Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 5460, del 18 novembre 2013
Urbanistica.Recupero e riqualificazione aree programma integrato d’intervento e modifica indice edificatorio
Il Programma integrato d’intervento presenta la specifica finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio ed è caratterizzato sia dalla presenza di una pluralità di funzioni, sia dall’integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, in una dimensione capace di incidere sulla riorganizzazione urbana e con il possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche e private. Lo strumento urbanistico adottato, dunque, costituisce uno strumento di intervento straordinario che, anche al fine di associare all’opera di riqualificazione soggetti (finanziatori) privati, ben può incidere sull’indice edificatorio, e ciò proprio in ragione della natura dell’intervento suddetto e delle esigenze che postula la nuova e diversa destinazione dell’area. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 05460/2013REG.PROV.COLL.
N. 03707/2010 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3707 del 2010, proposto da:
Immobiliare Romagnina S.r.l., rappresentato e difeso dall'avv. Matteo Salvi, con domicilio eletto presso Giovanni Corbyons in Roma, via Maria Cristina N. 2;
contro
Regione Lombardia, rappresentato e difeso dagli avv. Antonella Forloni, Piera Pujatti, con domicilio eletto presso Emanuela Quici in Roma, via Nicolò Porpora, 16;
Comune di Milano, rappresentato e difeso dagli avv. Maria Rita Surano, Antonello Mandarano, Raffaele Izzo, con domicilio eletto presso Raffaele Izzo in Roma, Lungotevere Marzio, 3; Consorzio Garibaldi-Repubblica, rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Torrani, Angelo Clarizia, Maria Sala, Claudio Sala, con domicilio eletto presso Angelo Clarizia in Roma, via Principessa Clotilde n.2;
Provincia di Milano, Sviluppo Garibaldi Repubblica Spa in Liquidazione
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE II n. 06188/2009, resa tra le parti, concernente RECUPERO E RIQUALIFICAZIONE AREE PROGRAMMA INTEGRATO DI INTERVENTO - ESPROPRIAZIONE
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Regione Lombardia, Comune di Milano e Consorzio Garibaldi-Repubblica;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 maggio 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Matteo Salvi, Piera PuJatti, Raffaele Izzo. Angelo Clarizia , Paola Zanotti in sostituzione di Claudio Sala;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con l’appello in esame, la Immobiliare Romagnina s.r.l. impugna la sentenza 23 dicembre 2009 n. 6188, con la quale il TAR per la Lombardia, sez. II, ha rigettato due ricorsi da essa proposti rivolti:
- il primo, in particolare avverso il Decreto Regionale 20 luglio 2004 n. 12690, di approvazione dell’Accordo di Programma avente ad oggetto il Programma Integrato di Intervento finalizzato al “Recupero e alla riqualificazione funzionale delle aree situate nella zona denominata Garibaldi – Repubblica”;
- il secondo, in particolare avverso il decreto di esproprio 14 luglio 2009 n. 1153.
In sostanza, la controversia, instaurata in I grado dalla società appellante in quanta proprietaria di immobili inclusi nel Programma Integrato di Intervento Garibaldi – Repubblica, attiene alla impugnazione degli atti di approvazione dell’accordo di programma, avente ad oggetto il Piano di intervento finalizzato al recupero e alla riqualificazione delle aree della suddetta zona, unitamente agli atti del procedimento espropriativo interessante la sua proprietà.
La sentenza appellata afferma, in particolare:
- la motivazione per la quale l’indice di utilizzazione territoriale è stato definito in 1.65 mq/mq, in luogo di 0,65 mq/mq, “si deduce dal complesso degli atti di cui si compone il Programma integrato di intervento” e si giustifica “per il carattere strategico dell’intervento, realizzabile attraverso il ricorso al PII, strumento atto a riqualificare ampie zone dismesse ed a rischio di degrado”;
- il Programma integrato di intervento presenta “la specifica finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio e caratterizzato sia dalla presenza di una pluralità di funzioni, sia dall’integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, in una dimensione capace di incidere sulla riorganizzazione urbana e con il possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche e private”, di modo che tale Piano “riesce ad assolvere la sua funzione di strumento di riqualificazione del tessuto urbanistico, edilizio e ambientale, grazie al coinvolgimento di capitali privati, a fronte della sempre crescente difficoltà delle amministrazioni locali di reperire le risorse per realizzare strutture pubbliche”;
- “le strutture destinate ad attività espositiva, ad eventi legati alla moda e al design, a sfilate e ad attività scolastica, sempre nell’ambito della moda . . . possono essere considerate come opere di interesse generale, in una città quale Milano, in cui la moda è non solo una realtà industriale e commerciale, ma un simbolo della stessa città”. Ne consegue che l’inclusione di 20.000 mq destinati a manifestazioni espositive, sfilate ed eventi collettivi legati alla moda, ben possono essere inclusi tra le aree per funzioni pubbliche;
- è legittimo che l’amministrazione, in luogo della cessione delle aree e in alternativa alla monetizzazione, abbia previsto “l’impegno degli attuatori a realizzare infrastrutture e servizi di interesse generale, anche a gestione privata convenzionata, il cui valore fosse almeno pari a quello delle aree che avrebbero dovute essere cedute, cioè il c.d. standard qualitativo”;
- il decreto di esproprio, in quanto soggetto alla disciplina speciale del Testo Unico Espropriazioni (DPR n. 327/2001), non è soggetto all’applicazione dell’art. 21-bis l. n. 241/1990, e dunque, al fine di non determinare l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, è sufficiente che, entro il termine quinquennale, il decreto sia emanato, ma non anche comunicato al destinatario.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) falsa applicazione di norme di legge (art. 7 l. n. 241/1990, anche in rel. agli artt. 11, 16, 23 e 24, co. 1, DPR n. 127/2001); errore sui presupposti di diritto; errore della motivazione e insufficienza della medesima; ciò in quanto “l’amministrazione ha confuso l’attività di pianificazione e programmazione della P.A. con quella relativa alla dichiarazione di pubblica utilità in ordine alla quale l’art. 16 del DPR 8 giugno 2001 n. 327, prevede l’obbligo per quest’ultima di dare avviso dell’avvio della relativa procedura”. Peraltro, le osservazioni presentate “non sono state prese in considerazione e tantomeno controdedotte dall’amministrazione” (v. pagg. 16 app.);
b) falsa applicazione di norme di legge (art. 8, co. 6, e 5, co. 3, l. reg. n. 9/1999 e del Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, cap. 10, punto 10, lett. b) ed e) e cap. 10, punti 7 e 8; art. 23 l. reg. n. 512/1975; art. 6 l. reg. n. 9/1999 e 12 l. reg. n. 60/1977; errore sui presupposti di diritto; errore della motivazione e insufficienza della medesima; ciò in quanto (pagg. 16 – 23): b1) non viene indicato “quali siano gli argomenti che giustificherebbero l’aumento dell’indice dallo 0,65 all’1,65”, essendo peraltro inverosimile che gli obiettivi strategici possano comportare “la triplicazione dell’indice”; b2) la qualificazione di infrastruttura di interesse pubblico – che secondo la sentenza giustificherebbe l’inclusione di 20.00 mq destinati a manifestazioni espositive, etc., quale standard qualitativo, non può derivare da un “simbolo” di una città ovvero dall’uso comune, ma solo dalle normative urbanistiche; b3) la possibilità, in luogo della cessione delle aree o della monetizzazione, di realizzare infrastrutture e servizi di interesse generale, non costituisce ipotesi generale, ma che ricorre solo quando vi è impossibilità di reperire le aree all’interno dell’ambito di intervento, né vi è motivazione in ordine al perché “in luogo di aree esterne si sia ritenuto preferibile la realizzazione di una infrastruttura non certo di interesse generale”;
c) falsa applicazione di norme di legge (l. n. 783/1908 e R.D. n. 454/1909; errore sui presupposti di diritto, errore della motivazione e insufficienza della medesima; ciò in quanto sussiste l’interesse della società ricorrente al motivo con il quale si censura che, contrariamente a quanto previsto nella Relazione tecnica e normativa di attuazione, il Comune di Milano “si è impegnato a cedere tutta la s.l.p. a destinazione privata di propria competenza agli attuatori privati”, e ciò perché l’annullamento del Programma consentirebbe di ottenere la retrocessione dell’area ablata o, comunque, il risarcimento del danno e non il mero riconoscimento dell’indennità;
d) errore sui presupposti di diritto; errore della motivazione e insufficienza della medesima; poiché la realizzazione del Piano è “indissolubilmente legata alla attuazione di altri strumenti attuativi che interessano aree adiacenti”, di modo che “il fortissimo sacrificio per la ricorrente potrebbe rivelarsi vano allorchè, sa fronte di un indiscutibile mancato coordinamento fra i diversi piani attuativi, uno degli stessi non debba trovare attuazione o subisca modifiche essenziali tali da stravolgere una viabilità costruita solo sulla carta” (e in funzione della quale è stata prevista l’espropriazione e la successiva demolizione di immobili di proprietà della ricorrente).
Si è costituito in giudizio il Comune di Milano, che – fatto rilevare come la Immobiliare Romagnina sia stato “l’unico proprietario privato a non avere aderito al P.I.I. Garibaldi – Repubblica, pur potendo beneficiare dei cospicui diritti edificatori previsti dallo stesso strumento urbanistico - ha concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Anche la Regione Lombardia, costituitasi in giudizio, ha richiesto il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Si è altresì costituito in giudizio il Consorzio Garibaldi – Repubblica, che ha preliminarmente eccepito:
- l’inammissibilità del ricorso instaurativo del giudizio di I grado per carenza di legittimazione ad agire e carenza di interesse, ciò in quanto “la proprietà già compresa nell’ambito del Piano, poteva solo trarre miglioramento dalla trasformazione edilizia ed urbanistica di cui è causa”, poiché la società appellante, se avesse aderito all’accordo di pr0ogramma, “avrebbe beneficiato dei diritti volumetrici, da collocare nelle superfici fondiarie così come localizzate dal P.I.I., godendo del pregio economico ed ambientale della sistemazione dell’area”;
- l’inammissibilità del ricorso anche in relazione ai singoli motivi svolti in I grado;
- l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse, stante l’intervenuta emissione del decreto di esproprio;
- l’improcedibilità dei ricorsi per mancata impugnazione dell’atto presupposto (in particolare, Convenzione attuativa del P.I.I. 15 luglio 2005);
- l’improcedibilità dei ricorsi per mancata impugnazione di atti successivi ai provvedimenti regionali e comunali gravati; poiché non sono stati impugnati i singoli permessi di costruire successivamente emanati.
Ha comunque concluso richiedendo il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Dopo il deposito di ulteriori memorie e repliche, all’udienza di trattazione la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata, rendendosi altresì superfluo esaminare le eccezioni di inammissibilità ed improcedibilità dei ricorsi proposti in I grado.
Con il primo motivo di appello, la società appellante si duole della sentenza impugnata, poiché non sarebbero stati rettamente valutati i motivi di impugnazione riferiti all’omesso invio dell’avviso di avvio della procedura espropriativa, ai sensi dell’art. 16 DPR n. 327/2001, lamentando altresì che le osservazioni presentate “non sono state prese in considerazione e tantomeno controdedotte dall’amministrazione”
In sostanza, la società appellante:
- per un verso, afferma di avere partecipato al procedimento afferente ai (precedenti) aspetti urbanistici, in questo caso lamentando una omessa valutazione delle sue osservazioni ed un connesso difetto di motivazione degli atti impugnati;
- per altro verso, lamenta di non avere ricevuto le comunicazioni previste dalla legge, in relazione al (successivo) procedimento espropriativo.
Il Collegio ritiene che ambedue i profili di doglianza (emergenti dal primo motivo di appello, sub a) dell’esposizione in fatto), siano infondati, con conseguente reiezione del citato motivo di impugnazione.
Quanto al primo aspetto, occorre osservare – in ciò concordando con la sentenza impugnata – che la valutazione delle osservazioni presentate da un soggetto coinvolto (in quanto proprietario) nel procedimento di (ri)pianificazione urbanistica di una determinata zona del territorio comunale ben può evincersi dal complesso delle scelte operate dall’amministrazione, e dal coordinamento (logico e in concreto) esistente dalle medesime, al contempo non sussistendo un obbligo di motivazione puntuale in ordine alle decisioni assunte sulle singole osservazioni.
Quanto al secondo aspetto, la sentenza impugnata da atto che è stata inviata una sola comunicazione di avvio, “prima della predisposizione dell’accordo di programma, che vale come dichiarazione di pubblica utilità e costituisce quindi il primo atto della procedura espropriativa”, affermando che il procedimento pianificatorio e quello espropriativo costituiscono “due procedure distinte ma strettamente connesse, per le quali quindi correttamente l’amministrazione ha inviato una sola comunicazione di avvio del procedimento, specificando tra l’altro che l’approvazione dell’accordo costituisce dichiarazione di pubblica utilità”.
Orbene, il Collegio ritiene che – in disparte ogni valutazione in ordine alla maggiore o minore connessione tra procedimento pianificatorio e procedimento espropriativo – nel caso in esame tale ultimo procedimento sia diretta e necessitata conseguenza del primo (laddove, ovviamente, non si addivenga a diversi accordi di cessione volontaria e/o contratti di compravendita delle aree), con conseguente necessarietà dell’emanazione del decreto di esproprio in ordine alle aree finalizzate alla realizzazione del programma.
Alla luce di ciò, trova applicazione, nel caso di specie, l’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990, non potendo avere il provvedimento finale contenuto diverso da quello in esso presente.
3. Con il secondo motivo di appello, la società appellante lamenta, in particolare, sia il vizio di violazione di legge sia il vizio di motivazione insufficiente ed errata, in relazione all’aumento dell’indice dallo 0,65 mq/mq all’1,65 mq/mq”, essendo peraltro inverosimile che gli obiettivi strategici possano comportare “la triplicazione dell’indice”.
Rileva, inoltre, la società:
- che la qualificazione di infrastruttura di interesse pubblico – che secondo la sentenza giustificherebbe l’inclusione di 20.00 mq destinati a manifestazioni espositive, etc., quale standard qualitativo, non può derivare da un “simbolo” di una città ovvero dall’uso comune, ma solo dalle normative urbanistiche;
- che la possibilità, in luogo della cessione delle aree o della monetizzazione, di realizzare infrastrutture e servizi di interesse generale, non costituisce ipotesi generale, ma che ricorre solo quando vi è impossibilità di reperire le aree all’interno dell’ambito di intervento, né vi è motivazione in ordine al perché “in luogo di aree esterne si sia ritenuto preferibile la realizzazione di una infrastruttura non certo di interesse generale”;
Orbene, come condivisibilmente affermato dalla sentenza impugnata, il Programma integrato di intervento presenta “la specifica finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio” ed è caratterizzato sia dalla presenza di una pluralità di funzioni, sia dall’integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, in una dimensione capace di incidere sulla riorganizzazione urbana e con il possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche e private”.
Tale Piano, quindi, “riesce ad assolvere la sua funzione di strumento di riqualificazione del tessuto urbanistico, edilizio e ambientale, grazie al coinvolgimento di capitali privati, a fronte della sempre crescente difficoltà delle amministrazioni locali di reperire le risorse per realizzare strutture pubbliche”.
Lo strumento urbanistico adottato, dunque, costituisce uno strumento di intervento straordinario che – anche al fine di associare all’opera di riqualificazione soggetti (finanziatori) privati – ben può incidere sull’indice edificatorio, e ciò proprio in ragione della natura dell’intervento suddetto e delle esigenze che postula la nuova e diversa destinazione dell’area.
Da ciò consegue che – come affermato dal I giudice - la motivazione per la quale l’indice di utilizzazione territoriale è stato definito in 1.65 mq/mq, in luogo di 0,65 mq/mq, “si deduce dal complesso degli atti di cui si compone il Programma integrato di intervento” e si giustifica “per il carattere strategico dell’intervento”.
D’altra parte, anche sul piano della ragionevolezza, la (ri)pianificazione di vaste aree urbane, anche collocate all’interno della città e caratterizzate da situazioni di degrado, spesso conseguente ad una dismessa adibizione a precedenti finalità caratterizzanti, non può che presentare esigenze e richiedere strumenti (ivi compreso l’indice edificatorio), affatto diversi da quelli in generale previsti per interventi in aree di completamento.
Nei casi come quello in esame, è la strategicità dell’intervento e la finalità di recupero che ben giustificano (e sorreggono sul piano motivazionale) il diverso indice edificatorio previsto.
4. Sotto connesso profilo, l’appellante lamenta, inoltre, che “circa 20.000 mq. di superfici a funzione pubblica sono state, al contrario, destinate a “manifestazioni espositive, sfilate ed eventi collettivi legati propriamente alla moda . . . etc.”, deducendo da ciò che, così operando, “in buona sostanza, vi è stato un illegittimo incremento della funzione privata” (pag. 17 app.) e negando che la qualificazione di infrastrutture di interesse pubblico possa derivare “da un simbolo o dall’uso comune e non dalle normative urbanistiche” (pag. 21 app.).
Il Collegio osserva, preliminarmente, che le doglianze proposte su tali aspetti dall’appellante attengono a scelte urbanistiche compiute dall’amministrazione, che sfuggono al sindacato del giudice amministrativo, se non per i vizi di violazione di legge ovvero per le figure sintomatiche di eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza.
Ne consegue che non è certo sostenibile che il giudice, fatta salva la verifica della ragionevolezza delle scelte, possa valutare – in luogo dell’amministrazione – la rilevanza sul piano culturale (e la conseguente ricaduta sulle scelte urbanistiche) di specifici fenomeni caratterizzanti il tessuto cittadino, e dunque ricomprendere (o meno) – come nel caso di specie - superfici a vario titolo legate al fenomeno moda tra le “attrezzature culturali” ovvero tra le “funzioni di interesse generale”.
Tanto precisato, il Collegio ritiene che la destinazione Museo della moda e Scuola della moda rientra non irragionevolmente tra le “attrezzature culturali”, che l’art. 16, co. 8, DPR n. 380/2001 comprende tra le opere di urbanizzazione secondaria. E ciò a maggior ragione in una città come Milano, che presenta – come richiamato dal I giudice – una particolare vocazione nel settore.
Ciò non significa, quindi – come sostenuto dall’appellante – che la qualificazione di infrastruttura di interesse pubblico derivi da un “simbolo” o da una tradizione locale, ma che il concetto di “attrezzature culturali”, noto al legislatore, si caratterizza anche per la particolare vocazione di un centro urbano e giustifica non tanto l’attribuzione di fenomeno culturale alla moda (pur sostenibile), quanto la necessità della scelta di una particolare opera di urbanizzazione secondaria, effettuata in sede di pianificazione.
Quanto alle aree destinate a “funzioni espositive”, non appare irragionevole che esse possano rientrare tra le funzioni di interesse generale, posta la vocazione produttiva della città di Milano, che associa non solo la sua immagine, ma parte importante del suo tessuto economico al settore della moda, nell’ambito della quale le manifestazioni rappresentano sia un richiamo commerciale, sia un evento culturale.
Infine, l’appellante sostiene che la possibilità, in luogo della cessione delle aree o della monetizzazione, di realizzare infrastrutture e servizi di interesse generale, non costituisce ipotesi generale, ma che ricorre solo quando vi è impossibilità di reperire le aree all’interno dell’ambito di intervento, né vi è motivazione in ordine al perché “in luogo di aree esterne si sia ritenuto preferibile la realizzazione di una infrastruttura non certo di interesse generale”.
La scelta effettuata dall’Amministrazione per la realizzazione di infrastrutture e servizi di interesse generale risulta pienamente consentita dall’art. 6, l. reg. n. 9/1999, né rappresenta un’ipotesi eccezionale, tale da richiedere una particolare motivazione.
Pertanto, come condivisibilmente affermato dalla sentenza impugnata, è legittimo che l’amministrazione, in luogo della cessione delle aree e in alternativa alla monetizzazione, abbia previsto “l’impegno degli attuatori a realizzare infrastrutture e servizi di interesse generale, anche a gestione privata convenzionata, il cui valore fosse almeno pari a quello delle aree che avrebbero dovute essere cedute, cioè il c.d. standard qualitativo”.
Da quanto sin qui esposto (punti 3 e 4), discende l’infondatezza del secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto).
5. Sono, infine, infondati anche il terzo ed il quarto motivo di appello (sub lett. c) e d) dell’esposizione in fatto).
Con il terzo motivo di appello, la società afferma la sussistenza dell’interesse in ordine al motivo con il quale essa censura che, contrariamente a quanto previsto nella Relazione tecnica e normativa di attuazione, il Comune di Milano “si è impegnato a cedere tutta la s.l.p.a destinazione privata di propria competenza agli attuatori privati”, e ciò perché l’annullamento del Programma consentirebbe di ottenere la retrocessione dell’area ablata o, comunque, il risarcimento del danno e non il mero riconoscimento dell’indennità.
Orbene, anche a volere prescindere dalla dichiarata inammissibilità del motivo per difetto di interesse, quanto al merito, le considerazioni già esposte, onde sostenere l’infondatezza del secondo motivo di appello, sostengono anche la reiezione del presente motivo di impugnazione.
Quanto al quarto motivo, occorre innanzi tutto osservare che appare fondata la pronuncia di inammissibilità del motivo medesimo per difetto di interesse, posto che lo stesso – ferme le argomentazioni della sentenza impugnata - si fonda su mere ed ipotetiche previsioni.
La società appellante lamenta, infatti, che, posto che la realizzazione del Piano è “indissolubilmente legata alla attuazione di altri strumenti attuativi che interessano aree adiacenti”, potrebbe verificarsi che “il fortissimo sacrificio per la ricorrente potrebbe rivelarsi vano allorché, a fronte di un indiscutibile mancato coordinamento fra i diversi piani attuativi, uno degli stessi non debba trovare attuazione o subisca modifiche essenziali tali da stravolgere una viabilità costruita solo sulla carta” (e in funzione della quale è stata prevista l’espropriazione e la successiva demolizione di immobili di sua proprietà).
Appare a tutta evidenza la mera eventualità di quanto rappresentato e, dunque, il difetto di concretezza del motivo di ricorso che si riverbera in termini di difetto di interesse.
Ciò che rileva in termini di legittimità di un atto di pianificazione è la coerenza interna delle sue previsioni, non già la eventuale “inutilità” delle medesime derivante da una successiva ed ipotetica mancata attuazione di quanto dall’atto stesso disposto.
6. Per tutte le ragioni esposte, l’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Immobiliare Romagnina s.r.l. (n. 3707/2010 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
Guido Romano, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 18/11/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)