l’allegato alla Decisione 2014/955/UE ed il Regolamento UE n. 1357/2014 vadano o menointerpretati, con riferimento alla classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il produttore del rifiuto, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previacaratterizzazione ed in quali eventuali limiti;
b) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate;
c) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto.
[5] Ibidem, pag. 216.