I SOTTOPRODOTTI TRA DIRITTO COMUNITARIO E NAZIONALE
di Vincenzo PAONE

I sottoprodotti  fanno la loro comparsa nel dibattito giuridico con la famosa sentenza della Corte di giustizia del 18 aprile 2002 resa nella causa C-9/00, Palin Granit (), che ha tratteggiato per la prima volta la relativa figura in modo da evidenziarne i requisiti sostanziali.

Si tratta dunque di una nozione elaborata in via pretoria, come si suol dire, e ciò è confermato dal fatto che la vigente legislazione comunitaria non contempla alcuna definizione formale di questa categoria giuridica.

Per la verità, esiste un progetto de iure condendo di disciplina dei sottoprodotti  ed è quello che si riscontra nell’art. 4 della Risoluzione legislativa del Parlamento europeo sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti del 13 febbraio 2007 che ha posto la distinzione tra sottoprodotti e rifiuti in questi termini:

«Per essere classificati come sottoprodotti e non come rifiuti, una sostanza o un oggetto derivanti da un processo di produzione, il cui obiettivo primario non sia la loro produzione, devono rispettare le seguenti condizioni:

a) l\'ulteriore utilizzo della sostanza o dell\'oggetto è assicurato;

b) la sostanza o l\'oggetto possono essere utilizzati direttamente senza ulteriore trattamento che non sia la consueta pratica industriale;

c) l\'ulteriore utilizzo della sostanza o dell\'oggetto forma parte integrale di un processo di produzione o esiste un mercato per la sostanza o per l\'oggetto quale prodotto; e

d) l\'ulteriore utilizzo è conforme alla legge, vale a dire che la sostanza o l\'oggetto soddisfano tutti i requisiti produttivi, ambientali e di protezione della salute relativi all\'applicazione specifica».

In attesa che la proposta appena riportata diventi legge, vediamo sommariamente come la giurisprudenza comunitaria abbia  costruito la figura del sottoprodotto.

Il punto di partenza del ragionamento della Corte europea è l’esistenza di un residuo di produzione e cioè di un materiale che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo.

Se infatti in via ordinaria il residuo costituisce per l\'impresa un «ingombro» di cui disfarsi (e perciò è destinato a trasformarsi in un rifiuto), può anche capitare, dice la Corte, che il residuo possegga ancora un valore, una potenzialità d’uso per l’impresa che lo ha ottenuto nel qual caso ci si troverebbe in presenza di un sottoprodotto suscettibile di ulteriore sfruttamento.

Tuttavia, per evitare qualsiasi rischio per l’ambiente – dovuto ad un’eccessiva dilatazione della nozione di sottoprodotto a scapito di quella di rifiuto () – è necessario che  il riutilizzo del materiale sia certo, avvenga nel corso del processo di produzione, senza operare trasformazioni preliminari, non procuri alcun pregiudizio per l’ambiente e faccia comunque conseguire un vantaggio economico al detentore.

Se ricorrono cumulativamente questi requisiti il residuo, come si è già detto, non può essere qualificato un rifiuto. Ecco perché la riflessione sulla categoria giuridica del sottoprodotto  è molto delicata perché tale concetto rappresenta una delimitazione dall’esterno della nozione di rifiuto.

Vi è quindi l’esigenza che su questo versante vi sia la massima certezza. Sennonché, l’elaborazione delle sentenze europee in tema di sottoprodotti presenta alcuni profili oscuri o comunque non adeguatamente chiariti.

Infatti, mentre non si registra alcuna incertezza sul fatto che il riutilizzo debba essere certo ed effettivo, e perciò non solo eventuale o meramente probabile (), e debba riguardare il residuo nella sua interezza, alcuni  dubbi si pongono in relazione ad altri requisiti, come quello per cui il riutilizzo del sottoprodotto debba avvenire nella sua forma “tal quale” e cioè senza trasformazioni preliminari e quello concernente il ciclo in cui può essere immesso il residuo.

Vi è stato infatti chi () ha proposto di interpetare l’espressione trasformazioni preliminari nel senso di «operazioni di recupero complete» () ritenendo perciò lecito sottoporre il residuo a «trattamenti preliminari», come la selezione, la compattazione, la cernita, ecc., che non modificano radicalmente le proprietà e le caratteristiche del residuo  (come avviene in esito ad operazioni di recupero completo).

La tesi però non persuade perché  la Corte ha più volte chiarito che il residuo deve essere utilizzato «tal quale», il che non può avere altro significato se non quello che debba già essere pronto per l’impiego nel momento in cui si origina dal processo produttivo.

Non è perciò ammissibile che su di esso vengano eseguite operazioni, anche minimali, quali la cernita o selezione, la separazione, la vagliatura, l’adeguamento volumetrico sotto forma di compattamento, frantumazione, macinazione ecc. (),  che, pur non intervenendo in modo radicale sull’identità merceologica della sostanza, abbiano tuttavia la funzione di modificare comunque il materiale per consentirne il suo inserimento in un nuovo ciclo produttivo.

Per chiarire il concetto, si può dire che i materiali che si ottengono a seguito di una cernita o di una frantumazione sono diversi, quanto a composizione o consistenza, rispetto al materiale di partenza. Perciò, se solamente dopo la cernita (e/o qualsiasi altra trasformazione che ne modifichi l’identità) si ricavano materiali o prodotti pronti per l’impiego in un altro ciclo produttivo, vuol dire che il residuo non è utilizzabile “tal quale” e perciò non è un sottoprodotto, ma un rifiuto che va previamente recuperato.

Questa tesi va preferita rispetto all’altra perché è coerente con l’insegnamento della Corte di giustizia che, nella sentenza del 15 giugno 2000 in causa ARCO/EPON (), ha per l’appunto precisato i confini della nozione di “trasformazioni preliminari” sostenendo che se un\'operazione di recupero completo non priva necessariamente un oggetto della qualifica di rifiuto, ciò vale a maggior ragione per una semplice operazione di cernita o di trattamento preliminare che non hanno l\'effetto di trasformare gli oggetti in un prodotto analogo ad una materia prima, che abbia cioè le medesime caratteristiche di quella e sia utilizzabile nelle stesse condizioni di tutela ambientale.

Chiarita dunque la portata della locuzione “senza operare trasformazioni preliminari”, è possibile meglio lumeggiare il requisito, per la verità, non enunciato in modo esplicito, concernente le caratteristiche merceologiche del residuo che si vuol qualificare come sottoprodotto.

La Corte, infatti, parla di un bene, un materiale o una materia prima che può essere sfruttato in un processo successivo rispetto a quello di fabbricazione o di estrazione. Ebbene, pare evidente che per utilizzare un materiale residuale “tal quale”  come materia prima di un processo produttivo occorre che, fin da quando è terminato il processo produttivo da cui scaturisce, esso possegga le stesse caratteristiche merceologiche, fisico-chimiche della materia prima che va a sostituire e comunque, rispetti le norme tecniche specifiche richieste dalla natura del processo produttivo in cui il materiale è usato.

Questa condizione è richiesta, ovviamente, per scongiurare il rischio che improvvisati utilizzi di sottoprodotti occultino vere e proprie operazioni di smaltimento o recupero di rifiuti.

Ma il requisito sul quale si registra il maggior tasso di incertezza è quello che riguarda il ciclo nel quale si può reimpiegare il residuo.

In realtà, il dubbio ha due aspetti distinti: da un lato, ci si chiede se il processo di produzione nel quale è inseribile il sottoprodotto debba essere solo quello di provenienza; dall’altro lato, in termini più generali, ci si chiede se sia possibile la cessione del residuo/sottoprodotto ad un terzo perché lo utilizzi nel proprio processo di produzione.

Partiamo dalla pronuncia Palin Granit in cui si sostiene che la natura di sottoprodotto potrebbe essere riconosciuta al residuo che un’impresa«intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo».

Molto è stato già detto su questa posizione  della Corte che, per vero, avrebbe potuto anche esser meno «ambigua»!

Proviamo dunque a sintetizzare le questioni.

Nella prima parte della riportata proposizione, quella in cui si fa cenno allo «sfruttamento» diretto da parte dell’impresa che produce il residuo, si potrebbe pensare che la Corte, parlando di “processo produttivo”, alludesse allo stesso processo che ha originato il sottoprodotto con la conseguenza che il riutilizzo dovrebbe essere permesso solo se si svolge nell’identico luogo e sotto la direzione del medesimo imprenditore.

Questa tesi troverebbe una conferma nella sentenza Niselli che, nell’escludere che i rottami ferrosi  potessero essere considerati sottoprodotti, giacchè non sono riutilizzati «nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione», sembra effettivamente postulare la necessità dell’identità tra processo che ha originato il sottoprodotto e successivo processo di riutilizzo.

L’aggettivo «medesimo» in effetti evoca l’idea che l’utilizzo del sottoprodotto debba effettuarsi nell’ambito dello stesso processo produttivo di provenienza.

Va però osservato che  l’esame della fattispecie  concreta oggetto della Niselli sminuisce non poco la portata dell’espressione anzidetta. Infatti, i rottami ferrosi di cui trattasi provenivano dalla demolizione di macchinari e di automezzi e dalla raccolta di oggetti di scarto e dunque non vediamo che significato abbia, per delimitare i confini del processo di produzione in cui i residui avrebbero potuto essere utilizzati, riferirsi ad un processo che neppure è riproducibile!

In realtà, la vera questione che la Corte ha  risolto non era quello del rapporto tra riutilizzo dei rottami e processo produttivo di provenienza, bensì se le operazioni eseguite su quei materiali (cernita e qualche modesto trattamento) fossero sufficienti per far perdere agli stessi la qualità di rifiuto. Ecco perchè nel paragrafo 52 della sentenza, la Corte controbatte alla tesi del Niselli asserendo che i rottami “devono conservare la qualifica di rifiuti finché non siano effettivamente riciclati in prodotti siderurgici, finché cioè non costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. Nelle fasi precedenti, essi non possono ancora, infatti, essere considerati riciclati, poiché il detto processo di trasformazione non è terminato”.

In conclusione, riteniamo che l’opzione interpretativa che disancora il riutilizzo del sottoprodotto dal processo di produzione originario sia più sostenibile rispetto alla contraria tesi restrittiva, anche se non possiamo disconoscere che la stessa comporti un rischio maggiore per l’ambiente derivanti dal fatto che basta «inventarsi» un qualsiasi nuovo ciclo produttivo e dichiarare che in esso si riutilizzano sottoprodotti per sottrarre a qualsiasi controllo i rifiuti di origine industriale.

Tuttavia, va anche detto che il pericolo di abusi può essere efficacemente fronteggiato pretendendo il rigoroso rispetto dei requisiti elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per ritenere legittima l’ulteriore utilizzazione del sottoprodotto, primo tra tutti quello della certezza del riutilizzo e quello della necessità che lo stesso avvenga senza trattamenti di recupero del residuo ().

A corroborare questa conclusione vale poi un altro argomento che, peraltro, ci porta al «cuore» del secondo aspetto del problema sollevato in precedenza. Il giudice comunitario, infatti, in tutte le decisioni sul tema, ha parlato della possibilità per l’impresa di commercializzare a condizioni per lei favorevoli il sottoprodotto.

In questa prospettiva nella pronuncia dell’8 settembre 2005, causa C-416/02, Commissione delle Comunità europee c. Regno di Spagna, la Corte ha sostenuto che il sottoprodotto può essere utilizzato non solo in un insediamento appartenente a soggetto diverso dal produttore originario, ma anche in un ciclo produttivo diverso.

Un ulteriore riscontro a questa interpretazione deriva infine dalle recenti sentenze della Corte di giustizia emesse in data 18 dicembre 2007, causa C‑263/05, C‑194/05 e C‑195/05 in cui si sostiene che «un bene, un materiale o una materia prima risultante da un processo di fabbricazione che non è destinato a produrlo può essere considerato come un sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l’ha prodotto, è non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione».

Ci sembra chiaro che con l’affermazione sopra sottolineata la Corte abbia inteso ribadire che non vi è alcun vincolo per quanto riguarda l’ulteriore utilizzazione del sottoprodotto che dunque è ammessa anche nell’ambito di processi produttivi diversi da quello di origine ().

II. I dubbi che abbiamo espresso commentando la giurisprudenza europea non sono stati sciolti dalla normativa nazionale. Come è noto, infatti, il t.u. 3 aprile 2006 n. 152 ha considerato, espressamente, la figura dei sottoprodotti.

L’art. 183, 1° comma, lett. n), prima della modifica ad opera del d.leg. n. 4/08, dettava la seguente definizione di sottoprodotto: «i prodotti dell\'attività dell\'impresa che, pur non costituendo l\'oggetto dell\'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell\'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto i sottoprodotti di cui l\'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall\'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l\'impresa stessa direttamente per il consumo o per l\'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest\'ultimo fine, per trasformazione preliminare s\'intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo. L\'utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale. Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell\'impianto dove avviene l\'effettivo utilizzo. L\'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l\'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive».

L’attuale definizione è invece la seguente: «sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende disfarsi ai sensi dell\'articolo 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni: 1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; 2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito; 3) soddisfino requisiti merceologici e di qualita\' ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l\'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualita\' ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione; 5) abbiano un valore economico di mercato».

Diciamo subito che, rispetto alla versione originaria, la modifica ad opera del “correttivo” ha reso la disciplina dei sottoprodotti  più conforme alle condizioni elaborate dalla giurisprudenza comunitaria. Ma qualche riserva si deve lo stesso formulare.

Nel punto 1), ad esempio, si stabilisce che i sottoprodotti consistono in sostanze e materiali  originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione: si nota però una variante rispetto al precedente art. 183 in cui si diceva che i materiali – per fregiarsi della qualifica di sottoprodotti – debbano scaturire «in via continuativa dal processo industriale dell\'impresa stessa».

La soppressione della prima parte di questo inciso potrebbe non essere del tutto positiva. Infatti, in precedenza, la lettera della norma rendeva palese che non si potesse neppure discutere dell’esistenza di sottoprodotti se i materiali residuali fossero stati solo “occasionalmente” prodotti dal «processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrli», come recita la giurisprudenza della Corte europea.

Il precetto aveva la sua logica perché mirava ad impedire “improvvisazioni” nel riutilizzo di residui in contrasto con il principio che lo sfruttamento del sottoprodotto deve rispettare, come prima condizione, quella che il riutilizzo sia certo.

La nuova disposizione non è altrettanto precisa al riguardo perché, se è vero che l’attuale testo può essere inteso nel senso che implicitamente è richiesto il requisito della continuatività nella formazione dei residui, in termini squisitamente letterali si può anche ipotizzare un’applicazione della norma a casi di materiali originati da processi di produzione in modo occasionale o saltuario.

Nel punto 2), vi sono notevoli novità perché la norma risponde, più di prima, al criterio della certezza del riutilizzo. L’impresa, infatti, deve individuare e definire da subito il processo di produzione o di utilizzazione nel quale effettuerà l’impiego del sottoprodotto, che dovrà essere anche integrale.

Il legislatore non è invece andato al di là di generiche indicazioni allorchè prevede che l’ulteriore utilizzo del residuo debba avvenire direttamente nel corso del processo di produzione. Questa formula, infatti, non è in grado di chiarire se il processo di produzione nel quale si immettono i sottoprodotti  debba essere proprio quello di provenienza.

Va inoltre notato che nella versione del 2008 è stata rimossa la proposizione «Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto…i sottoprodotti impiegati direttamente dall\'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l\'impresa stessa direttamente per il consumo o per l\'impiego».

Ne deriva che, se non è più consentito il commercio dei sottoprodotti, il loro impiego è confinato all’interno dell’insediamento che li ha prodotti. Il che, in termini di certezza del diritto, è già un bel passo avanti. Non però definitivo perché l’espressione «nel corso del processo di produzione», può alludere tanto allo stesso ciclo di provenienza del residuo quanto ad un qualsiasi processo successivo all’altro.

A favore della tesi più restrittiva (se rapportata all’originaria elencazione dei requisiti dei sottoprodotti, ma senza dubbio rispondente al d.leg. n. 4/08) si è pronunciata la Cassazione con la sentenza 21 dicembre 2006, Palladino () in cui si è affermato che «Viene anzitutto in rilievo la nuova categoria legislativa di “sottoprodotto”, già definita nella giurisprudenza comunitaria…Anche la nuova disciplina, peraltro, appare in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto, come interpretata dalla Corte di Giustizia europea, laddove sottrae alla disciplina sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da quello di origine. Infatti - secondo la sentenza resa dalla Sezione seconda in data 11 novembre 2004, Causa C457/02, Niselli, che riprende sul punto la precedente sentenza Palin Granit Oy del 18.4.2002, C900 - può esulare dalla nozione comunitaria di rifiuto solo un materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo, quando lo stesso produttore lo riutilizza, senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: in tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un “sottoprodotto”, che non ha la qualifica di rifiuto proprio perché il produttore non intende “disfarsene”, ma vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo produttivo (parr. 44 e 52 sent. Niselli)…

Che il ciclo produttivo debba essere il medesimo risulta chiaramente dal par. 52 della sentenza. Del resto secondo l’approccio ermeneutico della giurisprudenza comunitaria, che confligge sul punto con la filosofia del legislatore italiano, se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo produttivo vorrebbe dire che il produttore ha inteso “disfarsi” del residuo per commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.

Tale è dunque la interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto che doveva vincolare il legislatore delegato del 2006 (e prima ancora il legislatore delegante del 2004), e che invece risulta disattesa laddove il D.Lgs. 152/06 definisce come sottoprodotto sottratto alla disciplina dei rifiuti anche il residuo produttivo commercializzato a favore di terzi per essere riutilizzato “tal quale” in un ciclo produttivo diverso da quello di origine.

Comunque come per il summenzionato articolo 14 si deve prescindere in questa sede dalla illegittimità costituzionale della nuova disciplina, in quanto essa non è applicabile alla fattispecie concreta, sia perché non è certa la riutilizzazione dei residui produttivi, sia perché manca un altro presupposto essenziale della norma, e cioè che sia lo stesso produttore del sottoprodotto o a reimpiegarlo nello stesso ciclo produttivo o a commercializzarlo direttamente per il consumo o per un reimpiego in altri processi produttivi. In altri termini, anche ai sensi del D.Lgs. 152/06, il produttore non “si disfa” del residuo produttivo quando o riutilizza direttamente “tal quale” oppure lo commercializza a condizioni per lui economicamente favorevoli perché venga riutilizzato in altri cicli produttivi. Per escludere la disciplina sui rifiuti, quindi, è necessario che a destinare il sottoprodotto al riutilizzo senza trattamenti di tipo recuperatorio sia lo stesso produttore e non un semplice detentore cui la sostanza sia stata conferita a qualche titolo».

In altre pronunce della Corte suprema il discorso è più sfumato e perciò sarà interessante vedere, nel prossimo futuro, come si evolverà la giurisprudenza sulle questioni fin qui dibattute.

Tornando ora ai requisiti di cui all’art. 183, notiamo che il punto 3) prescrive che i sottoprodotti debbano soddisfare requisiti merceologici e di qualita\' ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l\'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati.

Rispetto al passato la versione attuale appare più soddisfacente. Nondimeno, sarebbe stato più opportuno stabilire che l’impatto ambientale, conseguente all’impiego dei sottoprodotti,  non solo non debba superare i limiti autorizzati per l\'impianto in cui gli stessi sono utilizzati, limiti che, giova ricordarlo, sono «tarati» per emissioni che si sviluppano da materie prime non contaminate, ma che non debba, in nessun modo, peggiorare le condizioni ambientali preesistenti. Sotto questo profilo, la sola misura idonea a garantire questo risultato era imporre il rispetto dei limiti, più restrittivi, previsti per le emissioni derivanti dagli impianti di trattamento di  quelle stesse sostanze che, se non fossero qualificate come sottoprodotti, sarebbero rifiuti a tutti gli effetti.

Infine, dobbiamo constatare una modifica dell’art. 183, in relazione alla prova dell’effettiva e certa utilizzazione del sottoprodotto, che appare alquanto inspiegabile. Infatti, a differenza del precedente testo, attualmente non si prevede più che, per attestare la destinazione del sottoprodotto, sia redatta una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell\'impianto dove avviene l\'effettivo utilizzo ().

In attesa di norme integrative che stabiliscano l’effettiva tracciabilità dei sottoprodotti, i soggetti coinvolti nelle attività di riutilizzo devono essere comunque in grado di fornire a richiesta degli organi di controllo idonea documentazione che comprovi il reale utilizzo dei sottoprodotti. Sul punto, è bene mettere in guardia che non saranno sufficienti ad esclu­dere la qualifica di rifiuto la mera volontà contrattuale o la semplice dichia­razione del detentore perché i documenti provenienti dalla parte costituiscono soltanto il supporto probatorio dell’operazione di riutilizzo mentre l’esistenza dei requisiti richiesti dalla normativa deve risultare dal riscontro di dati oggettivi.

Giova al riguardo ricordare anche il consolidato principio per cui spetta al soggetto, che voglia giovarsi della deroga al regime ordinario, fornire la prova rigorosa della destinazione effettiva, oggettiva e completa all’impiego produttivo dei sottoprodotti ().



In Foro it., 2002, IV, 576.

La Corte di giustizia ha suggerito infatti la massima cautela nel valutare se una determinata sostanza rientri nella definizione di sottoprodotto giacchè la speculare nozione di rifuto va intesa in modo estensivo alla luce del fatto che la Comunità europea ha posto come obiettivo principale di qualsiasi politica in materia di rifiuti quello di ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l\'ambiente.

Si ricordi che la Corte ha ritenuto mancante questo requisito anche quando le modalità prevedibili di riutilizzo dei residui necessitavano di operazioni di deposito che potevano avere una durata indefinita e rappresentare perciò una potenziale fonte di danno per l\'ambiente che la direttiva 75/442 mira specificamente a limitare. Se perciò il riutilizzo non è sicuro o è prevedibile solo a più o meno lungo termine, i residui rientrano nella categoria dei rifiuti.

P. Giampietro,  La Corte di Giustizia amplia la nozione di rifiuto limitando il riutilizzo del «tal quale», in questa Rivista, 2003, 64.

Invero, la tesi si fonda sulla premessa che l’attributo «preliminare» andrebbe inteso nel  significato di «preventivo».

Per ovviare ad una certa genericità del concetto di trasformazione preliminare, a nostro avviso, si può anche fare riferimento alla definizione di «trattamento» contenuta nella direttiva Cee sulle discariche del 26 aprile 1999 n. 31 recepita in Italia con il d.leg. n. 36/2003, che all’art. 2, 1° comma, lett. h), detta la nozione di trattamento in questi termini: «i processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza». E’ vero che la disposizione formalmente riguarda i “rifiuti”, mentre noi stiamo discutendo di sostanze residuali che, se ed in quanto qualificabili come sottoprodotti, sfuggono all’area del rifiuto. Però non va neppure dimenticato che i sottoprodotti sono residui che, se non operasse la deroga di cui stiamo discorrendo, sono direttamente qualificabili come rifiuto. Inoltre, precisiamo che la citata norma viene utilizzata per cogliere l’essenza della nozione di trattamento e cioè che si tratta di un processo che realizza un mutamento della struttura e della costituzione fisico-chimica della sostanza.

In cui si discuteva di una centrale elettrica che usava come combustibile residui di legna, forniti sotto forma di trucioli, provenienti dal settore edilizio, che però, prima di essere utilizzati per generare energia elettrica, dovevano essere trasformati in polvere di legno.

Invero, siamo convinti che la controversia sulla maggiore o minore facoltà di utilizzo dei residui si possa ridimensionare alla luce del fatto che il criterio, realmente in grado di selezionare i casi di vero reimpiego di sottoprodotti da quelli che occultano attività illegali, sia che il residuo, senza bisogno di trattamenti, anche minimali, debba possedere già le caratteristiche merceologiche e tecniche della materia prima “corrispondente”.

Crediamo di poter rinvenire un avallo alla lettura che abbiamo fatto nelle conclusioni rese dall’avvocato generale Mazák nella causa C‑195/05 sugli scarti alimentari (par. 55) in cui si legge: «Effettivamente, può essere difficile, nel caso concreto, definire in cosa consiste uno «stesso processo» di produzione o di utilizzazione. Ma dopo tutto, dietro a tali nozioni, lo ripeto, rimane sempre la questione se esistano indizi del fatto che il detentore intende sfruttare o commercializzare la sostanza considerata in condizioni per lui vantaggiose in un processo successivo alla produzione della sostanza stessa, cosicché quest’ultima rappresenta un valore economico per il detentore piuttosto che un onere di cui si voglia liberare».

In Ced Cass., rv.   236374-5.

Peraltro, era già discutibile che bastasse una sola dichiarazione, e quindi un semplice atto di natura privatistica, per garantire la corretta esecuzione delle operazioni di utilizzo del sottoprodotto.

V. Cass. 12 ottobre 2004, Falconi, Ced Cass., rv. 230421; Cass. 6 luglio 1999, Pierucci, Riv. pen., 1999, 1099; Cass. 7 aprile 1994, Gaetani, Ced Cass., rv.   198070; Cass. 30 settembre 1994, P.M. in proc. Miotto, Ced Cass., rv.   200278. La prova deve vertere sulle seguenti circostanze: a) l\'individuazione del produttore e/o detentore dei materiali, b) la provenienza degli stessi, c) la sede ove sono destinati, d) la modalità di utilizzo in un ulteriore ciclo produttivo.