In tema di responsabilità dei soggetti della filiera dei rifiuti: la parola alla Cassazione
di Vincenzo PAONE

 pubblicato su rivistadga.it.Si ringraziano Autore ed Editore

Cass. Sez. III Pen. 27 agosto 2024, n. 33144 - Ramacci, pres.; Andronio, est.; Seccia, P.M. (parz. diff.) - D. S. ric.  (Conferma Trib. Marsala 21 giugno 2023)

Sanità pubblica - Gestione dei rifiuti - Deposito incontrollato di rifiuti attuato da un soggetto incaricato di smaltire i rifiuti prodotti da altri - Recupero del rifiuto in modo difforme dal d .m. 5 febbraio 1998 - Responsabilità penale del conferitore.

In tema di gestione dei rifiuti, il detentore, che affidi i propri rifiuti ad altro soggetto per lo smaltimento, ha l’obbligo di verificare che l’affidatario sia munito delle necessarie autorizzazioni e competenze tecniche per l’espletamento dell’incarico: in caso di violazione, è ravvisabile la sua responsabilità a titolo di culpa in eligendo .

I. Non è la prima volta che la Cassazione affronta la questione della responsabilità dei soggetti della filiera dei rifiuti[1]: la sentenza che si riporta ha ribadito che il soggetto che affidi propri rifiuti ad altre imprese per il loro smaltimento ha l’onere di seguire il ciclo di gestione dei rifiuti ed accertarne la regolarità, essendo gravato dal dovere di verificare che i terzi affidatari siano muniti delle necessarie autorizzazioni e competenze tecniche per l’espletamento dell’incarico, con la conseguenza che, in caso di violazione, sussiste la responsabilità penale a titolo di culpa in eligendo.

La fattispecie concreta si atteggia in questi termini. L’amministratore unico di una società (Soloil Italia s.r. 1 l.) è stato condannato, in concorso con l’amministratore di altra società (Green World s.r.l.s.), perché questa seconda impresa aveva realizzato un deposito incontrollato di rifiuti, costituiti da oli esausti, per un quantitativo di almeno 25.000 litri, superando il limite dei 5.000 litri autorizzati, ed inoltre aveva effettuato operazioni di recupero dell’olio in violazione di quanto previsto dall’allegato 5 al d.m. 5 febbraio 1998.

Alla censura dell’imputato, che sosteneva che il Tribunale non aveva spiegato perché quanto accaduto all’interno della Green World dovesse imputarsi anche a lui, la Suprema Corte ha replicato che l’elemento oggettivo del reato era provato dal rinvenimento, all’interno e nei pressi del capannone della Green World, di olio esausto stoccato in quantità superiore al limite autorizzato e che l’elemento soggettivo era provato dalla consapevolezza del ricorrente – la cui collaborazione con la Green World era emersa chiaramente dai controlli documentali – non solo dei limiti posti dall’autorizzazione abilitante, ma anche delle modalità gestionali ed esecutive del deposito degli oli, difformi da quelle prescritte dalla legislazione ambientale.

La Corte ha perciò concluso che, nel caso di specie, non risultava essere stata osservata la «doverosa cautela in eligendo» da parte del titolare della Soloil Italia s.r. 1 l.

La sentenza, forse anche a causa di una motivazione troppo «contratta», non convince del tutto circa l’applicabilità del principio sopra riportato nella vicenda specifica.

II. Prima di entrare nel vivo della nostra tematica, è opportuno aprire una parentesi per segnalare che non è chiara la ragione per cui la fattispecie concreta sia stata qualificata come deposito incontrollato di rifiuti, anziché come inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni (art. 256, comma 4, d.lgs. n. 152/06): infatti, come risulta dalla narrativa della sentenza, la società, che aveva preso in carico i rifiuti, era autorizzata per la fase dello stoccaggio ed aveva soltanto superato la quota ammessa.

Forse la scelta di ricorrere a questa ipotesi criminosa risponde alla tendenza emersa nella prassi giurisprudenziale, negli ultimi tempi, che «vede» il deposito incontrollato anche in situazioni in cui, a ben vedere, o si trattava di abbandono di rifiuti «definitivo» (è noto, che la caratteristica del deposito è proprio la sua temporaneità) oppure si trattava di stoccaggio, nella forma alternativa del deposito preliminare o della messa in riserva (queste operazioni rientrano nella gestione dei rifiuti e dunque sono soggette al rilascio dell’autorizzazione, mentre il deposito incontrollato è un evento del tutto episodico che si colloca al di fuori del ciclo ordinario di gestione dei rifiuti e perciò non è soggetto ad alcuna autorizzazione, ma solo all’osservanza delle modalità di detenzione conformi a legge [2] e al rispetto del termine entro il quale i rifiuti devono essere rimossi).

A nostro avviso, dunque, la tendenza in parola non è condivisibile perché finisce per allargare a dismisura i confini dell’istituto del deposito incontrollato.

III. Torniamo ora all’orientamento della Cassazione formalizzato nel principio riportato in precedenza al quale, talora, si affianca quello della c.d. responsabilità condivisa, ossia la responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti gravante su tutti i soggetti coinvolti nella loro produzione, detenzione, trasporto e smaltimento[3].

Invero, questa conclusione sottende che il detentore dei rifiuti, istituito quale «garante» dell’integrità ambientale, abbia il dovere giuridico (oltreché il potere) di impedire la lesione del bene, ovvero quell’evento (reato) evocato dal capoverso dell’art. 40 c.p.

Occorre però fare chiarezza sul punto. Al riguardo, una decisione del Supremo Collegio[4], che si è occupata della posizione del committente di lavori edili o urbanistici rispetto alla scorretta gestione dei rifiuti da parte dell’appaltatore, ha definito la portata del concetto di «coinvolgimento» esprimendo l’avviso che: «(...) è tradizionale l’affermazione che ogni soggetto che interviene nello smaltimento degli stessi ha il dovere di accertarsi che colui al quale sono consegnati i materiali per l’ulteriore fase di gestione sia fornito della necessaria autorizzazione, sicché in caso di omesso controllo egli ne risponde penalmente a titolo di concorso. A fondamento di questa conclusione si richiama la norma dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 22/97 (...) nonché la norma di cui all’art. 10, comma 1, stesso d.lgs. (...). Sarebbe però profondamente sbagliato utilizzare queste fonti legali per sostenere che anche il committente di lavori edili o urbanistici è “garante” della corretta gestione dei rifiuti da parte dell’appaltatore e quindi penalmente corresponsabile del reato di abusiva attività di raccolta, trasporto, recupero o smaltimento di rifiuti che l’appaltatore abbia effettuato nell’esecuzione dell’appalto. E infatti, neppure con un’interpretazione estensiva si può sostenere che il committente sia coinvolto nella produzione o distribuzione e nemmeno nell’utilizzo o nel consumo di “beni da cui originano i rifiuti” ai sensi dell’art. 2, comma 3; o che sia un produttore o detentore dei rifiuti gravato dagli oneri dello smaltimento a norma dell’art. 10, comma 1 (...). Ma, al di là della corretta esegesi delle fonti legali, esistono altre ragioni di principio, ancor più importanti e dirimenti, per escludere che dalle norme citate possa dedursi una posizione di garanzia a carico del committente. Si allude al principio di tassatività e a quello di responsabilità personale in materia penale, il cui rispetto è imposto, sia pur genericamente, dalla stessa succitata disposizione dell’art. 2, comma 3. Secondo il principio di tassatività, come sottolinea un’autorevole dottrina, la fonte legale (ma anche contrattuale) dell’obbligo di garanzia deve essere sufficientemente determinata, nel senso che deve imporre obblighi specifici di tutela del bene protetto. Esulano perciò dall’ambito operativo della responsabilità per causalità omissiva ex art. 40, cpv., c.p. gli obblighi di legge indeterminati, fosse pure il dovere costituzionale di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), che costituisce il generale fondamento costituzionale della responsabilità omissiva, ma per sé stesso non può essere assunto a base delle specifiche responsabilità omissive dei singoli reati. Alla stregua di questo principio non può dirsi che le citate norme dell’art. 10 e (meno che mai) dell’art. 2 costituiscano obblighi specifici da cui possa desumersi una posizione di garanzia a carico dei committenti di lavori edilizi o urbanistici, in quanto tali».

Ciò detto, non vi è dubbio che la fonte legale dell’obbligo giuridico di impedire l’evento sia rappresentata dall’art. 188, d.lgs. n. 152/06 [5] che stabilisce (comma 1) che il produttore iniziale, o altro detentore, di rifiuti provvede al loro trattamento direttamente ovvero mediante l’affidamento ad intermediario, o ad un commerciante o alla loro consegna a un ente o impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti, o ad un soggetto addetto alla raccolta o al trasporto dei rifiuti, pubblico o privato, nel rispetto della Parte IV del presente decreto (e perciò munito di autorizzazione: ndr).

La stessa disposizione, comma 4, dispone, nella prima parte, che la consegna dei rifiuti, ai fini del trattamento, dal produttore iniziale o dal detentore ad uno dei soggetti di cui al comma 1, non costituisce esclusione automatica della responsabilità rispetto alle operazioni di effettivo recupero o smaltimento e, nella seconda parte, che la responsabilità del produttore o del detentore è esclusa: a) se non ricorre un caso di concorso di persone nel fatto illecito; b) se i rifiuti sono stati conferiti a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento a condizione che il detentore abbia ricevuto il formulario di cui all’art. 193 controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore ovvero che alla scadenza di detto termine il produttore o detentore abbia provveduto a dare comunicazione alle autorità competenti della mancata ricezione del formulario.

È evidente che il legislatore abbia fissato le regole della c.d. responsabilità condivisa senza però distinguere tra i vari rami dell’ordinamento sicché, come è stato giustamente osservato in dottrina[6], l’applicazione di quel principio in sede penale dovrà tener conto delle effettive responsabilità personali dei soggetti della filiera senza ricorrere dunque a meccanismi di imputazione automatica.

Alla luce di queste riflessioni, il problema dei confini dell’obbligo giuridico, e del connesso potere, di impedire l’evento, e cioè l’irregolarità all’interno della catena di trattamento dei rifiuti, va riportato nello schema del concorso di persone nel reato, come è reso palese anche dall’art. 188 prima citato che mette in guardia sul fatto che la responsabilità del produttore o del detentore, anche in caso di ricezione del formulario di cui all’art. 193 controfirmato e datato, non è comunque esclusa in caso di concorso di persone nel fatto illecito.

Non a caso, in talune occasioni[7], la Suprema Corte ha affermato che la responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti dei soggetti coinvolti nella filiera si configura anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti commessi dai soggetti impegnati nella gestione dei rifiuti così palesando che il fondamento della responsabilità in esame non è la violazione del principio di «responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti», bensì la presenza di un contributo integrante la compartecipazione al reato del terzo.

IV. Una volta inquadrato il tema nei termini su riportati, non vi è discussione tutte le volte in cui i molteplici detentori/gestori versino in dolo, nel senso che chi interviene nella gestione dei rifiuti è perfettamente a conoscenza, e dunque vuole, che verranno eseguite determinate operazioni illecite (vuoi perché in carenza di titolo vuoi perché in difformità dal medesimo): in tale ipotesi, è pacifica la responsabilità dei partecipi all’attività che, fin dall’inizio, si è strutturata in modo illegittimo e alla cui realizzazione ciascuno ha fornito il proprio apporto materiale e psicologico.

Più delicata è la questione se il comportamento degli agenti non è illuminato dal dolo: in tal caso, se non si vuole scivolare in forme di responsabilità oggettiva o da posizione, è necessario che la responsabilità a titolo di colpa sia ancorata a solide risultanze probatorie.

In questa prospettiva, portiamo l’attenzione su due rilevanti profili.

In primo luogo, fermo restando l’obbligo di accertare il possesso delle prescritte autorizzazioni in capo al soggetto al quale si consegnano i rifiuti, la responsabilità del detentore va tuttavia circoscritta perché, oltre al controllo estrinseco, non può legittimamente pretendersi dal medesimo la verifica di dati riscontrabili solo attraverso attività complesse (come ad esempio analisi chimiche) dirette ad accertare se il titolo sia stato correttamente rilasciato. Analogamente, la verifica delle competenze tecniche di chi riceve (e poi tratta) i rifiuti, necessarie per svolgere determinate operazioni tecnicamente complesse, non può richiedere una conoscenza superiore a quella che ordinariamente chiunque può possedere.

In definitiva, la responsabilità per colpa è ravvisabile quando il conferitore, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, da misurare secondo il criterio dell’homo eiusdem condicionis et professionis, era in condizione, attraverso opportuni controlli o la valorizzazione di specifici segnali di allarme, di rendersi conto dell’irregolarità della successiva fase di gestione dei rifiuti.

In secondo luogo, ricordiamo che l’art. 256, d.lgs. n. 152/2006 descrive la condotta tipica in termini chiaramente commissivi e perciò il detentore dei rifiuti non può essere considerato responsabile per il reato posto in essere dall’impresa che riceve i rifiuti soltanto per non aver adeguatamente vigilato in ordine all’esecuzione delle operazioni in carico al terzo. Infatti, il ragionamento per cui è rilevante, in chiave di partecipazione al reato ex art. 110 c.p., il comportamento omissivo, costituito dalla violazione di un siffatto obbligo di vigilanza, non considera che nessuna norma fissa il dovere, in capo al conferitore, di impedire, a norma dell’art. 40, comma 2, c.p., che il terzo commetta reati nella fase di gestione dei rifiuti di sua competenza.

V. Alla luce di queste considerazioni, la sentenza riportata va condivisa nella parte in cui conferma la responsabilità del titolare della Soloil Italia per lo sforamento del limite di stoccaggio degli oli da parte della Green World[8].

Infatti, è chiaro che la Soloil Italia, conoscendo (o comunque dovendo conoscerla) l’autorizzazione rilasciata alla Green World, sapeva (o doveva sapere) quali erano i limiti dello stoccaggio con la conseguenza che era certamente in grado, con l’uso della prudenza e diligenza ordinaria, di consegnare l’olio esausto alla seconda impresa rispettando le prescrizioni contenute nell’autorizzazione. Pertanto, se in violazione di questo elementare dovere di controllo e monitoraggio, l’impresa produttrice dei rifiuti ha consegnato al terzo quantitativi incongrui di olio esausto, sussisteva pienamente il suo concorso materiale e psichico nel reato commesso dall’impresa ricevente.

Siamo invece dubbiosi che, allo stesso esito, si possa pervenire anche in relazione al recupero del rifiuto attuato in difformità rispetto a quanto previsto dall’allegato 5 al d.m. 5 febbraio 1998.

Infatti, premesso che il titolare della Soloil Italia non aveva alcun dovere giuridico di impedire che la Green World operasse in modo illecito il recupero dell’olio ed evidenziato altresì che non è stata affermata l’esistenza di un accordo criminoso tra le due imprese, non ci pare che la Cassazione abbia indicato, al di là del generico richiamo alla culpa in eligendo , elementi effettivamente dimostrativi del concorso colposo nel reato materialmente commesso dalla Green World. Peraltro, come risulta dalla sentenza riportata, il capannone, ove era stoccato l’olio, era di proprietà esclusiva della Green World e ivi lavoravano soltanto i dipendenti della stessa sicché la Soloil Italia non era neppure in grado di accertare ed eventualmente interrompere l’esecuzione di operazioni illecite.

Una considerazione va, infine, riservata al passaggio in cui la sentenza, per giustificare la responsabilità del ricorrente, accenna alla sua «consapevolezza» e alla collaborazione con l’altra società.

Orbene, in primo luogo, la relazione contrattuale tra le due realtà societarie, di per sé, era un dato assolutamente neutro.

In secondo luogo, la sola consapevolezza che altri stia per commettere o stia commettendo un reato, non arricchita da altre circostanze, non bastava per ipotizzare il concorso nel reato commesso dalla impresa ricevente.

Al riguardo, è noto che la giurisprudenza ha distinto l’ipotesi della mera connivenza rispetto al concorso nel reato e lo ha fatto, ad esempio, in caso di detenzione di stupefacenti nella casa coniugale: infatti, è stato escluso il concorso del coniuge, ai sensi dell’art. 110 c.p., nell’ipotesi di semplice comportamento negativo di quest’ultimo, che si limiti cioè ad assistere passivamente alla perpetrazione del reato, dato che non sussiste in tal caso un obbligo giuridico di impedire l’evento, mentre per la configurabilità del concorso occorre la partecipazione all’altrui attività criminosa con la volontà di adesione, apportando un contributo causale alla condotta del terzo, ad esempio assicurando all’agente una certa sicurezza ovvero garantendo, anche implicitamente, una collaborazione in caso di bisogno.

Di questi profili, però, non vi è traccia nella decisione in commento.



[1] Tra le più recenti, v. Cass. Sez. III 14 febbraio 2020, n. 5912/2019, Arzaroli, in Foro it., 2020, II, 469, in cui si è sostenuto che tutti i soggetti coinvolti nella produzione, detenzione, trasporto e smaltimento dei rifiuti, hanno il dovere di controllare il regolare svolgimento delle fasi sia antecedenti che successive a quella svolta, effettuando (per lo meno) i controlli formali del caso (per un commento alla decisione, rinviamo al nostro contributo La responsabilità “condivisa” dei soggetti che effettuano la gestione dei rifiuti , in Riv. trim. dir. pen. amb., 2020,3). Da ultimo, v. Cass. Sez. III 7 novembre 2022, n. 41809, Santoro, in www.lexambiente.it , 15 novembre 2022, con nostro commento, Abbandono di rifiuti e responsabilità “condivisa”: qualche dubbio , pubblicata il 9 dicembre 2022. Sull’argomento, v. anche Rota, Attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: come si deve declinare il contributo del dipendente affinché egli sia suscettibile di incriminazione? , in Rgaonline, n. 36, novembre 2022; Amendola, Si può ancora parlare di “responsabilità condivisa” nella gestione dei rifiuti? , in www.unaltroambiente.it, 13 dicembre 2022.

[2] Ricordiamo che l’art. 192, d.lgs. n. 152/06 punisce il deposito «incontrollato» dei rifiuti il che dimostra che il reato non sussiste se la detenzione è attuata con modalità non lesive per l’ambiente.

[3] Giova segnalare che Cass. Sez. III 10 aprile 2012, n. 13363, Brambilla, in Ambiente, 2012, 921 commentata da Paone, Le responsabilità soggettive nella filiera dei rifiuti, tra le prime a far leva sugli art. 188, 193 ss., d.lgs. n. 152/06 per sostenere la responsabilità di tutti i soggetti che intervengono nel circuito della gestione dei rifiuti, ha osservato che gli imputati - accusati del reato di cui agli artt. 110 e 53 bis , d.lgs. n. 22/97 per avere conferito rifiuti in impianti privi di autorizzazione - non erano responsabili del mero omesso controllo dell’esistenza e validità delle autorizzazioni, ma avevano la piena consapevolezza che dette autorizzazioni erano inesistenti o scadute di validità; tale conclusione, secondo quanto risultava dalla sentenza di merito, si fondava sulle risultanze di intercettazioni telefoniche e di altre operazioni di controllo della polizia giudiziaria che avevano verificato conferimenti di rifiuti avvenuti in modo clandestino. Di conseguenza, la condanna degli imputati non si basava tanto sul principio della «responsabilizzazione» di tutti i soggetti, quanto, e principalmente, sul fatto che tutti erano perfettamente a conoscenza della illiceità delle operazioni successivamente poste in essere.

[4] Cass. 7 novembre 2007, n. 8367, Zanatta, Foro it., 2008, II, 397.

[5] La disposizione ricalca quanto stabilito dall’art. 10, d.lgs. n. 22/97 menzionato nella sentenza Zanatta.

[6] In proposito, Melzi D’eril, Illecita gestione dei rifiuti: in relazione alla responsabilità condivisa dei soggetti coinvolti, la cassazione non rompe le «catene» , in Riv. giur. amb., 2013, 731, ha osservato che la peculiare forma di responsabilità «condivisa» è prevista dal combinato disposto degli artt. 178 e 188, d.lgs. n. 152/06 «in termini generali per l’intero ordinamento (amministrativo, civile e penale) sicché, se da una parte è indubbiamente encomiabile tentare di valorizzare la disciplina in esame, d’altra parte, il tentativo non dovrebbe risolversi nella sommaria imposizione di regole del tutto aliene al settore diritto penale».

[7] Cass. Sez. III 24 febbraio 2004, n. 7746/2023, Turati, rv. 227.400; 11 febbraio 2008, n. 6420/2007, Girolimetto, rv. 238.980; 9 agosto 2007, n. 32338, Pozzi, rv. 237.820.

[8] Ciò a prescindere che il fatto sia qualificato come violazione del comma 2 o del comma 4 dell’art. 256, d.lgs. n. 152/06.