Cass. Sez. III n. 11051 del 8 marzo 2017 (Ud 18 gen 2017)
Presidente: Fiale Estensore: Amoresano Imputato: Marsella ed altro
Urbanistica.DIA e falsità ideologia in certificati

De ritenersi configurabile il reato di falsità ideologica in certificati (art.481 cod. pen.) non solo per la falsificazione della dichiarazione di inizio attività (DIA), ma anche della relazione di accompagnamento, avendo quest'ultima natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio


RITENUTO IN FATTO

1.La Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 25/09/2014, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Lucca, emessa in data 25/05/2007, con la quale Federico Marsella e Gianluca Sichi erano stati condannati per i reati di cui agli artt.44 lett.b) DPR 380/2001 (capo a) e 110, 481 cod.pen. (capo b), unificati sotto il vincolo della continuazione, dichiarava non doversi procedere in ordine alla contravvenzione di cui al capo a) perché estinta per prescrizione, rideterminando la pena per il residuo delitto in mesi 6 di reclusione e confermando nel resto.

Dopo aver ricordato che il Tribunale aveva ritenuto fondata la prospettazione accusatoria, secondo cui gli imputati, nella loro qualità di committenti e direttori dei lavori, avevano falsamente rappresentato, nella DIA presentata dai precedenti proprietari e da loro redatta (avente ad oggetto lavori di ristrutturazione e cambio di destinazione di un fabbricato), una situazione di fatto diversa da quella reale, la Corte distrettuale disattendeva i motivi di appello.

Rilevava la Corte che, a prescindere dalla perizia disposta in dibattimento e contestata dagli imputati, la falsa rappresentazione dello stato dei luoghi (e cioè come già esistente la sopraelevazione del lato sud del tetto del fabbricato) emergeva chiaramente dalla testimonianza, pienamente attendibile, di Cupisti Giampaolo, vicino di casa, e dai rilievi fotografici, effettuati prima e durante l'esecuzione di lavori. La perizia aveva poi confermato tale assunto, evidenziando che l'abusiva sopraelevazione del tetto aveva comportato un aumento di volumetria di circa metri cubi 40,20.

Siffatta sopraelevazione, determinando un aumento volumetrico, non poteva certo essere assentita con una DIA; il che attestava che, consapevolmente, era stato rappresentato falsamente lo stato dei luoghi.

2.Avverso la predetta sentenza ricorrono per cassazione il Marsella ed il Sichi, tramite il difensore, sollevando i seguenti motivi di gravame, qui enunciati ai sensi dell'art.173 disp.att.cod.proc.pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

Con il primo motivo denunciano la violazione e/o erronea applicazione dell'art.168 bis cod.pen. e dell'art.464 bis cod.proc.pen., per avere la Corte territoriale dichiarato inammissibile la richiesta di messa alla prova perché presentata nel giudizio di appello, non tenendo conto che la norma era entrata in vigore dopo la celebrazione del giudizio di primo grado; e la mancata previsione di una norma transitoria non può risolversi in danno degli imputati.

Con il secondo motivo denunciano la violazione e/o erronea applicazione dell'art.481 cod.pen. ed il travisamento del fatto.

La Corte territoriale, secondo i ricorrenti, non avrebbe tenuto conto del contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla configurabilità del reato di cui all'art.481 cod.pen. in caso di falsificazione della relazione di accompagnamento alla DIA. In presenza di siffatto contrasto la Corte territoriale avrebbe dovuto argomentare in ordine alla natura giuridica della tavola "stato attuale" e della fotografia, allegate alla DIA, ed in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo.

La Corte territoriale avrebbe poi travisato le risultanze processuali ed in particolare la testimonianza dell'ing.Ferri e del sig.Paternostro, liquidandole come "interessate"; né avrebbe argomentato in ordine ai rilievi contenuti nelle consulenze di parte.

Con il terzo motivo denunciano la violazione e/o erronea applicazione dell'art.78, comma 1 lett.d), cod.proc.pen., nonché la mancanza e/o illogicità della motivazione in ordine alle censure rivolte alle statuizione civili quanto alla mancata esplicitazione nell'atto di costituzione di parte civile del petitum e della causa petendi (e non, come erroneamente inteso dai Giudici di merito, come difetto di legittimazione del Cupistí).

Con il quarto motivo eccepiscono la intervenuta prescrizione del reato di cui all'art.481 cod.pen.: trattandosi di reato istantaneo, commesso il 25 maggio 2007, il termine massimo di prescrizione sarebbe maturato il 25 Novembre 2014, con conseguente venir meno delle statuizioni civili.

Con il quinto motivo, infine, deducono la violazione e/o erronea applicazione dell'art.31, ultimo comma, DPR 380/2001 in ordine alla mancata revoca, nonostante la declaratoria di estinzione del reato di cui al capo a), dell'ordine di demolizione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 ricorsi vanno dichiarati inammissibili.

2.Il primo motivo è manifestamente infondato.
Secondo, ormai consolidata, giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio di appello l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all'art.168-bis cod.pen., attesa l'incompatibilità del nuovo istituto con il sistema delle impugnazioni e la mancanza di una specifica disciplina transitoria (Sez. 4 n.43009 del 30/09/2015, Zoni, Rv.265331) Invero, come si precisa in motivazione, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 263 del 2011, la mancata applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore, non implica alcuna lesione del principio di retroattività della "lex mitior" da riferirsi esclusivamente alle disposizioni che definiscono i reati e le pene.

Ed è stata, anche, ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.464-bis, comma 2, cod.proc.pen., per contrasto con l'art.3 Cost., nella parte in cui non consente l'applicazione dell'istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell'entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n.67, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile (Sez. 6, n.47587 di 22/10/2014, Calamo, Rv.261255).

3. In ordine al secondo motivo, contrariamente a quanto assumono i ricorrenti, la giurisprudenza di questa Corte è pressoché concorde (a parte una decisione rimasta isolata) nel ritenere configurabile il reato di falsità ideologica in certificati (art.481 cod.pen.) non solo per la falsificazione della dichiarazione di inizio attività (DIA), ma anche della relazione di accompagnamento, avendo quest'ultima natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio (sez. 3 n.35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; conf. Sez. 3 n.50621 del 18/06/2014, Cazzato, Rv.261513; sez. 3 n.27699 del 20/05/2010, Coppola, Rv.247927; sez. 5 n.35615 del 14/05/2010, D'Anna, Rv.248878; sez. 3 n.1818 del 21/10/2008, Baldassari, Rv.242478).

Dopo aver evidenziato che, con la DIA, al principio autoritativo si sostituisce il principio dell'autoresponsabilità dell'amministrato, che è legittimato ad agire in via autonoma, valutando l'esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in vigore e che il ricorso al procedimento della DIA, conseguentemente, porta con sé una peculiare assunzione di responsabilità, in relazione al particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento, si conclude, affermando: "Dalla delineata costruzione della DIA, come atto fidefaciente a prescindere dal controllo della P.A. e riconnesso alla delega di potestà pubblica ad un soggetto qualificato, discende che la relazione asseverativa del progettista, sulla quale si fonda l'eliminazione dell'intermediazione del potere autorizzatorio dell'attività del privato da parte della pubblica amministrazione, assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo e quindi certificativo" (sez. 3 n.35795/2012 cit.).

Il contrasto giurisprudenziale derivante dall'unica pronuncia richiamata nella sentenza n.37174/2014 (pag.7 ricorso), a ben vedere, è più apparente che reale. In effetti, con la sentenza della sez.5 n.23668 del 26/04/2005, Giordano, Rv.231906, si escludeva la natura di "certificato" della relazione allegata alla DIA ma solo con riferimento alla parte progettuale (in quanto manifesta una intenzione e non registra una realtà oggettiva) ed alla eventuale attestazione di assenza di vincoli (dal momento che esprime un giudizio dell'agente, passibile anche di errore).

3.1.Nella fattispecie in esame il falso riguarda non certo la manifestazione di una intenzione o l'espressione di un giudizio, ma la rappresentazione dello stato dei luoghi (si legge nella stessa imputazione: "con una falsa descrizione, nella tavola stato attuale, del manufatto oggetto dell'intervento ed in particolare disegnavano il manufatto con la stessa altezza in gronda di m.3,40, allegando altresì una fotografia (o comunque la stampa di una fotografia digitale modificata in modo tale da far apparire il fabbricato in oggetto come avente la stessa altezza sui lati nord e sud e comunque una altezza maggiore rispetto al fabbricato confinante sul lato sud").

Si tratta, quindi, palesemente di una falsa rappresentazione dello stato oggettivo dei luoghi, finalizzato, ad eseguire, con la mera presentazione di una DIA, un incremento volumetrico del fabbricato preesistente.

E tale falsa rappresentazione, per le ragioni in precedenza esposte, integra indubitabilmente il reato di falsità ideologica in certificati (art.481 cod.pen.).

3.2. Con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, la Corte territoriale ha ritenuto che dalle risultanze processuali emergesse, in modo inequivocabile, la sussistenza, sul piano oggettivo, del falso ideologico così come contestato.

Ha evidenziato, infatti, che dalle dichiarazioni pienamente attendibili del Cupisti, che trovavano puntuale riscontro nei rilievi fotografici e nella perizia d'ufficio dell'ing.Gambogi, emergeva chiaramente che nella DIA n.1180/2007 era stata rappresentata una situazione dello stato dei luoghi, preesistente all'intervento, difforme dalla realtà ("e cioè come già esistente la sopraelevazione del lato sud del tetto del fabbricato, così riportandolo alla stessa altezza del tetto lato nord, mentre invece la sua realizzazione avveniva in corso di esecuzione dei lavori assentiti con DIA"). Tale falsa rappresentazione dello stato preesistente dei luoghi, comportava, come accertato dal perito d'ufficio, un aumento di volumetria di circa 40,20 metri cub (pag.6 e 7 sent.).

Ha fatto riferimento la Corte territoriale anche alle deposizioni degli agenti verbalizzanti (isp.Lucchesi) ed ha disatteso motivatamente le valutazioni dei consulenti di parte, perché smentite da non equivoche risultanze probatorie: il falso e, quindi, l'abuso edilizio che ne era derivato erano talmente macroscopici da essere rilevabili ad "occhio nudo in base al semplice raffronto di tali foto riproducenti lo stato dei luoghi, prima, durante e dopo .. (pag.8).

Quanto all'elemento soggettivo (dolo generico), dalla complessiva motivazione della sentenza emerge che la rappresentazione falsa dello stato dei luoghi avvenne consapevolmente, essendo essa finalizzata ad ottenere un incremento volumetrico del fabbricato preesistente.

I ricorrenti, attraverso una formale denuncia di vizi di motivazione e travisamento della prova, richiedono sostanzialmente una rilettura delle risultanze processuali non consentita nel giudizio di legittimità.

4. In ordine alla dedotta mancata indicazione nell'atto di costituzione di parte civile della causa petendi e del petitum (terzo motivo di ricorso), l'eccezione era stata già proposta in primo grado.

Il Tribunale, con ordinanza del 05/11/2009, aveva ammesso la parte civile, respingendo le eccezioni difensive, dal momento che l'atto di costituzione conteneva "gli elementi essenziali e sufficienti per individuare, non solo l'entità della pretesa risarcitoria, ma anche i presupposti della stessa: la persona offesa asserisce di essere comproprietaria di un fondo confinante- la circostanza non è contestata-; l'imputazione riguarda un asserito ampliamento di volume con sopraelevazione".

La Corte territoriale, richiamando le statuizioni sul punto del Tribunale, ha ribadito che la costituzione della parte civile era perfettamente ammissibile.

I Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi più volte affermati, in proposito, da questa Corte, secondo cui, in tema di costituzione di parte civile, l'indicazione delle ragioni che giustificano la domanda risarcitoria è funzionale esclusivamente all'individuazione della pretesa fatta valere in giudizio non essendo necessaria un'esposizione analitica della "causa petendi", sicchè per soddisfare i requisiti di cui all'art.78 lett.d) cod.proc.pen., è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza (tra le altre: Sez.6, n.32705 del 17/04/2014, Coccia, Rv.260325; sez.5 n.22034 del 07/03/2013, Boscolo, Rv.256500).

Nell'atto di costituzione di parte civile (venendo eccepita una nullità è consentito l'accesso agli atti) erano riportate integralmente le imputazioni dalle quali emergeva chiaramente, come si è visto in precedenza, una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, al fine, di consentire un incremento volumetrico (sopraelevazione) del fabbricato preesistente; inoltre il Cupisti si dichiarava comproprietario, unitamente al figlio Giacomo, di una casa per abitazione, con terreno, posta al confine del fabbricato di proprietà dei geom.Marsella e Sichi, per il quale era stata presentata la DIA con una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, realizzando così "un'opera edilizia abusiva che lede i diritti del comparente quale comproprietario del fondo limitrofo".

Il Cupisti chiedeva, quindi, avendone titolo per i motivi prima indicati, di costituirsi in giudizio per ottenere il risarcimento del danno-patrimoniale ed extrapatrimoniale- subito a seguito dell'attività illecita posta in essere dagli imputati.

Risultava, pertanto, sufficientemente chiaro dall'atto di costituzione, emergendo dalla esposizione e dal contenuto stesso delle imputazioni, che il Cupisti assumeva di essere stato danneggiato dalla sopraelevazione dl fabbricato, confinante con la sua proprietà, eseguita attraverso la presentazione di una DIA in cui era stato rappresentato falsamente lo stato originario del fabbricato medesimo (in modo cioè da farlo apparire come avente la stessa altezza sui lati nord e sud e comunque una altezza maggiore rispetto al fabbricato confinante).

Lamentava, cioè, il Cupisti, quale proprietario del fondo confinante di essere stato danneggiato dalla condotta illecita (sopraelevazione con incremento volumetrico del fabbricato preesistente) posta in essere dagli imputati (causa petendi) e chiedeva, pertanto di essere risarcito dai danni subiti per effetto di siffatta condotta (petitum).

5.Altrettanto correttamente i Giudici di merito hanno condannato gli imputati al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di risarcimento del danno, il soggetto legittimato all'azione civile è il danneggiato che non necessariamente si identifica con il soggetto passivo del reato in senso stretto, ma è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all'azione o all'omissione del soggetto attivo del reato (fattispecie relativa a vicino di casa parte civile in processo per abuso edilizio" -cfr.Cass.sez. V n.5613 dell'11.4.2000-Toscano).

In particolare, il proprietario confinante è legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi non soltanto quando siano violate le norme civilistiche che stabiliscono le distanze nelle costruzioni (art.873 cod.civ.), ma anche nel caso di inosservanza delle regole da osservarsi nelle costruzioni (art.872 cod.civ.)- (sez. 3 n.45285 del 21/10/2009), Vespa, Rv.245270); vale a dire quando la realizzazione dell'abuso edilizio violi non solo le norme, poste a tutela del regolare assetto del territorio, ma anche le norme civilistiche, quali i limiti al diritto di proprietà in tema di distanze, volumetria ed altezza delle costruzioni, essendo in tal caso ipotizzabile un danno patrimoniale che dà luogo all'azione di risarcimento del danno (sez. 3 n.10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv.266290; sez. 3 n.21222 del 04/04/2008, Chianese, Rv.240044).

E' stato sottolineato (sez. F. del 31/07/2008, Valente, non massimata) che colui che edifica nei modi consentiti è immune da responsabilità nei confronti dei vicini, "le conseguenze sono diverse, invece, se la edificazione sia avvenuta in contrasto con la disciplina concernente l'assetto del territorio: vale a dire se le norme relative all'edilizia, in funzione della tutela degli interessi generali ad un ordinato regime urbanistico e territoriale, quali le limitazioni del volume, dell'altezza, della densità degli edifici, le esigenze dell'igiene e della viabilità, la conservazione dell'ambiente o la tutela delle bellezze naturali garantiscono (sia pure indirettamente) il vantaggio del panorama e, implicitamente, vietano che il panorama sia diminuito od escluso dalle nuove costruzioni. Da siffatte norme dettate nell'interesse pubblico, anche gli interessi privati vengono a beneficiare. La concezione tradizionale, secondo cui le norme urbanistiche, in favore dei privati avvantaggiati, danno luogo ad una situazione di interesse legittimo e dalla lesione di un interesse legittimo non ha origine il diritto al risarcimento del danno, risulta superata dal disposto testuale dell'art.872 comma 2 cod.civ., da cui scaturisce un diritto soggettivo perfetto, indipendentemente dal fatto che le norme urbanistiche richiamate siano o non integrative del codice civile....". Sicchè "La violazione delle norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli strumenti urbanistici ... è fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno oggettivo o "in re ipsa": tale danno non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che vengono superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche dalla indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale (Sez.2, 17 maggio 2000, n.6414)".

Per la costituzione di parte civile del proprietario confinante nei procedimenti penali aventi ad oggetto abusi edilizi si è positivamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell'uomo (17 luglio 2007, c.6970/03, Vitello).

Tanto premesso è indubitabile che dall'abuso edilizio, posto in essere dagli imputati, possa essere derivato, attraverso la sopraelevazione dell'immobile preesistente, un danno alla proprietà confinante sotto il profilo della compressione del diritto al pieno godimento della stessa in termini di visuale ed areazione.

Infine, ineccepibilmente, ha ricordato la Corte di merito che la condanna generica al risarcimento del danno postula per il suo accoglimento l'accertamento di un fatto da ritenersi, alla stregua di un giudizio di probabilità, anche solo potenzialmente produttivo di conseguenze dannose.

E' onere della parte civile dare, poi, la prova, nel separato e susseguente giudizio civile, della sussistenza in concreto del danno e del suo ammontare.

6.La manifesta infondatezza del ricorso non consentendo l'instaurazione di un valido rapporto processuale, preclude la possibilità di rilevare la prescrizione, maturata dopo la sentenza impugnata.

Gli stessi ricorrenti rilevano che, risultando il reato commesso in data 25/05/2007 (data di presentazione della DIA), il termine massimo di prescrizione sarebbe maturato il 25/11/2014 (la sentenza della Corte di Appello è stata emessa in data 25/09/2014 e quindi prima del maturare di detto termine).

In ogni caso, non avrebbero potuto venir meno le statuizioni civili: l'art.578 cod. proc. pen. prevede infatti che, ove nei confronti dell'imputato sia stata pronunciata condanna anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare la prescrizione, debbano decidere sugli effetti civili.

7.Va, infine, rilevato che l'omessa espressa revoca dell'ordine di demolizione da parte della Corte di Appello, che ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all'art.44 lett. b) d.P.R. 380 del 2001, al quale detto ordine era "collegato", non comporta alcun vizio della sentenza.

Invero, l'estinzione del reato di costruzione abusiva per prescrizione travolge l'ordine di demolizione dell'opera , indipendentemente da una espressa statuizione di revoca, atteso che tale ordine è una sanzione amministrativa di tipo ablatorìo che trova la propria giustificazione nella accessorietà alla sentenza di condanna. La revoca dell'ordine si produce, cioè, ex lege, a prescindere da una esplicita statuizione di revoca (Sez. 3 n.756 del 02/12/2010, Sicignano, Rv. 249154; sez. 3 n.10209 del 02/02/2006, Cirillo, Rv. 233673; sez.3 n.3099 del 06/10/2000, Bifulco, Rv.217853).

8. I ricorsi debbono, quindi, essere dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento alla cassa delle ammende della somma che pare congruo determinare in euro 2.000,00 ciascuno.

P. Q. M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende della somma di euro 2.000,00 ciascuno.

Così deciso in Roma il 18/01/2017