Il regime edilizio delle opere pubbliche e la totale soggezione delle infrastrutture regionali e sub-regionali ai poteri (di pianificazione, di accertamento di conformità, di vigilanza sull’uso del territorio e sanzionatori) comunali.

di Tommaso MILLEFIORI

Il vigente Testo Unico dell’Edilizia riserva all’attività costruttiva della pubblica Amministrazione un regime giuridico solo relativamente differenziato rispetto all’ordinaria disciplina stabilita e valevole per l’omologa attività privata.

L’art. 7 del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 sancisce, infatti, l’affrancamento dell’ “attività edilizia delle pubbliche amministrazioni” soltanto dalle disposizioni del Titolo II rubricato “Titoli abilitativi”, prevedendo testualmente che <<1. Non si applicano le disposizioni del presente titolo per:

a) opere e interventi pubblici che richiedano per la loro realizzazione l'azione integrata e coordinata di una pluralità di amministrazioni pubbliche allorché l'accordo delle predette amministrazioni, raggiunto con l'assenso del comune interessato, sia pubblicato ai sensi dell'articolo 34, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267;

b) opere pubbliche, da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale e opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti, ovvero da concessionari di servizi pubblici, previo accertamento di conformità con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383, e successive modificazioni;

c) opere pubbliche dei comuni deliberate dal consiglio comunale, ovvero dalla giunta comunale, assistite dalla validazione del progetto, ai sensi dell'articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554>>.

La sottrazione delle opere pubbliche all’ordinaria disciplina edilizia non è quindi né totale (restando anche esse soggette alle altre disposizioni comuni contenute nel DPR n. 380/01), né assoluta (restando anche esse comunque soggette agli speciali-alternativi regimi amministrativi di controllo preventivo contemplati dallo stesso art. 7).

Per l’effetto, l’affrancamento delle opere pubbliche dagli ordinari titoli edilizi non implica anche la loro esenzione dal rispetto della disciplina urbanistica sostanziale, la cui eventuale violazione comporta la piena applicabilità tanto delle sanzioni amministrative quanto delle sanzioni penali previste dal medesimo T.U.

Trattasi all’evidenza della positivizzazione estensiva di principi già da tempo presenti nell’ordinamento di settore per le (sole) opere pubbliche statali o d’interesse statale, da sempre assoggettate, ma solo sul versante procedurale, a regime edilizio differenziato rispetto alla corrispondente attività privata di trasformazione del territorio, ferma restando la loro necessaria conformità (al pari delle opere private) alla disciplina sostanziale di riferimento1.

Sovviene al riguardo lo storico complesso normativo costituito dalle disposizioni già contenute negli artt. 29 e 31, co. 2, della legge n. 1150 del 1942, entrambe fatte salve dall’ultimo comma dell’art. 9 della legge n. 10 del 1977, nonché nell’art. 81 del DPR n. 616 del 1977, per le quali il regime giuridico delle opere (statali o d’interesse statale) interessate risultava ispirato al criterio secondo cui anche tali opere erano da ritenere assoggettate alla pianificazione urbanistica comunale, dovendo quindi rispettarne le prescrizioni2.

Significativa in tal senso era la stessa rubrica del citato art. 29 della legge urbanistica fondamentale (“conformità delle costruzioni statali alle prescrizioni del piano regolatore comunale”), il quale, appunto in tale prospettiva, recava l’espressa previsione di una specifica competenza “certativa” del Ministero dei lavori pubblici in relazione ai progetti delle singole amministrazioni statali; donde l’enucleazione di un “principio tradizionale” del nostro ordinamento nella riserva allo Stato del potere di accertamento della conformità (alle prescrizioni urbanistico-edilizie) delle opere (tutte) da eseguirsi da Amministrazioni statali (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 25 ottobre 1989 n. 622).

Nella logica del sistema della legge urbanistica fondamentale del 1942 v’era quindi la piena equivalenza dell’atto di auto-accertamento ministeriale al provvedimento autorizzatorio sindacale.

In particolare, nella vigenza dell’art. 29 della legge n. 1150 del 1942 la giurisprudenza era, infatti, concorde nel ritenere che, a seguito del giudizio di conformità, lo Stato potesse procedere all’esecuzione dei lavori senza dover sottostare ad ulteriori controlli da parte dei Comuni e, pertanto, senza premunirsi della licenza edilizia (Cass., Sez. Un., ord. 7 luglio 1977 n. 573; Cass. pen., III, 5 febbraio 1973; Cons. Stato, VI, 11 marzo 1980 n. 299; TAR Liguria 4 marzo 1982 n. 129; TAR Lombardia 11 gennaio 1978 n. 19; TAR Abruzzo 17 dicembre 1975 n. 255).

Il successivo art. 81 del DPR n. 616 del 1977 (comportante l’implicita abrogazione del citato art. 29 della legge urbanistica fondamentale) ha confermato il principio della necessaria corrispondenza delle opere pubbliche alle previsioni dei piani urbanistici3.

In tale prospettiva, la medesima norma innovativamente prescriveva che l’accertamento di conformità andasse fatto dallo Stato, non più in via esclusiva, bensì “d’intesa con la Regione interessata” (comma 2) e che il superamento dell’eventuale difformità dell’opera pubblica statale rispetto al sistema della pianificazione territoriale fosse possibile attraverso il raccordo Stato-Regione con il coinvolgimento degli enti locali territorialmente interessati dall’intervento (comma 3), fermo restando, in caso di esito negativo, il potere dell’autorità statale di assumere le determinazioni finali mediante la procedura “rinforzata” ai sensi del comma 4 dello stesso art. 81 (decreto presidenziale emesso su deliberazione del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro competente, sentita la Commissione interparlamentare per le questioni regionali).

Anche in detto sistema, l’accertamento (questa volta congiunto) di conformità ai sensi del comma 2 dell’art. 81 del DPR n. 616/77 era sostitutivo della concessione edilizia, svolgendone la stessa funzione di verifica della corrispondenza del progetto alla disciplina urbanistica (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 settembre 1986 n. 618; TAR Lazio, Sez. I, 22/10/1984 n. 936).

A sua volta, l’intesa sulla riscontrata difformità con l’apporto consultivo degli Enti locali interessati ex comma 3 dello stesso art. 81 produceva gli effetti della variante urbanistica, idonea a mutare le previsioni di piano conformandole alle caratteristiche dell’opera pubblica statale (cfr. TAR Lazio, Sez. I, 22 ottobre 1984 n. 936) nonché a sostituire la concessione edilizia4.

 

Come già accennato, il suddetto sistema positivo non conteneva però una disciplina espressa del regime edilizio delle opere pubbliche regionali e degli enti territoriali sub-regionali.

Per l’effetto, parte della giurisprudenza affermava la necessità della concessione edilizia per le opere eseguite dai Comuni (cfr. Cass. pen., Sez. III, 19/01/1984, n. 83. D’Amico), “giacchè la speciale procedura di cui all’art. 81 del DPR n. 616/77 si applica(va) solo agli interventi dello Stato e non a quelli di altri enti pubblici territoriali” (cfr. Cass. pen, Sez. III, 07/06/1995, Pruneri).

Conferma di ciò poteva effettivamente trarsi:

-dal disposto dell’art. 9, lett. f), della legge n. 10 del 1977, recante l’espressa previsione della concessione edilizia (sia pure gratuita) per le “opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”;

-dall’art. 22 della legge 1° dicembre 1986 n. 879, recante la previsione di un’eccezionale ipotesi di sanatoria di opere eseguite dai Comuni senza concessione edilizia (cfr. Cass. pen, Sez. III, 01/02/2005 n. 10049);

-dalla specifica disposizione contenuta nel D.L. 27 marzo 1995 n. 88 e reiterata nella serie dei successivi decreti legge nn. 193/95, 310/95, 400/95, 498/95, 30/96, 154/96, 285/96, 388/96 e 495/96 (nessuno dei quali convertito in termini), recante la previsione che “non sono soggette a concessione edilizia né a denuncia di inizio dell’attività le opere pubbliche comunali”; previsione ritenuta evidentemente “non … necessaria se dette opere e solo queste fossero in precedenza affrancate dall’obbligo di richiedere la concessione edilizia” (cfr. Cass. pen., Sez. III, 07/06/1995 n. 8606; id., 01/02/2005 n. 10049).

La questione venne poi espressamente disciplinata dall’art. 2, co. 60, della legge 23/12/1996 n. 662 con la seguente disposizione: “Per le opere pubbliche dei comuni, la deliberazione con la quale il progetto viene approvato o l’opera autorizzata ha i medesimi effetti della concessione edilizia. I relativi progetti dovranno peraltro essere corredati da una relazione a firma di un progettista abilitato che attesti la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonché l’esistenza dei nulla osta di conformità alle norme di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesistiche”5.

 

Fin qui il quadro normativo di riferimento anteriore all’entrata in vigore del DPR n. 380/01 con la nuova specifica disposizione riportata in premessa.

Dall’esame del relativo contenuto risultano confermati, come già detto, per un verso, il persistente assoggettamento (anche) delle opere pubbliche al regime edilizio comune, e, per altro verso, la loro (potenziale e condizionata) esenzione (solo) dalle disposizioni relative ai titoli abilitativi.

In particolare, a tale ultimo riguardo, l’art. 7 del T.U. Ed.:

-per le “opere statali e di interesse statale”, richiama il DPR 18 aprile 1994 n. 383 (“Regolamento recante la disciplina dei procedimenti di localizzazione delle opere di interesse statale”), il cui art. 2 ripropone l’istituto dell’accertamento di conformità ex art. 81, co. 2, DPR n. 616/77 mediante intesa dello Stato con la Regione interessata, dagli effetti sostitutivi del titolo edilizio, svolgendone la stessa funzione di verifica della corrispondenza del progetto alla disciplina urbanistica (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 settembre 1986 n. 618; TAR Lazio, Sez. I, 22/10/1984 n. 936);

-per le “opere pubbliche dei comuni”, sostanzialmente reitera la previgente disciplina innanzi richiamata, ribadendo l’equipollenza al titolo edilizio della delibera comunale di approvazione del progetto assistita da formale validazione ai sensi dell’art. 47 del DPR 21/12/1999 n. 554, comprensiva dell’attestazione di conformità (anche) alla disciplina urbanistica vigente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 ottobre 2003 n. 6631; Cass. pen., Sez. III, 02 aprile 2008 n. 18900);

-per le opere pubbliche sovracomunali non statali (regionali, provinciali e sub-regionali), continua però a non contenere una specifica disciplina procedurale derogatoria, costringendo le rispettive Amministrazioni competenti a premunirsi dell’ordinario titolo abilitativo, al pari di qualsiasi altro soggetto privato, ovvero, al più, ad avvalersi dell’istituto procedimentale dell’“accordo inter-istituzionale” richiamato in termini generali dalla lett. a) della disposizione in esame (per le “opere ed interventi pubblici che richiedano per la loro realizzazione l'azione integrata e coordinata di una pluralità di amministrazioni pubbliche allorché l'accordo delle predette amministrazioni, raggiunto con l'assenso del comune interessato, sia pubblicato ai sensi dell'articolo 34, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”)6.

Nel vigente ordinamento di settore, quindi, l’attività costruttiva degli Enti locali da ultimo richiamati in tanto può essere legittimamente eseguita in quanto risulti alternativamente assistita e sorretta:

a) dall’“accordo” con il Comune interessato “pubblicato” nel Bollettino Ufficiale della Regione;

b) da un ordinario permesso di costruire;

entrambi peraltro implicanti il riscontro della conformità con le previsioni pianificatorie comunali, nel cui difetto sarà necessario il prodromico o contestuale perfezionamento di un’apposita variante urbanistica, sempre comunque con l’indefettibile consenso del Comune interessato.

Per tali opere, infatti, la previsioni di piano regolatore costituiscono un limite non solo tassativo ma anche insuperabile in via autoritativa7, mancando un modulo procedimentale analogo a quello ex art. 81, co. 4, DPR n. 616/77 atto a superare e risolvere il loro possibile conflitto con la disciplina urbanistica comunale.

Il che, in esito alla massiccia devoluzione alle regioni ed enti locali sub-regionali di tutte le funzioni in tema di “territorio e urbanistica”, “opere pubbliche”, “viabilità”, “trasporti”, ecc., portata dal D. Lgs. 31 marzo 1998 n. 112 in anticipo rispetto alla modifica dell’art. 117 cost., comporta il conseguenziale assoggettamento di numerose ed importanti opere pubbliche (quali ad es. le strade non rientranti nella rete autostradale e stradale nazionale), già di competenza e/o di interesse statale assistite da procedure localizzative speciali anche di tipo autoritativo, alle normali procedure di “raccordo urbanistico” completamente affidate al benestare dei Comuni interessati.

In relazione alle medesime opere, la sostanziale centralità del ruolo comunale nelle procedure di accertamento di conformità e di raccordo urbanistico si riverbera anche sul versante del potere di vigilanza sull’uso del territorio demandato in via generale dall’art. 27 del T.U. Ed. al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale, siccome derogato dal successivo art. 28 solo per le “opere di amministrazioni statali”, quali non sono più quelle “devolute”.

Dalla necessità, per le opere in considerazione, di uno specifico “accordo inter-istituzionale” pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione ex art. 7, lett. a), del T.U. Ed., quale unico titolo abilitativo edilizio equipollente e alternativo all’ordinario permesso di costruire (altrimenti indefettibile) entrambi basati sul presupposto della loro accertata conformità urbanistica, discende la piena applicabilità alle medesime opere:

-dell’ordinario potere di vigilanza comunale sull’attività urbanistico-edilizia, ai sensi del successivo ex art. 27;

-dell’ordinario regime repressivo e sanzionatorio, tanto amministrativo quanto penale, ex artt. 31 e ss. dello stesso T.U.

C’è da chiedersi se, dopo il corposo trasferimento di funzioni e competenze a Regioni e Province innanzi richiamato, la corrispondente prassi amministrativa sul versante edilizio sia conforme alla suddetta disciplina, atteso che soltanto il preciso e completo espletamento della specifica procedura prevista può validamente “tenere luogo” del permesso di costruire (cfr. Cass. pen, Sez. III, 27/10/2010 n. 41033) legittimando l’esecuzione dell’attività di trasformazione del territorio, nel cui difetto restano integrati altresì i reati di costruzione abusiva di cui all’art. 44 del DPR n. 380/01.

 

Avv. Tommaso Millefiori

 

 

1 Cfr. T. Millefiori, “Brevi note sul procedimento di accertamento di conformità delle opere pubbliche statali e d’interesse statale agli strumenti urbanistici locali”, in Riv. Giur. Ed., 1994, I, pagg. 618 e ss.

2 Cfr. G. Morbidelli, “Il piano regolatore e le opere pubbliche statali”, in Foro Amm., 1972, II, pag. 195.

 

3 Cfr. N. Assini - P. Mantini, “Manuale di diritto urbanistico”, Giuffrè, 1997, pag. 787.

4 Cfr. N. Assini, “Manuale di diritto urbanistico”, Giuffrè, 1991, 701.

5 Cfr. P. MARZARO GAMBA, “L’esclusione della concessione edilizia per la realizzazione delle opere pubbliche comunali”, in Riv. Giur. Urb., 1997, pagg. 295 ss.

6 Per la novità di tale fattispecie di accordo, cfr. C. Celone, in “Testo unico dell’edilizia, a cura di Maria Alessandra Sandulli”, Giuffrè, 2009, pag. 153.

7 Dispone, al riguardo, l’art. 19, co. 3, del DPR 8 giugno 2001 n. 327 (T.U. in materia di espropriazione per pubblica utilità) che <<Se l’opera non è di competenza comunale, l’atto di approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte dell’autorità competente è trasmesso al consiglio comunale, che “può” disporre l’adozione della corrispondente variante allo strumento urbanistico>>.

In sede di commento a tale disposizione, è stato poi autorevolmente osservato che “Il consiglio comunale, ove non intenda adottare la variante, deve compiutamente indicare le ragioni della sua scelta: se il consiglio comunale respinge il progetto così redatto o resta inerte, l’amministrazione procedente ben può proporre ricorso al giudice amministrativo, avverso il diniego o il silenzio del Comune” (L. Maruotti, in “L’espropriazione per pubblica utilità”, Giuffrè, 2007, pag. 275-276).