Corte costituzionale sent. n.153 del 21 giugno 2019
Oggetto: Ambiente - Acque pubbliche - Norme della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia - Limitazioni alle nuove concessioni di derivazione d'acqua contenute nelle Norme di attuazione del Piano regionale di tutela delle acque - Esclusione dall'applicazione per le istanze presentate prima dell'approvazione del Piano. Rifiuti - Facoltà per i gestori di impianti di smaltimento o recupero di rifiuti di stipulare con i Comuni, sul cui territorio sono situati gli impianti, convenzioni che prevedano la corresponsione di un indennizzo.
Dispositivo: illegittimità costituzionale - inammissibilità
SENTENZA N. 153
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 11, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 marzo 2018, n. 12 (Disposizioni in materia di cultura, sport, risorse agricole e forestali, risorse ittiche, attività venatoria e raccolta funghi, imposte e tributi, autonomie locali e coordinamento della finanza pubblica, funzione pubblica, infrastrutture, territorio, ambiente, energia, attività produttive, cooperazione, turismo, lavoro, biodiversità, paesaggio, salute e disposizioni istituzionali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 25 maggio-1° giugno 2018, depositato in cancelleria il 30 maggio 2018, iscritto al n. 38 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;
udito nella udienza pubblica del 7 maggio 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 25 maggio-1° giugno 2018 e depositato il 30 maggio 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 11, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 marzo 2018, n. 12 (Disposizioni in materia di cultura, sport, risorse agricole e forestali, risorse ittiche, attività venatoria e raccolta funghi, imposte e tributi, autonomie locali e coordinamento della finanza pubblica, funzione pubblica, infrastrutture, territorio, ambiente, energia, attività produttive, cooperazione, turismo, lavoro, biodiversità, paesaggio, salute e disposizioni istituzionali), in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 119 della Costituzione.
1.1.– Il comma 1 dell’art. 7 della legge regionale impugnata dispone che «Le limitazioni alle nuove concessioni di derivazione d’acqua previste dall’articolo 43, commi 3, 4 e 5, delle Norme di attuazione del Piano regionale di tutela delle acque, non si applicano alle istanze di concessione di derivazione d’acqua presentate prima della data di approvazione del Piano stesso».
Il comma 11 del medesimo articolo introduce, dopo il comma 3-bis dell’art. 27 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 20 ottobre 2017, n. 34 (Disciplina organica della gestione dei rifiuti e principi di economia circolare), il comma 3-ter, del seguente tenore: «I gestori degli impianti di cui agli articoli [recte commi] 3 e 3-bis possono stipulare con i Comuni sul cui territorio sono situati i relativi impianti convenzioni che prevedano la corresponsione di un indennizzo, determinato dal regolamento regionale di cui all’articolo 10, comma 1, lettera b)».
Preliminarmente, il ricorrente sottolinea come le dette disposizioni eccedano dalle competenze attribuite alla Regione autonoma dal proprio statuto, approvato con la legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).
1.2.– Il comma 1 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018 è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 95 e 96 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).
In particolare, la norma regionale è ritenuta in contrasto con le «disposizioni statali ed europee in materia di tutela quantitativa delle acque, con conseguenze altresì sulla tutela qualitativa dei corpi idrici». La difesa statale muove dall’assunto che la disciplina della tutela delle acque rientri nella materia della tutela dell’ambiente; pertanto, le norme regionali non potrebbero derogare alle leggi statali applicabili in questo ambito.
Nel caso di specie, la norma di cui al comma 1 dell’art. 7 violerebbe gli artt. 95, commi 2 e 4, e 96, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 152 del 2006, secondo i quali tutte le istanze di concessione di derivazione d’acqua devono essere sottoposte al parere vincolante delle autorità di bacino territorialmente competenti affinché sia assicurato il rispetto dell’equilibrio del bilancio idrico e sia garantito il rispetto del minimo deflusso vitale dei corpi idrici secondo la pianificazione e programmazione contenuta nei piani di tutela, anche se non ancora approvati.
Nel caso di specie l’impugnato comma 1 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018 si porrebbe in contrasto con l’anzidetta normativa statale perché sottrarrebbe alle limitazioni previste dal piano regionale di tutela delle acque le domande di concessione presentate prima della sua approvazione, consentendo così di prescindere dalle previsioni della pianificazione e programmazione che tendono a garantire l’equilibrio del bilancio idrico.
1.3.– Il comma 11 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018 – il quale introduce il comma 3-ter, dopo il comma 3-bis dell’art. 27 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017 – è impugnato in quanto imporrebbe, «ai soggetti gestori di impianti di smaltimento localizzati sul territorio regionale, il pagamento di un indennizzo, necessario a compensare il disagio legato alla presenza dell’impianto di smaltimento o di recupero sul territorio comunale pur non essendo sostenuto da specifica norma statale».
In particolare, il ricorrente sostiene che il comma 11 dell’art. 7 si ponga in contrasto con l’art. 119 Cost., poiché il legislatore statale avrebbe già istituito «il tributo speciale per il deposito in discarica e in impianti di incenerimento senza recupero energetico dei rifiuti solidi» (art. 3, comma 24, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»), che costituirebbe un tributo sovrapponibile a quello previsto dalla norma impugnata. Il soggetto passivo del tributo speciale è il «gestore dell’impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento» (art. 3, comma 26, della legge n. 549 del 1995).
La difesa statale rileva altresì che, proprio al fine di compensare il disagio provocato dalla presenza di tali tipologie di impianti sul territorio, il legislatore statale ha previsto che le regioni destinino una quota parte del gettito «ai comuni ove sono ubicati le discariche o gli impianti di incenerimento senza recupero energetico e ai comuni limitrofi, effettivamente interessati dal disagio provocato dalla presenza della discarica o dell’impianto, per la realizzazione di interventi volti al miglioramento ambientale del territorio interessato, alla tutela igienico-sanitaria dei residenti, allo sviluppo di sistemi di controllo e di monitoraggio ambientale e alla gestione integrata dei rifiuti urbani» (art. 3, comma 27, della legge n. 549 del 1995).
Pertanto, l’impugnato comma 11 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018 violerebbe «nel complesso» gli artt. 119 e 117, secondo comma, lettera s), Cost. Infatti, il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, disciplinato dai commi da 24 a 49 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995, costituisce tributo statale, e non già tributo “proprio” delle regioni, non rilevando a tal fine né l’attribuzione del suo gettito, né le competenze amministrative attribuite a queste ultime. Questo tributo risponderebbe a finalità ambientali consistenti nel favorire la minore produzione di rifiuti, il recupero di materia prima e di energie, la bonifica dei siti contaminati e il recupero di aree degradate (sono citate le sentenze n. 133 e n. 85 del 2017, n. 58 del 2015 e n. 269 del 2014).
Non spetterebbe, quindi, al legislatore regionale introdurre modifiche alla normativa statale che non siano da essa espressamente consentite o, come nel caso di specie, istituire un tributo sovrapponibile a quello previsto dalla legislazione statale. Di qui la violazione dell’art. 119 Cost., come peraltro confermato dalla sentenza n. 280 del 2011, con la quale sarebbe stata definita una questione simile a quella odierna, e dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in ragione dell’interferenza con la disciplina dei rifiuti rientrante nella materia ambientale di competenza esclusiva dello Stato.
2.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia si è costituita in giudizio chiedendo che le questioni promosse siano dichiarate inammissibili e infondate, rinviando a separata memoria l’illustrazione delle ragioni addotte a sostegno di questa richiesta.
3.– In prossimità dell’udienza la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha depositato una memoria nella quale illustra le ragioni di inammissibilità e di infondatezza delle censure mosse dal ricorrente.
3.1.– Quanto alla questione di legittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018, la difesa regionale eccepisce, preliminarmente, l’inammissibilità della censura in quanto il ricorso ometterebbe di esaminare le disposizioni di cui agli artt. 43, commi 3, 4 e 5, delle norme di attuazione del piano regionale di tutela delle acque. A detta della resistente, limitandosi la norma impugnata a disporre «specifiche e limitate eccezioni alla integrale applicazione del Piano Acque», graverebbe sul ricorrente l’onere di illustrare il contenuto delle disposizioni del piano fatte oggetto della deroga.
Sempre in punto di ammissibilità, la difesa regionale rileva l’erroneità del parametro di riferimento, sottolineando come il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe dovuto prospettare l’eventuale violazione di parametri statutari, piuttosto che di quelli di cui all’art. 117 Cost. L’omessa considerazione delle competenze statutarie della Regione speciale determinerebbe, a suo dire, l’inammissibilità della questione promossa.
Nel merito la censura non avrebbe fondamento, in quanto il ricorso non illustrerebbe né i livelli inderogabili di tutela ambientale asseritamente violati, né il modo in cui si concretizzerebbe questa violazione. La resistente ritiene che, anche a voler supplire alle denunciate omissioni del ricorrente, la norma impugnata rispetti i limiti inderogabili di tutela ambientale, i quali dovrebbero essere individuati nella regola che esige il rispetto del limite di deflusso minimo vitale e dell’equilibrio di bilancio idrico, e in quella che richiede il parere vincolante delle autorità di bacino sulle istanze di concessione.
Secondo la difesa regionale, entrambe queste regole sarebbero pienamente rispettate dalla norma impugnata, la quale dichiara «applicabili solo pro futuro» le disposizioni di cui all’art. 43, commi 3, 4 e 5, delle norme di attuazione del piano. Queste ultime non inciderebbero né sul deflusso minimo, né sull’equilibrio idrico, né ancora sul controllo delle istanze di concessione da parte dell’autorità di bacino, ma imporrebbero una «valutazione concreta» delle nuove istanze di concessione di derivazione d’acqua, escludendo che esse, qualora presentino le caratteristiche di cui ai commi 3, 4 e 5 del citato art. 43, siano automaticamente escluse.
Al riguardo, la Regione rivendica il suo potere di distinguere, in sede di redazione del piano o contestualmente a questo, le disposizioni che hanno effetti anticipati (rispetto all’approvazione del piano stesso) da quelle che, invece, operano dopo l’approvazione, rinvenendo il fondamento di questo potere nell’art. 121, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006. Pertanto, il legislatore regionale si sarebbe limitato a specificare, nella disposizione impugnata, quali norme di attuazione non trovano applicazione alle istanze presentate prima della data di approvazione del piano.
La difesa regionale rinviene un ulteriore argomento a sostegno della sua tesi nel fatto che l’autorità di bacino dei fiumi Isonzo, Tagliamento, Livenza, Piave, Brenta-Bacchiglione, con una nota del 3 febbraio 2016 (allegata alla memoria), ha ritenuto applicabili a tutte le nuove istanze le misure di salvaguardia indicate in sede di adozione dell’aggiornamento del piano di gestione delle acque del distretto idrografico delle Alpi orientali.
Pertanto, sempre a detta della resistente, sarebbe «del tutto logico» che le misure contenute nell’art. 43, commi 3, 4 e 5, corrispondenti a misure che in origine trovavano applicazione solo alle domande presentate dopo l’entrata in vigore delle misure di salvaguardia, non siano ora applicabili retroattivamente a quelle stesse domande, in ragione del «ritardo nella definizione dell’istruttoria».
3.2.– In relazione al comma 11 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018, la resistente ritiene che le questioni promosse siano infondate per le seguenti ragioni: innanzitutto l’indennizzo previsto non avrebbe natura tributaria e dunque non sarebbe «sovrapponibile» ad alcun tributo statale; in secondo luogo, esso si riferirebbe comunque a fattispecie diverse da quelle alle quali si applica il tributo per il deposito in discarica e quindi non sarebbe «sovrapponibile» al tributo statale neppure per l’oggetto; infine, la Regione disporrebbe di una propria competenza statutaria in materia di rifiuti.
Preliminarmente, la difesa regionale sottolinea come già l’art. 27 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017 preveda che «[i] Comuni sul cui territorio sono situati impianti di smaltimento dei rifiuti sono indennizzati dei relativi disagi mediante la corresponsione, da parte del gestore dell’impianto, di un indennizzo differenziato determinato ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lettera b)».
Tale indennizzo è dovuto per la sola quota di rifiuti gestiti in conto terzi da impianti di recupero «che utilizzano rifiuti come combustibile o altro mezzo per produrre energia» (art. 27, comma 2, lettera a), «che utilizzano rifiuti per produrre ammendante compostato misto» (art. 27, comma 2, lettera b), «che effettuano la digestione anaerobica di rifiuti» (art. 27, comma 2, lettera c).
I commi 3 e 3-bis del medesimo art. 27 escludono dalla corresponsione dell’indennizzo «i gestori di impianti di recupero o di smaltimento dei rifiuti situati nelle aree produttive ecologicamente attrezzate (APEA) di cui all’articolo 8 della legge regionale 3/2015 e i gestori di impianti di recupero di rifiuti in possesso della registrazione ai sensi del regolamento (CE) n. 1221/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, sull’adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema comunitario di ecogestione e audit» (comma 3) e «i gestori di impianti di recupero di rifiuti in possesso della certificazione ambientale ISO 14001» (comma 3-bis).
In questo contesto normativo si colloca l’impugnato comma 11 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018, il quale introduce il comma 3-ter dopo il comma 3-bis dell’art. 27 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, prevedendo che, benché non siano obbligati, i gestori degli impianti individuati negli articoli (recte commi) 3 e 3-bis possono stipulare con i Comuni interessati convenzioni che prevedano la corresponsione dell’indennizzo di cui sopra.
Da questa ricostruzione del quadro normativo la difesa regionale deduce l’infondatezza delle questioni promosse sia perché l’indennizzo convenzionale previsto non ha natura tributaria, sia perché esso non si riferisce al deposito in discarica dei rifiuti solidi.
Peraltro – aggiunge la resistente – la questione prospettata in riferimento all’art. 119 Cost. sarebbe inammissibile per inconferenza del parametro evocato. Nel caso di specie, trattandosi di un tributo proprio derivato delle regioni (ai sensi dell’art. 8 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68, recante «Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario») il parametro pertinente sarebbe stato, semmai, quello dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. («sistema tributario […] dello Stato»).
3.2.1.– In particolare, la difesa regionale contesta la natura tributaria dell’indennizzo previsto nella norma impugnata, sottolineando come esso costituisca «un contenuto facoltativo della convenzione tra gestore e Comune»; in altre parole, «la volontarietà di tale onere che il gestore intende assumersi [sarebbe] duplice, correlandosi non solo al suo inserimento in una convenzione, e dunque in un atto negoziale risultante dall’accordo tra due parti, ma anche alla sua espressa qualificazione quale contenuto eventuale della stessa».
Nel caso di specie mancherebbero, quindi, i caratteri della unilateralità e della coattività del prelievo, che costituiscono elementi essenziali di ogni tributo. Ciò varrebbe a escludere la pertinenza dell’art. 119 Cost. quale parametro costituzionale di riferimento. A sostegno di questa lettura la difesa regionale adduce la medesima decisione della Corte costituzionale richiamata in proposito dal ricorrente (sentenza n. 280 del 2011), evidenziando come in quel giudizio si discutesse della legittimità costituzionale di una norma che imponeva un contributo.
Nell’odierno giudizio, invece, «l’obbligo di pagamento dell’indennizzo [troverebbe] la sua fonte soltanto in un rapporto convenzionale, vale a dire nella convenzione tra il gestore e il Comune che ospita l’impianto di trattamento dei rifiuti».
Da quanto detto deriverebbe l’assoluta inconferenza del richiamo all’art. 119 Cost., «da solo o in combinazione con l’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.».
3.2.2.– Quanto all’asserita sovrapposizione tra l’indennizzo di cui alla norma impugnata e il tributo previsto dall’art. 3, commi 24 e seguenti, della legge n. 549 del 1995, la resistente precisa che l’indennizzo «non riguarda affatto il presupposto di imposta considerato dalla disposizione statale, né incide in altro modo sul tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, né per quanto riguarda il prelievo, né per quanto riguarda la destinazione del gettito».
In particolare, l’indennizzo di cui alla norma impugnata concernerebbe gli impianti autorizzati alle operazioni R1 o R3 (cioè, rispettivamente, con recupero energetico o con riciclaggio delle componenti organiche); si tratterebbe, quindi, di impianti di tipologia diversa da quelli interessati dal tributo per il conferimento di rifiuti solidi in discarica (il cui presupposto d’imposta è proprio il «deposito in discarica e in impianti di incenerimento senza recupero energetico dei rifiuti solidi, compresi i fanghi palabili»).
Alla luce di questa precisazione la difesa regionale ritiene che sia chiara la ratio dell’indennizzo previsto dalla norma impugnata, che non perseguirebbe una finalità di tutela ambientale, bensì quella di «compensare la comunità locale […] del peso su di essa derivante dalla presenza di un impianto di trattamento di rifiuti, sia pure ecologicamente efficiente».
La previsione di un possibile indennizzo avrebbe anche una «finalità di governo del territorio», in quanto volta ad «agevolare la formazione di un consenso e di una accettazione di decisioni in altri casi fortemente avversate dai controinteressati».
3.2.3.– Da ultimo, la resistente rivendica la titolarità di competenze legislative in materia di rifiuti, sia pure nel rispetto dei livelli di protezione ambientale stabiliti dallo Stato. Per tale ragione, «la prospettazione di una violazione “secca” dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.», senza considerare le competenze statutarie, determinerebbe l’inammissibilità della questione o comunque la sua manifesta infondatezza.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 11, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 marzo 2018, n. 12 (Disposizioni in materia di cultura, sport, risorse agricole e forestali, risorse ittiche, attività venatoria e raccolta funghi, imposte e tributi, autonomie locali e coordinamento della finanza pubblica, funzione pubblica, infrastrutture, territorio, ambiente, energia, attività produttive, cooperazione, turismo, lavoro, biodiversità, paesaggio, salute e disposizioni istituzionali), in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 119 della Costituzione.
2.– Il comma 1 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018 dispone che «[l]e limitazioni alle nuove concessioni di derivazione d’acqua previste dall’articolo 43, commi 3, 4 e 5, delle Norme di attuazione del Piano regionale di tutela delle acque, non si applicano alle istanze di concessione di derivazione d’acqua presentate prima della data di approvazione del Piano stesso». Questa disposizione è censurata per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 95 e 96 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in quanto sottrarrebbe alle limitazioni previste dal piano regionale di tutela delle acque le domande di concessione presentate prima della sua approvazione, consentendo così di prescindere, nella loro valutazione, dalle previsioni della pianificazione e programmazione che tendono a garantire l’equilibrio del bilancio idrico.
2.1.– Preliminarmente la difesa regionale deduce due motivi di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 7.
2.1.1.– Un primo profilo di inammissibilità risiederebbe nella mancata illustrazione del contenuto delle disposizioni di cui all’art. 43, commi 3, 4 e 5, delle norme di attuazione del piano regionale di tutela delle acque. Secondo la resistente, l’omissione renderebbe impossibile verificare se davvero «le specifiche e limitate eccezioni» all’integrale applicazione del piano compromettano i livelli inderogabili di tutela delle acque, come sostenuto dal ricorrente.
L’eccezione non è fondata.
Il comma 1 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018 è impugnato dal Presidente del Consiglio dei ministri sull’assunto che il legislatore regionale non possa sottrarre le istanze di concessione di derivazione d’acqua presentate prima dell’approvazione del piano ad alcuna delle limitazioni previste in quest’ultimo e nelle sue norme di attuazione. Pertanto, non rilevano in questa sede le specifiche limitazioni fatte oggetto di deroga da parte della legge regionale impugnata, quanto invece la competenza legislativa a intervenire in questa materia. Si deve escludere quindi che la mancata illustrazione del contenuto dei commi 3, 4 e 5 dell’art. 43 delle citate norme di attuazione possa incidere in alcun modo sull’ammissibilità della questione promossa, i cui termini risultano sufficientemente chiari e definiti.
2.1.2.– Un secondo profilo di inammissibilità è individuato dalla difesa regionale nell’erroneità del parametro evocato e, in particolare, nel mancato riferimento alle competenze statutarie della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in materia di acque.
Nemmeno questa eccezione è fondata.
Nel presente giudizio il ricorrente, dopo aver precisato che le disposizioni impugnate «eccedono dalle competenze attribuite alla Regione dallo Statuto speciale di autonomia 31 gennaio 1963, n. 1 e successive modifiche ed integrazioni», illustra le ragioni per le quali l’impugnato comma 1 dell’art. 7 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. La difesa statale muove, dunque, da una prospettiva di radicale esclusione di qualsivoglia competenza regionale statutaria e omette, di conseguenza, di illustrare le ragioni dell’applicabilità alla Regione delle norme del Titolo V della Parte seconda della Costituzione anziché di quelle dello statuto speciale (sulla necessità di questa comparazione, da ultimo, sentenze n. 119 e n. 65 del 2019).
Tale impostazione è intrinsecamente coerente: la difesa statale sostiene infatti che la disposizione impugnata incide su un ambito, la tutela delle acque, che la stessa difesa assume rientrare, per giurisprudenza costituzionale «consolidata», nella materia «tutela dell’ambiente».
L’assunzione di una «prospettiva radicale» da parte del ricorrente (nel senso di ritenere del tutto inesistenti competenze statutarie regionali nella materia esaminata) non può naturalmente valere, di per sé, a esonerarlo dall’assolvimento dell’onere di motivare siffatta inesistenza. Ciò nondimeno, l’asserita «radicale» inesistenza di attribuzioni statutarie della Regione in materia riduce tale onere alla non implausibile argomentazione sul suo presupposto, ossia l’anzidetta assenza di competenze statutarie.
Tale argomentazione non si tramuta, comunque, in un’anticipazione della valutazione del merito delle questioni (sentenza n. 252 del 2016), restando necessariamente limitata a una sommaria delibazione dell’ambito materiale di pertinenza. A tale proposito questa Corte ha sottolineato più volte la necessità che l’onere di cui si discute sia assolto «in modo adeguato» (ordinanza n. 247 del 2016), escludendo l’ammissibilità del ricorso quando il ricorrente «non argoment[i] né chiarisc[a] a quale dei parametri indicati [intende] fare riferimento, e perché essi – o uno di essi – assumano rilievo» (sentenza n. 58 del 2016). Ha invece ritenuto ammissibile quel ricorso che non sia «sfornito degli elementi argomentativi minimi richiesti», che vanno valutati anche «in considerazione della radicalità della prospettazione operata dal Governo» (sentenza n. 142 del 2015).
L’adeguatezza, nel senso detto, della argomentazione sull’inesistenza di competenze statutarie regionali può essere “dedotta” a sua volta, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale (fra le tante, sentenze n. 81 del 2019, n. 201, n. 178 e n. 168 del 2018, n. 103 del 2017, n. 58 del 2016, n. 151 e n. 142 del 2015, e ordinanza n. 247 del 2016), dal riferimento a uno o più elementi indiziari, quali l’indicazione nel ricorso dei parametri statutari potenzialmente e astrattamente “incisi” o comunque genericamente pertinenti (sentenze n. 81 del 2019 e n. 201 del 2018) o l’indicazione della giurisprudenza costituzionale che riconduce alla competenza legislativa statale le norme nella materia di cui si discute (sentenza n. 178 del 2018) o l’«evidente» inutilità di uno scrutinio alla luce delle disposizioni statutarie, in ragione del contenuto della norma impugnata (ad esempio, «eminentemente privatistico e processuale») e della natura del parametro evocato (sentenza n. 103 del 2017).
Nel suo ricorso, la difesa statale – che esclude in partenza l’esistenza di una competenza regionale prevista nello statuto speciale e non richiama alcun parametro statutario – motiva la sussistenza della competenza legislativa dello Stato sulla base della giurisprudenza costituzionale che riconduce alla materia «tutela dell’ambiente» le norme a tutela delle acque. Sulla base dei criteri di valutazione anzidetti, l’argomentazione non è implausibile e assolve all’onere di motivazione gravante sul ricorrente.
2.2.– Nel merito la questione è fondata.
La disposizione regionale impugnata consente una deroga a talune limitazioni contenute nel piano regionale di tutela delle acque (quelle previste nell’art. 43, commi 3, 4 e 5, delle sue norme di attuazione) alle nuove concessioni di derivazione d’acqua, prevedendo che le dette limitazioni non si applichino alle istanze di concessione presentate prima della data di approvazione del piano stesso. Il ricorrente censura la disposizione del comma 1 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018, ritenendo che sia violata la competenza legislativa statale in materia di «tutela dell’ambiente».
2.2.1.– In via preliminare si impone una sintetica descrizione del quadro normativo di riferimento. L’art. 121 del d.lgs. n. 152 del 2006 disciplina il piano regionale di tutela delle acque, il quale si aggiunge al piano di bacino distrettuale (art. 65) e al piano di gestione (art. 117). Il piano delle acque è approvato all’esito di un complesso procedimento, articolato nelle seguenti fasi: «le Autorità di bacino, nel contesto delle attività di pianificazione o mediante appositi atti di indirizzo e coordinamento, sentiti le province e gli enti di governo dell’ambito, definiscono gli obiettivi su scala di distretto cui devono attenersi i piani di tutela delle acque, nonché le priorità degli interventi»; «le regioni, sentite le province e previa adozione delle eventuali misure di salvaguardia, adottano il Piano di tutela delle acque e lo trasmettono al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nonché alle competenti Autorità di bacino, per le verifiche di competenza» (comma 2); «le Autorità di bacino verificano la conformità del piano agli atti di pianificazione o agli atti di indirizzo e coordinamento di cui al comma 2, esprimendo parere vincolante»; le Regioni approvano il Piano di tutela «entro i successivi sei mesi» (comma 5).
Questa procedura, che vede l’intervento delle regioni sia nella fase dell’adozione del piano sia in quella della sua approvazione definitiva, è interamente disciplinata nel codice dell’ambiente, sull’assunto della sua inerenza alla competenza legislativa statale in materia di «tutela dell’ambiente». Questo assunto non è stato smentito dalla giurisprudenza costituzionale, che ha ricondotto a tale materia la normativa sulle acque, in quanto preordinata segnatamente alla loro tutela (in questo senso, sentenze n. 229 del 2017 e n. 86 del 2014), osservando in particolare che «[i]l riparto delle competenze […] dipende proprio dalla […] distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse acque, che è di competenza esclusiva statale, ai sensi del vigente art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione» (sentenza n. 1 del 2010).
Con specifico riferimento al piano di tutela delle acque, questa Corte ha affermato che esso costituisce uno «strumento fondamentale di programmazione, attuazione e controllo […] per l’individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici», la cui disciplina rientra nella competenza legislativa statale in materia di «tutela dell’ambiente» (sentenza n. 44 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 254, n. 251, n. 246 e n. 232 del 2009).
Gli artt. 95 e 96 del d.lgs. n. 152 del 2006, indicati dal ricorrente come norme interposte, stabiliscono, tra l’altro: «[n]ei piani di tutela sono adottate le misure volte ad assicurare l’equilibrio del bilancio idrico come definito dalle Autorità di bacino, nel rispetto delle priorità stabilite dalla normativa vigente e tenendo conto dei fabbisogni, delle disponibilità, del minimo deflusso vitale, della capacità di ravvenamento della falda e delle destinazioni d’uso della risorsa compatibili con le relative caratteristiche qualitative e quantitative» (art. 95, comma 2); «[s]alvo quanto previsto al comma 5, tutte le derivazioni di acqua comunque in atto alla data di entrata in vigore della parte terza del presente decreto sono regolate dall’Autorità concedente mediante la previsione di rilasci volti a garantire il minimo deflusso vitale nei corpi idrici, come definito secondo i criteri adottati dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare con apposito decreto, previa intesa con la Conferenza Stato-regioni, senza che ciò possa dar luogo alla corresponsione di indennizzi da parte della pubblica amministrazione, fatta salva la relativa riduzione del canone demaniale di concessione» (art. 95, comma 4); «[l]e domande di cui al primo comma relative sia alle grandi sia alle piccole derivazioni sono altresì trasmesse alle Autorità di bacino territorialmente competenti che, entro il termine perentorio di quaranta giorni dalla data di ricezione ove si tratti di domande relative a piccole derivazioni, comunicano il proprio parere vincolante al competente Ufficio Istruttore in ordine alla compatibilità della utilizzazione con le previsioni del Piano di tutela, ai fini del controllo sull’equilibrio del bilancio idrico o idrologico, anche in attesa di approvazione del Piano anzidetto. Qualora le domande siano relative a grandi derivazioni, il termine per la comunicazione del suddetto parere è elevato a novanta giorni dalla data di ricezione delle domande medesime. Decorsi i predetti termini senza che sia intervenuta alcuna pronuncia, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nomina un Commissario “ad acta” che provvede entro i medesimi termini decorrenti dalla data della nomina» (art. 96, comma 1, sostitutivo dell’art. 7, secondo comma, del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, recante «Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici»); «[i]l provvedimento di concessione è rilasciato se: a) non pregiudica il mantenimento o il raggiungimento degli obiettivi di qualità definiti per il corso d’acqua interessato; b) è garantito il minimo deflusso vitale e l’equilibrio del bilancio idrico; c) non sussistono possibilità di riutilizzo di acque reflue depurate o provenienti dalla raccolta di acque piovane ovvero, pur sussistendo tali possibilità, il riutilizzo non risulta sostenibile sotto il profilo economico» (art. 96, comma 3, sostitutivo dell’art. 12-bis del r.d. n. 1775 del 1933).
2.2.2.– Di particolare rilievo è, poi, la ricostruzione dell’iter di approvazione del piano regionale di tutela delle acque e del procedimento di formazione della legge regionale impugnata. Al riguardo, è significativo notare come i due procedimenti si siano svolti e conclusi nello stesso lasso di tempo: il piano regionale di tutela delle acque è stato approvato con decreto del Presidente della Regione 20 marzo 2018, n. 074/Pres. (D.Lgs. 152/2006, art. 121. L.R. 11/2015, art. 10. Approvazione del Piano regionale di tutela delle acque), previa deliberazione della Giunta 15 marzo 2018, n. 591; la legge reg. n. 12 del 2018 è stata approvata definitivamente dal Consiglio regionale il 15 marzo 2018 ed è stata promulgata dal Presidente della Regione il 27 marzo 2018.
La contestualità dell’intervento del legislatore regionale e dell’approvazione del piano di tutela delle acque induce a ritenere che la valutazione della legge regionale non possa prescindere dal contenuto del piano, con la conseguenza che deve ritenersi che la prima sia stata adottata per venire incontro a specifiche esigenze emerse nell’approvazione del secondo.
2.2.3.– Da quanto detto si deduce chiaramente come la Regione, intervenendo con la legge impugnata per escludere dall’applicazione di alcune limitazioni le istanze presentate prima dell’approvazione del piano, abbia violato il riparto di competenze in materia di tutela delle acque. In base ad esso le regioni possono adottare le prescrizioni del piano di tutela delle acque che ritengono opportune alla luce degli obiettivi indicati dalle autorità di bacino e sempre nel rispetto del quadro normativo definito dagli artt. 95, 96 e 121 del d.lgs. n. 152 del 2006. Inoltre, le regioni possono anche decidere di prevedere o no «eventuali misure di salvaguardia».
Ciò che è, invece, precluso alle regioni è di intervenire con legge per escludere o circoscrivere l’ambito di operatività del piano stesso, giacché ciò comporterebbe l’elusione – totale o parziale – del vincolo della legge statale, espressione della competenza esclusiva in materia di tutela delle acque, funzionale alla garanzia delle esigenze unitarie cui è preordinata la individuazione degli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici.
In questa prospettiva assumono scarso rilievo le specifiche limitazioni la cui applicazione è esclusa dalla norma impugnata, concretizzando comunque la previsione di tale esclusione una indebita violazione della competenza legislativa statale in materia di «tutela dell’ambiente».
3.– La seconda questione riguarda il comma 11 dell’art. 7 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018, con il quale è stato introdotto, dopo il comma 3-bis dell’art. 27 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 20 ottobre 2017, n. 34 (Disciplina organica della gestione dei rifiuti e principi di economia circolare), il comma 3-ter, del seguente tenore: «I gestori degli impianti di cui agli articoli 3 e 3-bis possono stipulare con i Comuni sul cui territorio sono situati i relativi impianti convenzioni che prevedano la corresponsione di un indennizzo, determinato dal regolamento regionale di cui all’articolo 10, comma 1, lettera b)».
Il comma 11 dell’art. 7 è impugnato per violazione dell’art. 119 Cost., poiché introdurrebbe un tributo sovrapponibile al «tributo speciale per il deposito in discarica e in impianti di incenerimento senza recupero energetico dei rifiuti solidi», istituito dal legislatore statale con l’art. 3, comma 24, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica». Esso violerebbe inoltre l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per la sua interferenza con la disciplina dei rifiuti, rientrante nella materia ambientale di competenza esclusiva dello Stato.
3.1.– Preliminarmente occorre precisare che il richiamo «agli articoli 3 e 3-bis», contenuto nella disposizione impugnata, deve intendersi riferito ai commi 3 e 3-bis dell’art. 27 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, che, nelle more del presente giudizio, sono stati abrogati dall’art. 13, comma 1, lettera h), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2019, n. 6 (Misure urgenti per il recupero della competitività regionale), a decorrere dal 1° maggio 2019.
Pertanto, la norma impugnata, facendo riferimento ai «gestori degli impianti di cui agli articoli [recte ai commi] 3 e 3-bis», sebbene non espressamente abrogata non può più trovare applicazione a far data dall’entrata in vigore della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 6 del 2019. Quest’ultima modifica normativa non incide, però, nel presente giudizio, non potendosi escludere che l’impugnato comma 3-ter abbia trovato applicazione nel periodo della sua vigenza (dal 29 marzo 2018 al 30 aprile 2019).
3.2.– L’art. 27 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017 ha previsto un indennizzo a favore dei «Comuni sul cui territorio sono situati impianti di smaltimento dei rifiuti», al fine di compensare i «relativi disagi mediante la corresponsione, da parte del gestore dell’impianto, di un indennizzo differenziato determinato ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lettera b)» (comma 1).
Questo indennizzo «è dovuto per la sola quota di rifiuti gestiti in conto terzi da impianti di recupero: a) autorizzati all’operazione R1 ai sensi dell’allegato C alla parte quarta del decreto legislativo 152/2006, che utilizzano rifiuti come combustibile o altro mezzo per produrre energia; b) autorizzati all’operazione R3 ai sensi dell’allegato C alla parte quarta del decreto legislativo 152/2006, che utilizzano rifiuti per produrre ammendante compostato misto; c) autorizzati all’operazione R3 ai sensi dell’allegato C alla parte quarta del decreto legislativo 152/2006, che effettuano la digestione anaerobica di rifiuti» (comma 2).
Dunque, l’indennizzo non grava sui gestori di qualsiasi impianto di smaltimento di rifiuti ma solo degli «impianti di recupero»: autorizzati all’operazione R1, «che utilizzano rifiuti come combustibile o altro mezzo per produrre energia»; autorizzati all’operazione R3, «che utilizzano rifiuti per produrre ammendante compostato misto»; autorizzati all’operazione R3, «che effettuano la digestione anaerobica di rifiuti». L’operazione R1 consiste nell’«[u]tilizzazione principalmente come combustibile o come altro mezzo per produrre energia», mentre l’operazione R3 nel «[r]iciclaggio/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche)».
I commi 3 e 3-bis dell’art. 27 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017 (nel periodo di vigenza, prima della loro abrogazione) escludevano dalla corresponsione dell’indennizzo «i gestori di impianti di recupero o di smaltimento dei rifiuti situati nelle aree produttive ecologicamente attrezzate (APEA) di cui all’articolo 8 della legge regionale 3/2015 e i gestori di impianti di recupero di rifiuti in possesso della registrazione ai sensi del regolamento (CE) n. 1221/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, sull’adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema comunitario di ecogestione e audit» (comma 3), e inoltre «i gestori di impianti di recupero di rifiuti in possesso della certificazione ambientale ISO 14001» (comma 3-bis).
La disposizione impugnata (comma 3-ter) attenua la portata di queste due previsioni di esclusione dalla corresponsione dell’indennizzo, prevedendo che anche i gestori di questi impianti possano stipulare convenzioni con i comuni al fine di prevedere la corresponsione dell’indennizzo.
3.3.– Le questioni promosse sono inammissibili.
Dalla ricostruzione delle censure e del quadro normativo si deduce chiaramente che il ricorrente contesta una scelta legislativa (quella di prevedere un indennizzo) in realtà già operata con l’art. 27, commi 1 e 2, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017. Queste disposizioni prevedono infatti l’indennizzo in questione come obbligatorio per taluni impianti, escludendone altri (quelli previsti negli abrogati commi 3 e 3-bis), mentre la norma oggi impugnata (comma 3-ter) lo rende possibile anche per questi ultimi.
Le ragioni di censura del ricorrente non si appuntano sulla possibilità per i gestori degli impianti di cui ai commi 3 e 3-bis di stipulare, con i comuni, convenzioni che prevedano la corresponsione dell’indennizzo, ma sulla previsione stessa dell’indennizzo, introdotta con la legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 34 del 2017, che è stata impugnata dal Governo in alcune sue disposizioni (scrutinate dalla Corte con la sentenza n. 215 del 2018) ma non nel citato art. 27.
Il ricorrente contesta, dunque, una scelta legislativa operata non dalla norma oggetto dell’odierno giudizio ma da una norma presente nell’ordinamento regionale fin dal 2017 e non tempestivamente impugnata. Pertanto, le questioni promosse devono essere dichiarate inammissibili (ex plurimis, sentenze n. 241 del 2012, n. 325 del 2010 e n. 372 del 2003).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 marzo 2018, n. 12 (Disposizioni in materia di cultura, sport, risorse agricole e forestali, risorse ittiche, attività venatoria e raccolta funghi, imposte e tributi, autonomie locali e coordinamento della finanza pubblica, funzione pubblica, infrastrutture, territorio, ambiente, energia, attività produttive, cooperazione, turismo, lavoro, biodiversità, paesaggio, salute e disposizioni istituzionali);
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 11, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 12 del 2018, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 119 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 giugno 2019.