Consiglio di Stato Sez. II n. 4690 del 22 luglio 2020
Urbanistica.Assenza delle condizioni stabilite per la dia

Nel caso di denunzia di inizio di attività, il termine di trenta giorni entro cui, ai sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, occorre riscontrare l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, va identificato nell’adozione del provvedimento e non nell’avvenuta notifica dello stesso

Pubblicato il 22/07/2020

N. 04690/2020REG.PROV.COLL.

N. 01544/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1544 del 2012, proposto dalla signora Andreina Santamaria, rappresentata e difesa dall’avvocato Luigi Cocchi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Corbyons in Roma, via Maria Cristina, n. 2;

contro

il Comune di Genova, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Aurelio Domenico Masuelli e Gabriele Pafundi, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14;

per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, sezione prima, n. 1511/2011, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Genova;

visti tutti gli atti della causa;

relatore, nell’udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2020, il consigliere Francesco Frigida e uditi per le parti l’avvocato Giovanni Corbyons, su delega dell’avvocato Luigi Cocchi, e l’avvocato Gabriele Pafundi;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con provvedimento prot. n. 229367 del 30 giugno 2010, il Comune di Genova ha inibito all’odierna appellante l’inizio dei lavori edilizi di cui alla denuncia di inizio attività presentata da quest’ultima l’11 giugno 2010 per un intervento di ristrutturazione di un corpo basso facente parte di un unico edificio, con cambio di destinazione di tale porzione da autorimessa ad abitazione, in virtù dell’articolo 5 della legge regionale della Liguria n. 24 del 2001.

2. Avverso tale provvedimento inibitorio, l’interessata ha proposto il ricorso di primo grado n. 698 del 2010, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, articolando cinque motivi, di cui uno sulla tardività del provvedimento comunale e quattro per superare le altrettante argomentazioni poste alla base del provvedimento amministrativo contestato.

Il Comune di Genova si è costituito nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.

3. Con l’impugnata sentenza n. 1511 del 2 novembre 2011, il T.a.r. per la Liguria, sezione prima, ha respinto il ricorso e ha condannato la ricorrente al pagamento, in favore del Comune di Genova, delle spese di lite, liquidate in euro 4.000, oltre accessori.

In particolare, il Collegio di primo grado ha rigettato il primo motivo, reputando tempestivo il provvedimento comunale, ed ha analizzato uno solo dei motivi di merito (rubricato come terzo motivo), respingendolo, mentre ha dichiarato improcedibili le altre tre doglianze, in quanto, «Trattandosi di un provvedimento c.d. plurimotivato, che si basa su di una pluralità di motivi autonomi, ciascuno sufficiente a sorreggere la determinazione conclusiva, è evidente come l’accertata infondatezza dell’unico motivo di ricorso dedotto avverso una delle autonome ragioni giustificatrici del provvedimento inibitorio, renda il ricorso improcedibile per carenza di interesse rispetto ai residui motivi di ricorso.

Difatti, quand’anche fondati, i residui motivi di ricorso non potrebbero giammai condurre all’annullamento dell’atto, che si regge autonomamente sul rilievo dell’inesistenza, alla data di entrata in vigore della L.R. n. 24/2001, delle porzioni legittimate con i due provvedimenti di sanatoria adottati successivamente».

4. Con ricorso ritualmente notificato e depositato – rispettivamente in data 23 febbraio 2012 e in data 2 marzo 2012 – la parte privata ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza, articolando cinque motivi ripropositivi delle doglianze di primo grado; l’appellante, con un ulteriore motivo, ha altresì impugnato autonomamente anche il capo sulle spese.

5. Il Comune di Genova si è costituito in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello.

6. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 25 febbraio 2020.

7. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e diritto.

8. Con il primo motivo d’impugnazione, l’appellante ha sostenuto l’erroneità della sentenza impugnata, laddove il T.a.r. ha considerato tempestivo il provvedimento comunale.

In particolare, il Collegio di primo grado ha considerato rispettato il termine perentorio, previsto dalla legislazione regionale, di venti giorni per l’inibitoria dei lavori iniziati a seguito di presentazione di denuncia di inizio attività, decorrente da detta presentazione.

Nel caso di specie la denuncia di inizio attività è stata presentata l’11 giugno 2010, mentre l’atto inibitorio è stato adottato il 30 giugno 2010, consegnato all’agente postale il 1° luglio 2010 (il ventesimo giorno) e ricevuto dalla parte privata il 7 luglio 2010 (oltre i venti giorni).

Orbene, il T.a.r. ha ritenuto l’inibitoria atto recettizio (e sul punto il Comune nulla ha obiettato), tuttavia ha affermato che rileva per il notificante il momento di partenza della notifica e per il destinatario il momento della sua ricezione; in sostanza, ha traslato il principio della scissione utilizzato in ambito processuale nel quadro del procedimento amministrativo.

L’appellante ha sostenuto che l’amministrazione si sarebbe potuta avvalere di messi comunali per non incorrere nei ritardi del servizio postale e che non sarebbe traslabile il principio della scissione, che è stata elaborata in tutt’altro contesto.

La predetta doglianza è infondata.

Il Collegio, invero, reputa condivisibile la statuizione del T.a.r..

Sul tema si evidenzia che in ambito fiscale la giurisprudenza di legittimità ha traslato in sede sostanziale la disciplina processuale della scissione temporale tra notificante e notificato di cui all’articolo 149 c.p.c., considerandola applicabile anche all’avviso di accertamento e dell’avviso di liquidazione, con la conseguenza che la notificazione a mezzo posta degli avvisi di accertamento tributari si perfeziona, per l’amministrazione, al momento della spedizione dell’atto notificando e non della ricezione dello stesso da parte del contribuente (cfr. Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenze 12 gennaio 2010, n. 315 e 10 giugno 2008, n. 15298; Corte di cassazione, sezione VI civile, ordinanze 22 settembre 2015, n. 1864, 10 gennaio 2014, n. 351 e 5 dicembre 2011, n. 26053)

Pertanto il principio di cui all’art. 149 appare ormai estendibile anche al di fuori del perimetro processuale, al fine di tutelare il soggetto notificante da ritardi e omissioni che sfuggono alla sua sfera di controllo e, quindi, a lui non imputabili.

In ogni caso, va peraltro rilevato che, con particolare riferimento all’atto di inibizione di lavori iniziati a seguito di presentazione di denuncia di inizio attività, la giurisprudenza amministrativa ha affermato “nel caso di denunzia di inizio di attività, il termine di trenta giorni entro cui, ai sensi dell’art. 23, comma 6, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, occorre riscontrare l’assenza di una o più delle condizioni stabilite, va identificato nell’adozione del provvedimento e non nell’avvenuta notifica dello stesso” (T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, sez. II, sentenze 14 marzo 2019, n. 566, e 4 aprile 2012, n. 990; nello stesso senso cfr. T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, sez. I, sentenza 29 dicembre 2016, n. 2488, e T.a.r. per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. I, sentenza 15 gennaio 2009, n. 54).

9. Tramite il secondo motivo d’impugnazione, l’appellante ha censurato il rigetto del terzo motivo del ricorso di primo grado (unico espressamente esaminato dal T.a.r.).

Sul punto si osserva che la disposizione di cui all’articolo 2, comma 1, della legge regionale della Liguria 6.8.2001, n. 24, nel testo vigente ratione temporis, statuisce che “Negli edifici esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge ed aventi destinazione residenziale ovvero turistico-ricettiva sono consentiti, previo rilascio di diretto titolo edilizio ed in deroga alla disciplina stabilita dalla strumentazione urbanistica comunale vigente od in corso di formazione, gli interventi di recupero dei sottotetti nel rispetto delle disposizioni di seguito stabilite”.

Orbene, l’ubi consistam della questione verte sull’esatta perimetrazione dell’espressione “edifici esistenti”, che per il T.a.r. deve intendersi come esistenza a livello giuridico, con conseguente non operatività della deroga laddove l’edificio fosse abusivo e non ancora sanato al momento di entrata in vigore della norma (come nel caso di specie).

Segnatamente il collegio di primo grado ha ritenuto che il citato art. 2, comma 1, «consenta il recupero ai fini abitativi soltanto dei sottotetti degli edifici legittimati dal punto di vista edilizio, cioè a dire esistenti sulla base di un titolo edilizio sussistente alla data di entrata in vigore della legge».

Per contro, ad avviso dell’appellante avrebbe rilievo l’esistenza materiale dell’edificio e, pertanto, qualora questo fosse esistito al momento dell’entrata in vigore della norma, potrebbe beneficiare della deroga sempreché poi sia stato sanato.

Il Collegio condivide la posizione del T.a.r., anche alla luce del secondo comma del citato art. 2 (nel testo vigente ratione temporis), il quale prevede che “La disposizione di cui al comma 1, è applicabile nei confronti degli interventi edilizi in corso di realizzazione sulla base di titoli edilizi rilasciati prima della data di entrata in vigore della presente legge, previo conseguimento di apposita variante al rispettivo titolo edilizio”. Ed invero, tale disposizione fa espresso riferimento ad edifici in corso di costruzione sulla base di titoli edilizi e di conseguenza sarebbe del tutto incoerente considerare il primo comma sugli edifici ultimati come riferibile anche a manufatti abusivi.

Tanto delineato a livello ordinamentale, si evidenzia che è pacifico in fatto che il manufatto per cui è causa era abusivo al momento della entrata in vigore della legge regionale n. 24 del 2001, atteso che due ampie porzioni del corpo di fabbrica oggetto dell’istanza di recupero sono state legittimate dal punto di vista edilizio soltanto con i provvedimenti numeri 1436/2006 e 314/2010, entrambi, dunque, successivi all’entrata in vigore della predetta legge, sicché l’edificio non può essere oggetto di recupero a fini abitativi.

10. Circa la contestazione della condanna dell’odierna appellante al pagamento delle spese di lite disposta dal T.a.r., il Collegio osserva che in tema di regolazione delle spese processuali la condanna della parte soccombente è la regola, mentre la compensazione è l’eccezione; ne discende che la sindacabilità in appello della condanna alle spese comminata in primo grado è limitata soltanto all’ipotesi in cui venga gravata e riformata in appello la decisione principale, salva una manifesta abnormità della condanna (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 20 giugno 2017, n. 2995 e Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 14 aprile 2017, n. 1801), che non si rinviene minimamente nel caso di specie.

11. In conclusione l’appello, va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

12. In applicazione del principio della soccombenza, al rigetto dell’appello segue la condanna dell’appellante al pagamento, in favore dell’appellato Comune di Genova, delle spese di lite del presente grado di giudizio, che, tenuto conto dei parametri stabiliti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55 e dall’articolo 26, comma 1, c.p.a., si liquidano in euro 4.000 (quattromila), oltre accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali), se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione seconda, definitivamente pronunciando sull’appello n. 1544 del 2012, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata; condanna l’appellante al pagamento, in favore del Comune di Genova, delle spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate in euro 4.000 (quattromila), oltre accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali), se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso, in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2020, con l’intervento dei magistrati:

Fabio Taormina, Presidente

Francesco Frigida, Consigliere, Estensore

Antonella Manzione, Consigliere

Cecilia Altavista, Consigliere

Francesco Guarracino, Consigliere