ILVA: Diritto alla salute (e all’ambiente) e diritto al lavoro (ed alla produzione)
di Gianfranco AMENDOLA
Già sei anni fa, su questo sito, ci siamo occupati della vicenda ILVA dando conto ai nostri lettori delle eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla magistratura di Taranto a proposito del Decreto Legge del 3 dicembre 2012, n. 207 coordinato con la legge di conversione 24 dicembre 2012, n. 231, recante: “Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale“; evidenziando che si trattava di un decreto legge che, in sostanza, autorizzava la prosecuzione, senza alcun immediato intervento, di una attività accertata come causa di malattie e morti. E concludevamo chiedendoci se una legge dello Stato può veramente fare una cosa del genere[1].
Oggi, a distanza di 6 anni, mentre il caso Ilva riesplode in tutta la sua drammaticità, sentiamo il dovere di procedere ad un aggiornamento di quel primo scritto[2] perchè, da allora, sono intervenuti altri decreti legge e, soprattutto, vi sono state due sentenze della Corte Costituzionale ed una della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che, partendo dalla questione ILVA, hanno affermato importanti principi generali a proposito del valore ambiente, del diritto alla salute e del diritto al lavoro.
Ma andiamo con ordine.
La prima sentenza (Corte Costituz., 9 maggio 2013 n. 85), chiamata a decidere, come abbiamo detto, sulla legittimità costituzionale del citato D.L. n. 207, evidenziava la necessità di “un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, precisando, subito dopo, che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”. Occorre, invece, secondo la Corte del 2013, garantire “un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto”.
Con la seconda sentenza n. 58 del 23 marzo 2018, la Corte costituzionale veniva chiamata a giudicare la legittimità costituzionale del cd. decreto Ilva del 2015 (art. 3 del dl n. 92 del 2015, abrogato e riprodotto in maniera identica, come osserva la stessa Corte, dal dl 83 del 2015), il quale, con una motivazione che richiamava il “bilanciamento” della sentenza del 2013, consentiva, a fronte della promessa di un piano di risanamento entro un mese, la prosecuzione dell’attività dell’Ilva, nonostante il provvedimento di sequestro preventivo emesso dall’autorità giudiziaria nei confronti dell’azienda per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori.
Questa volta, tuttavia, la Corte concludeva per l’llegittimità costituzionale del decreto del 2015 in quanto “il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.)“. Aggiungendo significativamente che “il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona.[3]”
Sulla stessa problematica si pronunciava, un anno dopo, anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[4], cui si erano rivolti 180 cittadini tarantini che lamentavano l’impatto delle immissioni nocive provenienti dallo stabilimento Ilva di Taranto sulla salute della cittadinanza e sull’ambiente locale, evidenziando l’inerzia dello Stato nell’impedire la lesione di diritti fondamentali dei cittadini quali il diritto alla salute (art. 2 Convenzione) e del diritto alla vita privata sotto il profilo del diritto all’ambiente (art. 8 Conv.). La Corte riteneva di dover esaminare la questione unicamente sotto il profilo dell’art. 8[5], che tutela il rispetto della vita privata e, ritenendo provato, in base a numerosi studi scientifici, il nesso di causalità tra l’attività dell’Ilva e la compromissione della situazione sanitaria, concludeva che lo Stato italiano non aveva messo in atto le misure atte a proteggere il diritto al rispetto della vita privata dei cittadini, né aveva fornito agli stessi un rimedio interno efficace per la difesa di tale diritto, violando con la propria condotta gli artt. 8 e 13 della Convenzione. Precisando, in particolare, che l’art. 8 comporta l’obbligo per lo Stato di attuare un bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello individuale, adottando una idonea regolamentazione dell’attività inquinante al fine di assicurare la protezione effettiva dei cittadini. In proposito, la CEDU precisa che allo Stato compete un certo margine di apprezzamento in quanto deve tener conto del “giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti dell’individuo e della società nel suo complesso”; ma ritiene che, in ogni caso, “spetta allo Stato giustificare, con elementi precisi e circostanziali, le situazioni in cui determinate persone devono sostenere pesanti oneri in nome degli interessi della società”.
E’, peraltro, significativo notare che il tema del “bilanciamento” si è posto a livello europeo anche con riferimento al principio di precauzione, sancito dall’art. 174, comma 2, del Trattato di Amsterdam, il quale, come evidenziato dalla Corte UE[6] e dal Consiglio di Stato[7], impone che “quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi”; e pertanto esso “impone alle autorità interessate di adottare, nel preciso ambito dell’esercizio delle competenze loro attribuite dalla normativa pertinente, misure appropriate al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la salute, la sicurezza e l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici” (Trib. UE, sez. 1, 16 settembre 2013, Animal Trading Company). Ma più recentemente, trattando dei rifiuti con codici a specchio, la Corte UE, in significativa analogia, anche terminologica, con la vicenda ILVA, ha aggiunto che il legislatore dell’Unione, nel settore specifico della gestione dei rifiuti, ha inteso operare un bilanciamento tra, da un lato, il principio di precauzione e, dall’altro, la fattibilità tecnica e la praticabilità economica[8].
A questo punto, prescindiamo pure dalla vicenda ILVA e dalle tante considerazioni che pure potremmo fare. Limitiamoci, invece, alla questione essenziale, di interesse generale e, purtroppo sempre drammaticamente attuale, relativa ai rapporti tra diritto alla salute (e ad un ambiente salubre) e diritto al lavoro, che troppo spesso vede contrapposte due categorie di inquinati: i lavoratori all’interno della fabbrica inquinante, preoccupati per il loro posto di lavoro, e i cittadini che vivono all’esterno, preoccupati per la loro salute. Come abbiamo visto, la parola d’ordine della giurisprudenza, anche europea, sembra essere “bilanciamento”, al fine di salvaguardare entrambi questi diritti, lasciando alla pubblica autorità il compito di attuarlo. Tuttavia in questo modo il problema si sposta ma non si risolve.[9] Perché è facile parlare di bilanciamento e di evitare che un diritto diventi “tiranno” rispetto all’altro, ma poi, in pratica, di fronte ad una fabbrica che provoca gravi danni alla salute dei cittadini, come si bilancia? Se si prescrive alla fabbrica di diminuire l’inquinamento a livelli accettabili per la salute, è evidente che occorre diminuire anche i livelli di produzione ovvero occorre investire cospicui finanziamenti nel ciclo di produzione e di depurazione. Ottenendo dalla proprietà la solita risposta che, a quel punto, è costretta a ridurre i livelli occupazionali. In aggiunta, si consideri che, comunque, una adeguata riduzione dei livelli di inquinamento può anche essere programmata ma, di certo, a parità di produzione, non può essere attuata con immediatezza; e intanto permane il danno alla salute.
Non a caso, come abbiamo visto, la nostra Corte costituzionale, pur senza riconoscerlo, nel 2018, di fronte alla ennesima promessa di intervento, è stata costretta a mettere da parte i “bilanciamenti” e i “diritti tiranni” del 2013, per affermare decisamente che il diritto alla salute attiene alle esigenze basilari della persona e deve essere immediatamente tutelato; tanto più che l’art. 41 della Costituzione, quando si parla di salute, non privilegia alcun bilanciamento e afferma, senza ombra di dubbio, che le esigenze economiche e produttive non possono mai prevalere sul diritto alla salute[10].
La questione, del resto, era stata bene evidenziata sin dal 2012 dal GIP del Tribunale di Taranto quando ricordava che “la nostra Carta Costituzionale prevede una serie di diritti che hanno una caratteristica costante e cioè quella di una possibile comprimibilità nell’ipotesi in cui si scontrano con altri diritti ugualmente riconosciuti e tutelati (diritto di proprietà, domicilio, libertà nelle sue diverse forme, ecc.); tuttavia il diritto che non accetta contemperamenti o compressioni di sorta è il diritto alla vita e quindi alla salute. Di fronte a tale fondamentale diritto tutti gli altri devono cedere il passo, anche il diritto al lavoro. Nel caso che ci occupa ragionando diversamente si arriverebbe all’assurdo giuridico di operare delle comparazioni fra il numero di decessi accettabili in relazione al numero di posti di lavoro assicurabili: le più elementari regole di diritto e soprattutto del buon senso vietano un simile ragionamento[11]”.
Peraltro, anche sotto il profilo terminologico, checché ne dica la Corte, dovrà pur significare qualcosa se la Costituzione qualifica la salute come «diritto fondamentale dell’individuo» (art. 32, comma 1) ma non usa questo aggettivo quando parla del «diritto al lavoro» (art. 4, comma 1) o di altri diritti pur costituzionalmente garantiti[12].
E allora, a nostro avviso, le argomentazioni della Corte circa “bilanciamenti”, “equilibrio”, “diritti tiranni” sono certamente accettabili se si vuole significare che, in caso di contrasto, la prevalenza del diritto alla salute comporta sempre, comunque, che l’eventuale sacrificio di altri diritti venga attentamente vagliato attraverso tutte le opzioni ipotizzabili nel caso concreto e, se non c’è altra scelta (cioè nessun bilanciamento è possibile), venga ridotto al minimo. Ma altrettanto certamente non sembra accettabile una conclusione che legittimi, come fece la sentenza del 2013, la prosecuzione, da subito e tal quale, di una attività già accertata essere micidiale per la salute di lavoratori e cittadini, a fronte di prescrizioni rivolte per il futuro (entro 36 mesi) ad una azienda che già in passato le aveva eluse. Insomma, qualsiasi soluzione è accettabile purchè rispetti il limite invalicabile della tutela del diritto alla vita e alla salute di lavoratori e cittadini. E, pertanto, anche adesso, mentre si ripropone drammaticamente ancora una volta per l’ILVA il dilemma salute-lavoro e da più parti si evidenzia la necessità di mantenere in vita un comparto essenziale per l’economia nazionale che dà lavoro a oltre 10.000 famiglie, occorre, a nostro sommesso avviso, ribadire che il diritto alla vita ed alla salute è fondamentale e non sacrificabile ad alcun altro diritto o interesse; e ricordare, di nuovo, l’insegnamento delle sezioni unite della Cassazione, quando, nel lontano 1979, sancirono con forza che “il bene della salute… è assicurato all’uomo come uno ed anzi il primo dei diritti fondamentali anche nei confronti dell’Autorità pubblica, cui è negato in tal modo il potere di disporre di esso… Nessun organo di collettività neppure di quella generale e del resto neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita o della salute di un uomo o di un gruppo minore.[13]”.
Solo in questo quadro, e solo con questo limite invalicabile, si può e si deve tentare un “bilanciamento”, che, comunque, come dice con chiarezza la CEDU, compete allo Stato trovare, in un difficile contesto costi-benefici. C’è poi il problema, strettamente collegato, delle responsabilità di chi ha portato a questa situazione e di chi ha consentito il protrarsi di questa situazione, con tutta la sua tragica scia di morti e malattie. Problema che va risolto applicando le normali regole e le leggi penali vigenti in armonia con i valori costituzionali, alla luce dei quali va valutata anche la concessione di un discutibile “scudo penale” finalizzato alla prosecuzione di un’attività contraria alla legge[14].
Un’ultima osservazione. In questi giorni, la Commissione Affari Costituzionali del Senato ha in corso una serie di audizioni informali in relazione alla discussione di quattro disegni di legge costituzionale per introdurre in Costituzione (art. 9) il diritto all’ambiente[15]. Ed è certamente significativo notare che in quella sede si sta discutendo se qualificarlo, al pari del diritto alla salute, quale diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività per sancire che, comunque non è comprimibile anche a fronte di altri diritti costituzionalmente garantiti. Agganciandolo, contemporaneamente, agli obiettivi di “benessere” e “qualità della vita”[16], così come fa la CEDU nella sentenza sopra illustrata.
Roma, 7 novembre 2019
Riferimenti
[1] Ci riferiamo al nostro Ilva, salute, ambiente e Costituzione, in www.industrieambiente.it, gennaio 2013.
[2] Per una riflessione più ampia anche in relazione ai rapporti politica-magistratura, cfr. il nostro, La magistratura e il caso Ilva : prime riflessioni, in Questione Giustizia 2012, n. 5.
In dottrina, si rinvia a:
Questione Giustizia, n. 2/2014, ed. Franco Angeli, Milano: Obiettivo: Il diritto alla salute alla prova del caso Ilva;
con contributi di: B. DEIDDA-A. NATALE, Introduzione: il diritto alla salute alla prova del caso Ilva. Uno sguardo di insieme;
S. PALMISANO, Del «diritto tiranno». Epitome parziale di un’indagine su cittadini già al di sopra di ogni sospetto;
A. CIERVO, Esercizi di neo-liberismo: in margine alla sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva;
L. MASERA, Dal caso Eternit al caso Ilva: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale;
S. BARONE-G. VENTURI, Ilva Taranto: una sfida da vincere;
G. ASSENNATO, Il caso «Taranto» e il rapporto ambientesalute nelle autorizzazioni ambientali;
P. BRICCO, Le logiche della magistratura e del diritto, le ragioni dell’impresa e del lavoro.
[3] In dottrina, cfr. CATALISANO, Il caso Ilva: Commento alla sentenza n. 58/2018 della Corte costituzionale, in www.AmbienteDiritto.it, 2018, p. 11.
[4] CEDU, sez. 1, sentenza Cordella e altri c/ Italia, 24 gennaio 2019 in www.echr.coe.int. In dottrina cfr., anche per richiami, CARRER, Le armi spuntate dell’Italia contro l’inquinamento: la condanna della Corte EDU nel caso ilva … in www.giurisprudenzapenale.com, 19 febbraio 2019.
[5] L’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) dispone che: “ 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”. Si noti che in dottrina questa scelta della CEDU di rifarsi all’art. 8 invece che al ben più pertinente art. 2, che riguarda il diritto alla vita e alla salute, ha destato fondate e condivisibili perplessità. Anche perché la vita di cui all’art. 2 CEDU riceve una tutela tendenzialmente assoluta, certamente non bilanciabile con valori “inferiori” quale l’attività industriale; mentre “la “vita privata”rientra nel novero di quei diritti fondamentali caratterizzati da maggiore flessibilità”. In proposito, cfr. per approfondimenti e richiami, ZIRULIA, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, in www.dpc, n. 3, 2019.
[6] CGCE, 9 settembre 2003, Monsanto, e 10 aprile 2014, Acino.
[7] Consiglio di Stato n. 4227/2013 e 826/201
[8] CGCE, decima sezione, 28 marzo 2019, in www.lexambiente.it del 29 marzo 2019,
[9] Per approfondimenti e richiami si rinvia a DATO, Il bilanciamento tra principi costituzionali e la nuova dialettica tra interessi alla luce della riforma Madia. Riflessioni in margine al ‘caso Ilva’ in www.federalismi.it.
[10] Per approfondimenti e richiami, cfr. DE VITO, La salute, il lavoro, i giudici, in Questione Giustizia, 24 marzo 2018 e il nostro Ilva e il diritto alla salute. La Corte costituzionale ci ripensa?, ivi , 10 aprile 2018
[11] GIP Tribunale di Taranto, decreto di sequestro preventivo 25 luglio 2012, n. 5488/10 R. Gip, est. Todisco.
[12] Per approfondimenti di questi contraddittori orientamenti della Corte Costituzionale circa la esistenza di un gerachia di valori costituzionali, si rinvia a DATO, op.cit., pag. 16 e segg.
[13] Cass. SS. UU, 6 ottobre 1979, n. 5172 (sentenza cd. Corasaniti)
[14] Anche questa questione è stata portata al vaglio della Corte Costituzionale, la quale, tuttavia, ha deciso, in questi giorni, la restituzione degli atti al Gip “il quale, considerato che nel frattempo il legislatore è intervenuto due volte (dl n. 34 del 2019 e, successivamente, dl n.101 del 2019, in corso di conversione in legge), dovrà valutare se permangono la rilevanza delle questioni e i dubbi di legittimità costituzionale”.
[15] Come è noto, il valore ambiente è stato riconosciuto da numerose sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione che lo hanno qualificato come valore trasversale desumibile dal combinato disposto degli art. 2,3,9,41 e 42. In dottrina, cfr. per tutti, di recente, GRASSI, Ambiente e Costituzione, in Riv. Quadrim. diritto dell’ambiente , Saggi, 2017, n. 3.
[16] La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776 inserisce tra i diritti inalienabili, insieme alla vita e alla libertà anche il perseguimento della felicità.
pubblicato du Industrieambiente.it. Si ringrazia il dott. R. Mastracci