Il ruolo del funzionario dell’ente locale a venti anni dall’entrata in vigore dalle “riforma Bassanini” - il punto di vista del dipendente pubblico e la proposta di superare la “finta” dicotomia politica/amministrazione attiva

di Giuseppe COCCHI

Abstract
Il ruolo del funzionario dell’ente locale ha subito una profonda trasformazione per effetto della “riforma Bassanini”. A vent’anni dalla sua approvazione, l’”astratta distinzione” tra funzione di “programmazione e controllo”, assegnata agli eletti del popolo e la funzione di “amministrazione attiva”, assegnata ai dipendenti della PA necessita di una revisione. Episodi di complicità tra funzionari pubblici, politica e malaffare sono all’ordine del giorno e la recente approvazione del “pacchetto anticorruzione” non ha contribuito in maniera sostanziale ad debellare nell’opinione pubblica la percezione di inefficienza e connivenza negli apparati amministrativi;  …. restituire al popolo, attraverso i suoi eletti, l’”ultima parola” (salvo verifiche di un organo terzo !) potrebbe essere la soluzione …..



L’articolo del prof. Sabino Cassese dal titolo “l’imbuto dello Stato inefficiente” apparso sul corriere della sera del 3 gennaio u.s. mi ha spinto ad una riflessione da funzionario pubblico sugli effetti delle numerose riforme della pubblica amministrazione (in molti casi sconosciute alla maggioranza dei dipendenti pubblici stessi) sul ruolo del dipendente pubblico e, in particolare, sul ruolo di quanti oggi costituiscono l’anima della pubblica amministrazione ovvero i cosiddetti “responsabili del procedimento”, coloro i quali sottopongono al “dirigente di turno” la proposta di adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.
L’articolo del prof. Cassese conclude così: ”Gli Stati si reggono su due basi, la politica e l’amministrazione. Se la politica vacilla, come accadrà per qualche anno in Italia, a causa delle incertezze delle forze in campo, solo una buona amministrazione, attenta ai bisogni dei cittadini, può salvare il Paese dal declino”.
La prima riflessione che mi verrebbe da fare, da dipendente pubblico, è: - se la sopravvivenza del Paese è affidata alla Pubblica Amministrazione allora non c’è speranza di salvarsi dal declino; possibile mai che il prof. Cassese non conosca come è formata la classe dei dipendenti pubblici italiana ? –
Prevale però l’ottimismo e mi spingo a pensare che l’appello sia rivolto, ancora una volta, a quanti nella Pubblica Amministrazione (e ritengo non siano affatto pochi) svolgono il proprio lavoro con impegno, sacrificio e coerenza, nel rispetto dei principi costituzionali di “imparzialità” e “buon andamento”.
Il primo dilemma da risolvere per questi dipendenti della Pubblica Amministrazione è: -conviene svolgere il proprio lavoro con impegno, sacrificio e coerenza, nel rispetto dei principi costituzionali di “imparzialità” e “buon andamento” anche contro gli interessi ed i dettami del politico di turno ? -.
La risposta apparirebbe scontata: - chi lavora per la pubblica amministrazione è tenuto alla sola applicazione della legge (principio di legalità) e, di conseguenza, deve respingere (qualche integralista direbbe “denunciare”) ogni proposta, più o meno larvata, di adottare atti e comportamenti volti ad assecondare la volontà del politico che, per molteplici ragioni, potrebbe indurre ad assumere un provvedimento illegittimo o addirittura illecito -.
Pur tuttavia chi opera con funzioni decisionali nella pubblica amministrazione sa che spesso gli può essere richiesto di assumere decisioni “borderline” (cioè al limite dei valori di tolleranza), sfidando la sorte e affidandosi a doti di equilibrista che non tutti possiedono. Del resto la normativa italiana, come noto ai più, è farraginosa e complessa e lascia ampi spazi di interpretazione, che un qualsiasi buon funzionario, nel desiderio collettivo dei politici italiani, deve saper leggere secondo le direttive del gruppo di maggioranza, che è tenuto, per volontà del “popolo sovrano”, ad individuare gli obiettivi di interesse pubblico (da non confondere con gli interessi del proprio manipolo di grandi elettori votanti) da perseguire con efficienza, efficacia ed economicità.
In altre parole sarà capitato a moltissimi colleghi di essere accusati di incompetenza, inefficienza o di eccessiva burocratizzazione delle procedure, quando si è segnalata una possibile illegittimità dell’azione amministrativa in un dato procedimento, con conseguenti bronci, litigate, offese e in qualche caso minacce da parte degli amministratori di turno; al contrario, sarà capitato a moltissimi colleghi di ricevere encomi ed apprezzamenti pubblici quando si è adottato, anche con coraggio, un provvedimento palesemente illegittimo ma non oggetto di ricorso dinanzi al TAR nei canonici sessanta giorni e pertanto pienamente efficace per il decorso del termine di impugnativa.
Tali accadimenti sono frutto del convincimento del “politico moderno” (quello post riforma Bassanini per intenderci) secondo cui il funzionario è colui il quale deve dare la soluzione alle scelte politiche anche quando queste non possono essere attuate nei modi e nei tempi che la politica auspica; per questo motivo al funzionario è richiesto di muoversi, con maestria, in quella “nuvola grigia” che è la discrezionalità amministrativa che la legge, per definizione ”generale ed astratta”,  garantisce agli operatori sul campo.
Invero, nel convincimento di buona parte della classe politica italiana, un buon funzionario è un soggetto al quale il politico rivolge una domanda della quale egli già conosce la risposta. Al funzionario il politico richiede, in maniera in certi casi “larvata”, in altri casi “espressa” di attribuirsi la paternità della risposta che egli si attende alla propria domanda, riservandogli la possibilità di “scegliersi la forma“ con cui tradurre in atti e comportamenti amministrativi la soluzione precostituita. Il politico, infatti, non sindacherà mai la premessa o la narrativa di un atto amministrativo, ma giudicherà l’operato del funzionario sulla base del contenuto del dispositivo adottato (fosse anche il silenzio o il ritardo nell’adozione dell’atto stesso); il politico si riserverà solo successivamente, in caso di provvedimento ritenuto illegittimo (o addirittura illecito) da parte della magistratura, di attribuire l’esclusiva paternità della decisione al funzionario, cui compete, in attuazione della cosiddetta “riforma Bassanini”, la titolarità della decisione.
Questo atteggiamento sta provocando non poche difficoltà ai funzionari, che con crescente affanno riescono a dare le soluzioni che la politica si attende da loro.
Ne consegue che il contrasto si acuisce perché la classe politica non riesce a trovare un sufficiente numero di dipendenti in grado di dare attuazione ai propri “programmi”, assumendosi i rischi delle decisioni già assunte in altra sede, con ripetute accuse ai dipendenti pubblici di essere affetti da “lentezza, assenza di motivazione, formalismo, culto dei precedenti, fuga dalle responsabilità, eccesso di controlli inutili” per riportare le espressioni utilizzate dal prof. Cassese nel citato articolo per descrivere i mali cronici della burocrazia italiana o, ancora meglio, di essere dei “cacasotto incompetenti” per usare un’espressione volgare ma efficace, che ben sintetizza il pensiero diffuso della politica (o di una buona parte di essa) sulla classe dei dipendenti pubblici italiani, quando la risposte degli stessi sono ritenute insufficienti.
Eppure la riforma Bassanini della pubblica amministrazione del 1997, che riprende la riforma della dirigenza avviata proprio dal Ministro Cassese nel 1993 aveva ben altri obiettivi.
Per sintetizzare quello che è stata o voleva essere la riforma Bassanini si ripropone nel seguito il testo di wikipedia nella versione aggiornata al 08/11/2016:
“Le leggi Bassanini (identificate complessivamente anche come riforma Bassanini) indicano alcuni provvedimenti normativi della Repubblica Italiana, così dette poiché principalmente ispirati e/o redatti da Franco Bassanini.
Le leggi hanno imposto la separazione della funzione amministrativa dalla gestione politica.”

Sono state emanate in totale quattro leggi, i cui contenuti possono essere così sintetizzati (fonte wikipedia):
“Legge 15 marzo 1997, n. 59 (Bassanini semel)
La legge 15 marzo 1997, n. 59, recante Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa, nota come Legge Bassanini, impone in particolare due principi:
1- la semplificazione delle procedure amministrative e dei vincoli burocratici alle attività private;
2- il federalismo amministrativo, cioè il perseguimento del massimo decentramento realizzabile con legge ordinaria, senza modifiche costituzionali.
La legge delegava il governo italiano ad emanare decreti delegati al fine di sviluppare una vastissima attività di innovazione e riforma dell'intero sistema amministrativo italiano, nonché per modificare:
il sistema delle fonti;
le strutture di governo dello Stato;
le modalità di collegamento tra Stato, Regioni e sistema delle autonomie locali.
Caratteristiche fondamentali dell'attività di riforma delineata dalla L. 59/1997:
ridefinire i rapporti e la distribuzione delle competenze fra lo Stato, le Regioni e il sistema delle autonomie locali, realizzando quello che è stato definito il terzo decentramento (dopo quelli del 1970-1972 e del 1975-1977) e come il "massimo di federalismo amministrativo a Costituzione invariata";
riformare, coerentemente con il federalismo amministrativo da realizzare, la riforma della Presidenza del Consiglio, dei Ministeri e in generale degli enti pubblici nazionali, conducendo a termine il processo riformatore già avviato con la legge 23 agosto 1988 n. 400 e ripreso durante il primo governo Amato e il governo Ciampi;
completare le riforme di primarie strutture amministrative avviate durante il decennio precedente e in particolare quelle relative al rapporto del pubblico impiego, alla struttura e al ruolo della dirigenza pubblica, alla formazione dei funzionari e dei dirigenti della pubblica amministrazione italiana e le relative modalità di selezione e di carriera (tali norme della L. 59/1997 sono state poi assorbite nel d.lgs 165/2001 - il cosiddetto Testo unico sul Pubblico Impiego) ;
rivedere le modalità di organizzazione e di funzionamento di alcuni ambiti specifici dei servizi pubblici e della disciplina pubblicistica di alcuni settori economici, mirando anche ad avviare massicci fenomeni di rilocalizzazione delle funzioni fra Stato e Regioni nonché di privatizzazione e delegificazione di alcuni settori precedentemente a forte caratterizzazione pubblicistica;
realizzare la semplificazione delle procedure e delle regole che presiedono all'attività amministrativa in generale e all'organizzazione e al funzionamento dell'amministrazione italiana;
riformare il sistema scolastico italiano, organizzandolo sulla base di una rete di istituzioni scolastiche dotate di autonomia funzionale ed estendendo anche all'organizzazione scolastica il regime delle autonomie funzionali già introdotto per le Università e per le Camere di commercio.
La norma infine introdusse il principio di sussidiarietà per il raggiungimento di interessi collettivi.

Legge 15 maggio 1997, n. 127 (Bassanini bis)
La L.127/1997 accompagna alla riforma del decentramento quella della semplificazione amministrativa con l'obiettivo di ridisegnare l'organizzazione e il funzionamento dell'amministrazione pubblica con particolare riferimento a quella locale.
Due sono gli oggetti della Bassanini bis:
la riforma dei procedimenti (snellimento);
la riforma degli uffici (riorganizzazione).

Legge 16 giugno 1998, n. 191 (Bassanini ter)
La L. 191/1998 contiene delle modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n.59, e 15 maggio 1997, n.127, nonché norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Nel testo sono contenute anche disposizioni in materia di edilizia scolastica.

Legge 8 marzo 1999 n. 275 (Bassanini quater)
Questa legge rappresentò il primo tentativo di riforma organica della Presidenza del Consiglio, della struttura del Consiglio dei Ministri e dell'ordinamento dei ministeri. Tale provvedimento ha delineato un nuovo assetto dell'organizzazione ministeriale, muovendo in tre diverse direzioni:
è stata operata una riduzione degli apparati ministeriali: i ministeri sono divenuti dodici; il personale è stato raggruppato in un ruolo unico, in modo da assicurarne la mobilità; si è sancito il principio della flessibilità nell'organizzazione, stabilendo – salvo che per quanto attiene al numero, alla denominazione, alle funzioni dei ministeri ed al numero delle loro unità di comando – una ampia delegificazione in materia
in un'ottica policentrista, sono state istituite dodici Agenzie indipendenti (da non confondere con le Autorità amministrative indipendenti), con funzioni tecnico-operative che richiedono particolari professionalità e conoscenze specialistiche, nonché specifiche modalità di organizzazione del lavoro
si è provveduto alla concentrazione degli uffici periferici dell'amministrazione statale con la creazione degli Uffici Territoriali del Governo (UTG) che hanno assorbito le Prefetture.
Era previsto che la riforma entrasse in vigore con la XIV Legislatura, ma non entrò mai in vigore integralmente, poiché il II Governo Berlusconi la modificò alla sua entrata in carica. I ministeri aumentarono e solo alcune della agenzie furono costituite.

A venti anni dalle leggi Bassanini, molto è rimasto in vigore e poco si è modificato (talvolta peggiorando la situazione).
Successi e insuccessi della riforma sono sotto gli occhi di tutti.
La semplificazione amministrativa, i termini del procedimento, il responsabile del procedimento, l’autocertificazione sono termini entrati nel lessico comune e i cittadini sembrano aver compreso l’efficacia di strumenti che responsabilizzano i dipendenti della pubblica amministrazione, che nei fatti ha acquistato “un volto concreto”.
Ben diverso è il giudizio sulla distinzione tra funzione politica e funzione amministrativa, introdotta con le riforme della pubblica amministrazione degli anni ’90.
Se lo scopo del legislatore infatti, appariva quello distinguere in maniera netta le competenze dei politici da quelli dei funzionari/dirigenti, affidando ai primi compiti di “programmazione e controllo” ed ai secondi, prevalentemente assunti per concorso pubblico, compiti di raggiungimento degli obiettivi assegnati nel rispetto dei principi costituzionali di “imparzialità” e “buon andamento”, in concreto il risultato percepito dai cittadini è che la riforma abbia aumentato il grado di commistione tra politica e burocrazia, accrescendo la percezione del fenomeno della corruzione all’interno delle pubbliche amministrazioni.
La riforma si è tradotta in una sostanziale deresponsabilizzazione della classe politica, che è “costretta” ad affidare l’implementazione delle proprie decisioni e le proprie scelte ai dipendenti della pubblica amministrazione.
Se da un lato questo allontana gli attori della politica dal rischio di essere direttamente coinvolti in episodi in cattiva amministrazione, dall’altro li obbliga nel caso perseguano finalità non proprio istituzionali (come la tutela degli interessi del proprio elettorato quando non coincidenti con l’”interesse pubblico”) alla ricerca di dipendenti “fedeli” (non necessariamente assunti a tempo indeterminato), a scapito eventualmente altri dipendenti più rigorosi nell’interpretazione del ruolo costituzionalmente attribuitogli e pertanto meno predisposti ad assecondare le pressioni esterne.
Per questo motivo la carriera dei dipendenti pubblici si è progressivamente legata all’appartenenza politica.
La cronaca giudiziaria è oramai colma di casi di funzionari pubblici la cui “contiguità” col potere politico “diventa complicità“.
Inoltre si può oggi affermare, senza ombra di dubbio, che il risultato della riforma che puntava sulla valorizzazione delle capacità dei dipendenti è stato fallimentare.
I sistemi di valutazione della performance del dipendente pubblico, fondati teoricamente su criteri oggettivi e su valutazioni di merito, si sono rivelati disastrosi. Eccetto rare eccezioni, che pur esistono, l’attribuzione del salario accessorio segue spesso la vecchia logica della “distribuzione a pioggia”, anche perché non è “conveniente” per i politici (o per i dirigenti da questi nominati) premiare solo i fedelissimi per sterilizzare il rischio di “rivolte” tra i dipendenti stessi, che spesso sanno ma, per quieto vivere, fanno finta di non sapere.
Si dimentica invece che la pubblica amministrazione e i suoi dipendenti e dirigenti sono al servizio esclusivo della nazione (art.98 della Costituzione) non di una parte, sebbene quella parte abbia vinto le elezioni e che dunque rappresenta, in qual momento, la maggioranza dei cittadini.
La riforma Bassanini, che sulla carta avrebbe voluto dare piena attuazione al principio costituzionale della terzietà del dipendente pubblico, ha invece ottenuto il risultato di “favorire” l’attuazione di fenomeni distorsivi.
Il risultato concreto è che la riforma, contrariamente alla sua finalità dichiarata, ha aumentato il grado di politicizzazione della burocrazia locale di Comuni e Provincie in particolar modo di quella di qualifica dirigenziale: (fonte wikipedia) “questa legge avendo creato un sistema dove gli incarichi dirigenziali/apicali sono revocabili ad nutum dagli organi di governo politici, ed avendolo creato in costanza della giurisdizione del giudice civile ordinario sui rapporti di impiego dei dipendenti pubblici locali, ha in pratica contribuito fortemente ad indebolire l'imparzialità della burocrazia degli enti locali favorendo la fidelizzazione politica dei dirigenti.
Infatti nella cultura giuridica dei giudici civili ordinari del lavoro è molto scarsa l'attenzione sulla virtù e sull'imparzialità del funzionario pubblico, essendo il diritto civile da costoro applicato tutto basato sulle categorie semplicistiche dell'adempimento o dell'inadempimento al contratto (che a livello di giudizio comportano una sopravvalutazione dell'attitudine all'obbedienza al superiore e una considerazione meramente "quantitativa" dell'impegno profuso dai funzionari, con una conseguente trascuratezza rispetto a categorie di valutazione "qualitative" come ad esempio l'imparzialità procedimentale e la giusta tutela degli interessi dell'utenza e dei cittadini). In tal modo i dirigenti comunali sarebbero di fatto incentivati a schierarsi con un'appartenenza politica quale unico mezzo per vedersi garantita la carriera o almeno la posizione; non necessariamente omogenea al governo politico dell'ente locale (laddove sia abbastanza estesa da rendere tali burocrati una compatta opposizione interna).”
Occorre aggiungere che, con le riforme in parola la supremazia del principio di “legalità” (spesso inteso come il principio cui si ispirano i “burocrati” che hanno il solo obiettivo di porre ostacoli alla realizzazione e allo sviluppo dell’iniziativa privata o alla partnership pubblico/privata) nell’attuazione dell’azione amministrativa è stata progressivamente sostituita o comparata con altri principi, come l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, la promozione dell’attività economica, il sostegno alle imprese locali, la necessità di garantire la salvaguardia degli equilibri di bilancio e così via.
In altre parole il rispetto della legge sembra non rappresenti più il principio guida dell’azione amministrativa ma appare, con sempre maggior frequenza, che il principio di legalità possa essere derogato in nome di un’interpretazione “elastica” della farraginosa normativa italiana, con lo scopo di raggiungere gli obiettivi del politico di turno (spesso assimilabili al “facimm’ ammuina” della Real Armata di Mare del Regno delle due Sicilie) nel termine del mandato elettorale.
Caso paradigmatico dell’evoluzione in negativo della tutela della legalità è la trasformazione del ruolo del “segretario comunale o provinciale”, che da “garante della legittimità” degli atti si è trasformato, sotto la pressante minaccia della revoca dell’incarico fiduciario da parte del Sindaco pro-tempore, nel “braccio armato” del politico di turno con il compito di ricondurre a “giusta ragione” i comportamenti dei funzionari/dirigenti dissenzienti.
In nome di una presunta sburocratizzazione sono stati abrogati i controlli preventivi sugli atti amministrativi (la demonizzazione del vecchio CO.RE.CO. ne è prova), lasciando a tutela del principio di legittimità dell’azione amministrativa il solo controllo successivo del giudice amministrativo o del Presidente della Repubblica (attivabile solo in caso di ricorso nei termini prescritti, a costi non certo “popolari”) ed il controllo giudiziario (attivabile solo in caso sussistenza di ipotesi di reato, tutte da dimostrare - ex multis si rimanda alla lettura della recente sentenza della Corte di Cassazione n°5439 del 06.02.2017).
Inoltre avendo introdotto, nel 2001, con la riforma del titolo quinto della Costituzione (governo D’Alema) la potestà concorrente di Stato e Regioni in numerose materie dell’ordinamento, si è andato perdendo anche “il ruolo guida” dei ministeri nell’omogenea interpretazione delle norme attraverso le circolari interpretative e normative. La circolare è per definizione una comunicazione scritta da parte di un organo superiore volta a fornire indicazioni operative, disposizioni interpretative e/o modalità attuative; la pubblica amministrazione può, in via generale, discostarsi dalle indicazioni in essa contenute, motivando adeguatamente tale scelta sulla base della fattispecie concreta che si ritiene debba assumere la cura del pubblico interesse.
Il ruolo ministeriale di guida nell’operato della pubblica amministrazione è rimasto solo in materia demografica, laddove la competenza è ancora nazionale e, di conseguenza, le circolari ministeriali, al pari delle indicazioni delle Prefetture, hanno ancora ragione di esistere. Nelle altre materie, in nome del “principio di sussidiarietà”, si ci è affidati alle leggi (spesso scritte male) e ai regolamenti regionali  e locali su cui non vi è, spesso, alcun controllo preventivo di legittimità (neanche quello del Segretario comunale/provinciale/regionale).
Il risultato di una tale architettura istituzionale è un aumento dell’entropia (ovvero della confusione) interpretativa, con la conseguenza che a fronte di domande analoghe del cittadino si ottengono, con sempre maggior frequenza, risposte differenti e cangianti.
Ciò produce imbarazzo per gli operatori sul campo che si sentono abbandonati al loro destino ed aumenta la sensazione dei cittadini comuni di illegalità e corruttela degli apparati pubblici.
E’ in questo “caos normativo” privo di “guide interpretative”, dove il compito della decisione amministrativa è attribuito ad un‘unica persona (o al più a due persone, se si considera l’autonoma proposta del responsabile del procedimento) che si può manifestare la commistione innaturale tra burocrazia, politica e malaffare, a scapito dell’”interesse pubblico” e della “buona amministrazione” .
Tuttavia la causa di questo stato di cose non può essere addebitata ai dipendenti pubblici, una categoria sempre più demotivata, avanti negli anni e non adeguatamente istruita e aggiornata.
In tal senso un cenno particolare merita il “capitolo formazione” dei dipendenti pubblici.
La parola formazione compare ben 28 volte nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 -
“Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
La stessa direttiva Brunetta n°10 del 30 luglio 2010, nello spiegare l’ennesima riforma del pubblico impiego, ad un certo punto recita: “La formazione è, peraltro, una dimensione costante e fondamentale del lavoro e uno strumento essenziale nella gestione delle risorse umane. Tutte le organizzazioni, per gestire il cambiamento e garantire un’elevata qualità di prodotti e servizi, devono oggi fondarsi sulla conoscenza e sullo sviluppo delle competenze.”
Ebbene si può affermare, senza dubbio di smentita, che la formazione, soprattutto per gli enti locali, è spesso un “miraggio”; infatti, tranne rare eccezioni, negli enti locali manca ogni forma di programmazione della formazione del personale e quando la si attiva, la stessa è affidata a soggetti che non hanno mai concretamente operato come dipendenti pubblici e per questo non conoscono le difficoltà operative della categoria, con la conseguenza che le “lezioni” vengono percepite come mere “trattazioni teoriche” lontane dai bisogni giornalieri del dipendente stesso.
Al contrario l’attivazione di una formazione efficace dei dipendenti pubblici è indispensabile per evitare il “declino” delle istituzioni oltre che per garantire qualità ed uniformità nei servizi offerti; tale formazione dovrebbe essere effettuata principalmente da soggetti che hanno maturato la propria esperienza nella stessa pubblica amministrazione, trattando casi pratici di “best practice” (ispirandosi magari ai convegni medici in cui si illustrano gli interventi innovativi).
Andrebbero introdotti dei veri e propri “protocolli” cui i dipendenti pubblici devono ispirare le proprie istruttorie e le proprie decisioni, da diffondere mediante interventi di formazione continua ed obbligatoria.
Si ridurrebbe in questo modo la “discrezionalità” nelle decisioni del singolo dipendente che, allo stato attuale delle cose, affida le proprie determinazioni alla personale sensibilità caratteriale, alle conoscenze ed esperienze maturate nel tempo, all’”interpretazione filosofica” del ruolo del dipendente all’interno della “malandata macchina amministrativa” o, ancor peggio, alla propria appartenenza politica e/o al proprio tornaconto personale; “spersonalizzare” il ruolo decisorio, uniformandolo a comportamenti standardizzati e predeterminati può essere una delle misure utili per restituire fiducia nell’operato della P.A..
Del resto le attuali misure anticorruttive, che si sintetizzano nella legge n. 190/2012 recante "Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione" e nel decreto legislativo n. 33/2013 recante "Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni", si stanno rilevando insufficienti per arginare un fenomeno che sembra piuttosto un “malcostume” italiano.
La politiche anticorruttive, basate su ”codici di comportamento” e “piani anticorruzione”, sono di frequente intese dagli stessi operatori del settore (sia dipendenti pubblici che politici) come copiosi documenti da predisporre obbligatoriamente che nessuno legge, ma che debbono essere redatti per evitare “noie” e sanzioni amministrative; del resto nessuno si interessa della qualità del contenuto di questi documenti, così come della verifica della loro attuazione.
Lo stesso principio secondo cui il controllo preventivo sulla corruzione è fondato sull’obbligo di rendere trasparente l’azione amministrativa (con la costruzione delle cosiddette “case di vetro”) a mezzo della pubblicazione di tutti gli atti adottati dall’amministrazione, si sta rivelando poco efficace. Infatti appare improbabile che il cittadino comune (e soprattutto il comune cittadino italiano) conservi l’interesse e spenda il proprio tempo per seguire le vicende della pubblica amministrazione, preoccupandosi di “denunciare” tutte quelle situazioni anomale, anche quando le questioni non toccano direttamente i propri interessi; la paura di rappresaglie da parte dei potenti di turno “frena” l’accesso civico alla documentazione della pubblica amministrazione. Inoltre bisogna riconoscere che l’associazionismo in Italia è “debole”;  le azioni per risarcimento del danno da interesse diffuso o pretensivo delle poche associazioni che provano a costituirsi in giudizio non trovano facile accoglimento da parte del Giudice Italiano; a tale difficoltà va sommata la lunghezza dei processi civili che scoraggiano le azioni giudiziarie e la probabile prescrizione dei reati in caso di costituzione di parte civile nei processi penali.
Lo stesso istituto del whistleblowing, che in lingua italiana non è tradotto con un sostantivo ma che è genericamente definito come “l’istituto che tutela e incentiva chi segnala episodi corruttivi contribuendo a smascherarli”, non decolla.
Il whistleblower in certi ambienti sarebbe definito come “lo spione”; …. e ”lo spione” nell’ambiente di lavoro in cui ha fatto la denuncia deve continuare a lavorare ….
L’incapacità di incidere delle attuali politiche anticorruttive impone una correzione di rotta che tenga conto dei costumi della società italiana, dove il ricorso alla raccomandazione è pacificamente tollerato, l’amicizia di un “potente” è considerata un vanto, la pretesa di legalità ci tocca solo quando l’azione illegittima (o illecita) ci lede direttamente.
Fino a che (come mi è capitato di constatare durante la conduzione di un’indagine statistica) i cittadini riterranno il fenomeno “astratto” della corruzione un male gravissimo per la società (valutando la gravità del fenomeno pari a dieci in una scala di voto 0-10) salvo poi rispondere, al quesito successivo, di ritenersi disposti a ricorrere alla raccomandazione per garantire il lavoro ad un proprio figlio in cerca di occupazione, le politiche anticorruttive in Italia non avranno alcuna possibilità di successo.
Bisogna che si prenda atto del più classico dei mali italiani: quello di invocare l’onestà ed il cambiamento, salvo poi infuriarsi quando si è chiamati a pagare il prezzo del rispetto delle regole. Del resto tutti invochiamo la legalità, ma se questa poi arriva davvero ci sta stretta, perché in ognuno di noi c’è una parte di illegalità, cui siamo talmente abituati da aver pure dimenticato di averla.
Di conseguenza, al fine evitare il declino del Paese e per costruire una buona amministrazione sarebbe quanto mai opportuno uscire da ogni finzione ed in particolare superare la finta “dicotomia politica/amministrazione attiva” alla quale le leggi Bassanini ci ha relegato, restituendo il ruolo decisorio nell’adozione dei principali provvedimenti amministrativi (e tutte le conseguenti responsabilità) ai cittadini, attraverso i propri eletti.
Se i cittadini votano i politici, è giusto (se non addirittura indispensabile) che questi si assumano pienamente la responsabilità delle proprie scelte, soprattutto quando queste scelte sono “borderline”.
Ai funzionari spetterà il ruolo “tecnico” di “suggeritori” del politico per l’adozione dei provvedimenti, la cui emanazione dovrà essere affidata, in ogni caso, agli eletti del popolo, soprattutto quando si sia in disaccordo con le proposte dei dipendenti.
Al Segretario comunale o provinciale, anche se di scelta politica, va restituito il compito di apporre il proprio parere di legittimità sugli atti adottati dagli organi decidenti; tuttavia è necessario salvaguardare l’efficacia dell’atto adottato (dal politico eletto) anche in caso di parere negativo dell’Ufficio di segreteria o del dirigente di settore.
Occorrerebbe pur tuttavia rendere obbligatorio il controllo successivo sul provvedimento così adottato da parte di una autorità terza (che potrebbe essere l’ANAC o anche il giudice amministrativo).
Una riforma di questo tipo avrebbe come logica conseguenza la possibilità di valutare la performance del dirigente (e con essa dei dipendenti responsabili del procedimento), del segretario comunale/provinciale ma anche la preparazione del politico e la sua propensione alla “legalità”. Il salario accessorio dei dipendenti con ruoli decisionali potrebbe essere finalmente parametrato a criteri di stima oggettivi; il politico potrebbe attuare le proprie decisioni programmatorie anche quando presuppone che il dipendente gli sia pretestuosamente ostile; inoltre il politico conserverebbe giuste ragioni, nel caso in cui il proprio operato fosse riconosciuto legittimo dall’autorità preposta al controllo successivo, per chiedere la “destinazione ad altro incarico del dipendente” in attuazione del principio di rotazione degli incarichi stessi (non escludendo in casi estremi e reiterati il “licenziamento”) quando questi ha redatto una proposta non conforme alla legge.
E’ evidente che si tratterebbe di una redistribuzione delle competenze tra i politici eletti ed i dipendenti scelti per concorso e opportunamente formati; si riassegnerebbe ai politici non solo il ruolo di programmare le scelte di sviluppo e trasformazione di un territorio ma anche quella di attuarle nell’ipotesi in cui il dipendente (ovvero al cosiddetta “burocrazia”) le ritenga ingiustamente illegittime, salvo poi la verifica sulla corretta interpretazione della norma da parte di un soggetto terzo ed indipendente. Il politico dovrà così immaginare programmi che per essere realizzati dovranno essere rispettosi della normativa vigente; lo stesso diventerà gioco forza il primo garante/responsabile della legalità e non potrà più nascondere il fallimento delle proprie proposte politiche dietro le incapacità della “macchina amministrativa”, sulla quale oggi si scaricano spesso tutte le colpe dei propri fallimenti.
Infine occorre che una volta e per tutte il popolo italiano superi l’ipocrita costume secondo cui la legge “in astratto” va applicata mentre “in concreto” deve essere attuata solo quando “conviene”; se fosse riassegnata supremazia al “principio di legalità”, la politica sarebbe costretta a venire allo scoperto, superando in un sol colpo la massima dello statista dei primi del ‘900, Giovanni Giolitti, secondo cui “la legge per gli amici si interpreta e per i nemici si applica”.
Se il popolo italiano non decide di uscire da questa ambiguità, restituendo ai propri eletti in compito di assumersi le responsabilità di attuare le scelte per le quali li ha votati senza poter accampare scuse (salvo poi pagare le conseguenze di eventuali errori sia in fase di adozione dei provvedimenti che di controllo delle proposte dei dipendenti infedeli o incapaci), il declino del paese è e resta inesorabile.

arch. Giuseppe COCCHI