Tribunale S.M. Capua Vetere Sez. II sent.del 6dicembre 2005
Pres.Toscano Est. Chiaromonte Imp.Di Rauso ed altri
Sulla configurabilità del "disastro ambientale" nello svoglimento di atività di cava determinante la distruzione e lo stravolgimento di un’ampia zona di territorio in assenza delle valutazioni previste di studi di impatto ambientale e delle prescritte autorizzazioni e concessioni, asportando illegalmente ingenti quantitativi di materiale inerte e causando modificazioni irrecuperabili del territorio;
TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Innanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - Sez. II Penale composto da:
Dott. LUISA TOSCANO Presidente
Dott. FRANCESCO CHIAROMONTE Giudice est.
Dott. ADOLFO DI ZENZO Giudice.
Alla pubblica udienza del 06/12/2005 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente
S E N T E N Z A
nei confronti di:
1) DI RAUSO Stefano, nato a S.Maria c.v. il 13.6.1940 , residente a Capua alla Via Fuori Porta Roma, n. 36 . - - libero – già contumace –
2) DI RAUSO Michele, nato a S.Maria c.v. il 01.01.1974, residente a Capua alla Via Fuori Porta Roma , n. 36. - - libero – già contumace -
IMPUTATI
Capo – A, B, F, G, Omissis – stralciati e definiti con Sent. N. 254/04.
C) del reato p.e.p. dagli artt. 110 734 CP, perché, nelle qualità indicate sub A) adottando le condotte indicate ai capi precedenti, deturpavano le bellezze naturali di un’ampia zona sottoposte a particolare vincolo e particolare protezione dell’Autorità;
D) del reato p.e.p. dagli artt. 110 e 434 CP, perché del reato p. e p. dagli artt. 110 e 434 CP, perché, nelle qualità indicate e adottando la condotta sub A) cagionavano un disastro ambientale consistito nella distruzione e stravolgimento di un’ampia zona di territorio del Comune di Castel di Sasso in assenza delle valutazioni previste di studi di impatto ambientale e delle prescritte autorizzazioni e concessioni, asportando illegalmente ingenti quantitativi di materiale inerte, determinando lo stravolgimento irrecuperabile del territorio;
E) del reato p. e p. dagli artt. 110 e 451 CP, perché, in concorso tra loro e nelle quali indicate sub A) , omettevano di collocare apparecchi e strumenti e comunque di effettuare interventi tendenti ad eliminare pericoli per i lavoratori dipendenti.
In Castel di Sasso 14 luglio 1997. -


CONCLUSIONI
Il Pubblico Ministero richiedeva la condanna degli imputati Di Rauso Michele e Di Rauso Stefano e , previa concessione delle attenuanti generiche al primo, la condanna degli stessi rispettivamente alla pena di anni due e di anni tre di reclusione.
Le parti civili costituite si associavano alle richieste del P.M. e rassegnavano le loro conclusioni scritte.
Il difensore degli imputati chiedeva l’assoluzione di entrambi gli imputati perchè il fatto non sussiste; in subordine assoluzione per Di Rauso Michele per non avere commesso il fatto e per Di Rauso Stefano perchè il fatto non costituisce reato; in ulteriore subordine declaratoria di n.d.p. per intervenuta prescrizione.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il GUP presso il Tribunale di SMCV emetteva in data 9.2.2004 decreto che dispone il giudizio nei confronti degli odierni imputati per i reati indicati in epigrafe.
All’udienza del 30.11.2004 veniva dichiarata aperta la istruttoria dibattimentale e le parti avanzavano le loro richieste istruttorie che il Tribunale ammetteva.
In tale data veniva altresì ascoltato il teste di accusa Perugini.
All’udienza del 8.2.2005 veniva quindi ascoltato il teste Russo ed acquisita la documentazione fotografica effettuata da personale del corpo forestale dello Stato.
All’udienza del 5.4.2005 veniva ascoltato il teste Antonucci.
All’udienza del 4.10.2005 veniva escusso il teste Di Dato e rigettata una declaratoria di estinzione dei reati in contestazione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Veniva a tal fine allegata al verbale di udienza apposita ordinanza di rigetto.
Alla successiva udienza utile del 8.11.2005 veniva escusso il teste Di Fusco ed il P.M. rinunciava alla escussione degli ulteriori testi della sua lista.
Le parti sollecitavano alcune richieste istruttorie ai sensi dell’art. 507 c.p.p. che il Tribunale rigettava con ordinanza dettata a verbale.
Veniva pertanto chiusa la istruttoria dibattimentale ed il processo veniva rinviato per la discussione.
All’odierna udienza le parti, pertanto, rassegnavano le suindicate conclusioni.
Il Tribunale, dopo essersi ritirato in camera di consiglio decideva come da dispositivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Dagli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento e dichiarati utilizzabili a fini della decisione ritiene il Tribunale che gli imputati debbano essere mandati assolti dal fatto loro ascritto al capo D e debba essere pronunciata declaratoria di non doversi procedere per i restanti capi della rubrica C ed E, essendo gli stessi estinti per intervenuta prescrizione.
Gli atti del presente processo dovranno infine essere trasmessi alla Procura sede per l’ulteriore corso in ordine al reato di cui all’art.434 c.p. commesso in data successiva a quella indicata in imputazione.

Premesse.
Al fine di comprendere le ragioni di tali conclusioni appare opportuno anzitutto riepilogare le principali emergenze fattuali della istruttoria dibattimentale.
Occorrerà successivamente analizzare struttura e caratteristiche del reato in contestazione e comprendere a quale astratta fattispecie le condotte in esame possano essere riconducibili.
Sarà infine necessario stabilire se risulti raggiunta prova sufficiente (sotto un profilo obiettivo e subiettivo) della sussistenza del fatto cosi’ come specificamente indicato e descritto nel capo di imputazione.

Il fatto risultante dalla istruttoria dibattimentale.
Dall’esame dei numerosi testi escussi e dal complesso della documentazione acquisita è risultato accertato che in località Querceto , nel comune di Castel Sasso insisteva una cava per la estrazione degli inerti gestita dalla società denominata Beton Meca s.r.l..
In particolare dalla documentazione in atti ( dalla relazione di Ctu acquisita agli atti) è emerso che l’attività in oggetto traeva una originaria legittimazione da un provvedimento assentivo risalente al febbraio del 1980; in tale epoca, infatti risulta rilasciata una apposita autorizzazione alla coltivazione della zona in esame e specificamente della particella 30/e.
Dalla consultazione della documentazione, riportata opportunamente in preciso ordine cronologico dai CCTTUU nominati dal P.M., è altrettanto agevole ricavare la “storia” amministrativa della cava in esame, che risulta avere avuto alterne vicende anche e soprattutto in considerazione del succedersi delle specifiche disposizioni normative susseguitesi nel tempo.
In particolare, una significativa variazione nella situazione amministrativa della cava, risulta essersi verificata a seguito della entrata in vigore della Legge Regionale Campania n.54/85 che, come noto, ridisegnò in modo rilevante lo specifico quadro di riferimento normativo modificando l’ormai vetusta disciplina del DPR 128/1959.
Orbene, dalla documentazione richiamata per relationem dalla CTU, si ricava che la Beton Meca, nel luglio del 1986, in ottemperanza all’art.36 della citata legge Regionale, presentava istanza per la prosecuzione della attività di coltivazione.
A prescindere dalla legittimità della procedura seguita, quello che appare rilevante evidenziare in questa sede è che nell’anno 1988 furono emanati atti amministrativi funzionali ad evitare (almeno formalmente) la prosecuzione dell’attività estrattiva.
In particolare nel Gennaio del 1988 la Comunità Montana di Monte Maggiore emanò provvedimento di diniego alla richiesta di autorizzazione al proseguimento della coltivazione.
Analogamente, qualche mese piu’ tardi, il Ministero della agricoltura e foreste diffidò la ditta esercente a non proseguire nella attività.
Sempre dalla relazione dei CTU sembra ricavarsi che avverso tali provvedimenti la Beton Meca presentò ricorso al TAR, ottenendo (pare) un provvedimento incidentale di sospensione dell’atto impugnato.
In pratica dopo tale iniziativa, nella relazione di CTU non risultano indicati ulteriori atti e documenti da cui sia possibile ricavare con certezza se e fino a che periodo nella cava in esame proseguì o meno concretamente l’attività estrattiva.
Invero, dopo un significativo salto temporale di circa cinque anni, risultano acquisiti e descritti soltanto documenti da cui ricavare un tentativo di adeguamento della situazione amministrativa della Beton Meca alle ulteriori modifiche normative regionali intervenute con la legge n.17/95, senza che da tali documenti sia possibile desumere in modo significativo se l’attività estrattiva fosse nel frattempo proseguita e, soprattutto, con quali modalità e caratteristiche, questo fosse eventualmente avvenuto.
Non risulta utile a dimostrare la prosecuzione dell’attività di estrazione neanche una analisi della documentazione relativa all’utilizzazione di esplosivi da parte della Beton Meca: invero anche tale documentazione risulta ferma al dicembre del 1990.
Non resta infine che evidenziare come la indubbia imprecisione del progetto allegato all’istanza di rinnovo presentata nell’anno 1986 per quanto concerne “le fasi temporali dello sfruttamento, le modalità di coltivazione (...) nonchè di ogni altro elemento necessario ad individuare le dimensioni e le caratteristiche delle attività estrattive” non consente di ricavare neanche indirettamente da tale documentazione quale potesse essere stato nel corso degli anni lo sfruttamento della cava in esame.
Su queste premesse deve essere evidenziato come, nel corso del processo, la reale condizione della cava risulta esclusivamente descritta dai testi escussi a dibattimento che, a vario titolo e riprese effettuarono accessi e sopralluoghi nel sito in esame.
Deve essere preliminarmente rimarcato, però, che –senza tema di smentite- tutti gli accertamenti descritti dai testi escussi risultano iniziare nell’anno 1999 e seguenti, allorquando la Procura della repubblica diede incarico ad ufficiali di PG e consulenti di svolgere sulla cava opportune investigazioni.
In particolare è risultato che, dopo essere stati nominati, i CCTTUU Russo, Caruocciolo e Di Dato, in una con personale del corpo forestale dello Stato, effettuarono un sopralluogo presso la Beton Meca il 13 settembre del 1999.
Analogamente, risulta che nel medesimo periodo furono effettuati degli accertamenti dall’ispettore Perugini che, escusso a dibattimento, ha riferito che la cava ebbe un lungo periodo di inattività e che lui non ricordava di avere effettuato accertamenti antecedenti al 1999.
A prescindere da questi rilievi, comunque, appare utile evidenziare i risultati del sopralluogo effettuato dai consulenti i cui esiti risultano ampiamente descritti nella relazione acquisita agli atti, nonchè nelle deposizioni dibattimentali degli stessi ed infine, sia pure genericamente, nei rilievi fotografici parimenti acquisiti.
Orbene dal complesso delle prove succitate, francamente non smentite da analoghe prove contrarie e/o da convincenti argomentazioni difensive, è emerso con chiarezza che all’epoca dei sopralluoghi effettuati la cava risultava con recenti lavorazioni e che erano stati realizzati dei fronti di cava a strapiombo per una altezza anche di 30-40 metri ed a volte con angoli superiori ai 90 gradi, nel senso che la parete di coltivazione, anzichè essere verticale risultava in alcune occasioni addirittura rientrante.
Su queste premesse vale la pena anzitutto ricordare che le varie leggi succedutesi nel tempo escludevano ed escludono che l’attività estrattiva (e non solo quella di successivo recupero) potesse essere effettuata con tali modalità essendo sempre pacificamente richiesto che i fronti di escavazione non dovessero essere a strapiombo (cfr. art.119 dpr 128/1959).
In secondo luogo, ed ancora piu’ significativamente, appare evidente che la realizzazione di fronti di cava siffatti dovesse e potesse creare un serio e concreto pericolo di crollo e/o di rovina del costone in tale maniera “lavorato”.
Tale particolare risulta convincentemente ribadito dalla deposizione dei testi escussi che hanno tutti unanimemente confermato il dato in esame, peraltro supportato da evidenti cognizioni logiche e di senso comune.
Giova al riguardo ricordare la deposizione del teste Russo che, pur ammettendo di non avere effettuato verifiche sulla stabilità dei versanti, ha chiarito che, in base alle sue cognizioni geologiche, il tipo di escavazione praticata poteva creare potenzialmente il pericolo di cedimento del fronte.
Un ulteriore circostanza fattuale -altrettanto meritoria di attenzione- riguarda la questione della esatta ubicazione della cava.
In particolare nel corso della istruttoria dibattimentale si è molto insistito circa la circostanza che nella zona a monte della cava fosse presente un area boschiva vincolata a norma della legge Galasso.
Tale elemento risulta certamente desumibile dalla relazione di CTU acquisita agli atti e dalla deposizione dei testi escussi che, concordemente, hanno inteso fornire al riguardo un ulteriore particolare:
In chiaro dispregio della originaria autorizzazione e della normativa di settore e nonostante le elevate altezze del fronte, non erano state realizzate adeguate strutture e recinzioni che potessero essere utili a circoscrivere i luoghi e ad impedire occasionali avvicinamenti ai pendii, con possibili quanto accidentali cadute.
Infine dalla chiara deposizione del teste Di Fusco è stato definitivamente chiarito un ulteriore e significativo particolare:
La cava, pur trovandosi in aperta campagna era posizionata nei pressi di alcune case coloniche e, soprattutto, era ( ed è ) sovrapposta ad una strada provinciale di collegamento tra i comuni viciniori che dista circa 150-180 metri dalla base dello scavo.

Per tutto quanto sopra esposto, volendo tentare un riassunto esemplificativo del complesso delle prove raccolte a dibattimento, possono dirsi acclarate le seguenti, significative, circostanze:

• L’attività di estrazione dei materiali dalla cava in esame cominciò nei primi anni ’80;
• Non è stato possibile acquisire precise informazioni circa il se ed il quando tale attività di estrazione fosse stata sospesa, nè tantomeno, su quali fossero stati i volumi e le modalità di estrazione nel corso degli anni;
• Dalla documentazione amministrativa indicata nella relazione di CTU risulta che la cava era legittimata ad operare sino alla metà dell’anno 1988;
• Nel settembre del 1999 furono accertate escavazioni recenti ed una attività estrattiva del tutto irregolare con la realizzazione di fronti verticali (vietati) e per altezze assolutamente non consentite;
• Appare ragionevole pensare che tale attività estrattiva potesse avere creato un potenziale pericolo di cedimento del costone;
• La particolare ubicazione della cava e le suindicate modalità di lavorazione costituivano un potenziale rischio per la incolumità di occasionali frequentatori delle zone limitrofe (area boschiva sovrapposta, strada provinciale sottoposta etc.).

Fatte tali doverose premesse fattuali, appare necessario, come accennato, analizzare la struttura e le caratteristiche del reato contestato.
Ciò al fine di valutarne la compatibilità con i fatti accertati e, piu’ in generale, per dipanare le varie questioni in diritto sollevate dalle parti (tra tutte la asserita prescrizione delle condotte contestate).

Il reato di cui all’art.434 c.p. Struttura e caratteristiche.
La sostanziale mancanza di rilevanti e sedimentati precedenti di giurisprudenza in ordine al reato de quo (almeno per quanto concerne la specifica materia in esame) impone di valutare la fattispecie incriminatrice alla luce dei principi generali del diritto penale sostanziale, da cui – ovviamente- saranno desumibili importanti conseguenze fattuali ed interpretative.

a. Il reato di pericolo del primo comma dell’articolo.
Il primo comma della norma in esame recita testualmente:
“Chiunque, fuori dai casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni”.
Si tratta, come si vede, di una tipica ipotesi in cui il legislatore, attesa la delicatezza del bene interesse tutelato (fattispecie inserita strutturalmente nel titolo VI del libro II del codice –delitti contro la pubblica incolumità), ha inteso anticipare la soglia della punibilità ad un momento antecedente al verificarsi di qualsivoglia evento dannoso (crollo o altro disastro), giungendo a sanzionare la semplice condotta diretta a cagionare tale evento (reato di pericolo).
Più in generale appare indubitabile che la previsione in esame abbia il dichiarato scopo di costituire una sorta di norma di chiusura in grado di sanzionare ogni comportamento non direttamente ricompreso nelle precedenti fattispecie del medesimo libro del codice.
Giova ricordare infatti che l’articolo contiene una cd. clausola di sussidiarietà (fuori dei casi preveduti negli articoli precedenti), ed una dicitura volutamente generica ed onnicomprensiva del potenziale evento cui è collegata la azione sanzionata (crollo di costruzioni o altro disastro) .
Ovviamente, come accade in questi casi, al fine di non arretrare eccessivamente il limite del penalmente rilevante, il legislatore ha inteso condizionare la punibilità della condotta ad un ulteriore requisito: che dal fatto derivi un pericolo per la pubblica incolumità.
Si tratta evidentemente di un requisito che unanimemente dottrina e giurisprudenza qualificano come condizione obiettiva di punibilità della fattispecie, con la conseguenza che questa rileva obiettivamente risultando del tutto indifferente che l’agente abbia o non abbia voluto l’insorgenza del pericolo (art.44 c.p.).

b. Il capoverso della norma come autonoma fattispecie di reato.
Nel corso del dibattimento le parti hanno molto insistito circa le esatte caratteristiche della fattispecie in contestazione ed in particolare riguardo l’assunto secondo cui il capoverso della norma in esame costituirebbe una ipotesi di reato circostanziato aggravato rispetto alla previsione di cui al primo comma.
Nel corso del processo, infatti, accusa e difesa hanno concordemente avanzato una richiesta di prescrizione del reato ( il primo comma dell’art. 434 c.p. prevede una pena edittale massima di cinque anni il cui termine prescrizionale doveva considerarsi decorso previa concessione delle circostanze attenuanti generiche).
Come accennato, il Tribunale – con apposita ordinanza allegata al verbale di udienza- non ha ritenuto di condividere tale impostazione, ipotizzando, di converso, che la previsione del capoverso dell’art. 434 c.p. costituisse una autonoma fattispecie di reato e non una circostanza aggravante del primo comma dello stesso articolo.
Al fine di comprendere le ragioni di tali conclusioni sembra utile riportare il testo della norma in esame che recita semplicemente:
“La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”.
Orbene, a prescindere dalla laconicità della disposizione, appare evidente che tale formulazione, oltre a prevedere una pena edittale diversa (e più grave) rispetto all’ipotesi del primo comma, modifica integralmente la struttura base del reato per il quale diventa rilevante e necessaria la verificazione di un evento e non la semplice determinazione di un pericolo, , con tutte le importanti conseguenze in tema di momento consumativo e prescrizione del reato.
Infatti, a prescindere dalla pluralità di condotte poste in essere dall’agente (anche in tempi diversi), appare chiaro ed innegabile che ciò che rileverà ai fini della datazione del delitto è l’istantaneo evento disastroso concretamente verificatosi.
Orbene ciò , in linea con una ampia e condivisibile dottrina, consente anzitutto di escludere che l’accadimento descritto dalla norma possa essere considerato come una semplice circostanza aggravante.
Invero, appare del tutto convincente l’assunto secondo cui debba parlarsi di evento ( e non di circostanza aggravante) “nelle ipotesi in cui il fatto tipico di articoli nella progressione dal pericolo al danno (...); tale ultimo risultato non può non incidere sulla struttura della figura criminosa semplice: esso ne trasforma il contenuto di pericolo in quello di danno, per cui è coerente configurarlo come evento (dannoso) tipico del nuovo fatto criminoso, nel quale l’evento di pericolo resta logicamente assorbito” (cfr. Crespi Stella Zuccalà, comm. al codice penale Libro I cap.II, VIII)
Peraltro, bisogna anche aggiungere che la già richiamata clausola di sussidiarietà induce inevitabilmente a ritenere che l’evento disastroso non deve essere voluto dall’agente che altrimenti risponderebbe dei diversi è piu’ gravi delitti di tentata strage et similia.
In linea con tali rilievi sembra pertanto che la previsione del capoverso dell’art. 434 c.p. possa e debba essere inclusa più correttamente nel normotipo dei cd. delitti aggravati dall’evento.
Da una tale impostazione deriva una importante, logica conseguenza:
La condotta dell’agente deve essere tenuta ben distinta dall’evento in quanto tale che, per evitare tautologie ed impossibilità di distinzione tra le fattispecie in esame, dovrà necessariamente essere un accadimento naturalistico, in qualche modo verificatosi anche per contingenze eterodeterminate, e comunque esterno ed ulteriore rispetto alla azione.

Riassumendo, a rischio di sembrare ripetitivi, sulla base dei principi generali su enunciati deve ritenersi che:
• L’art. 434 primo comma c.p. integra un reato a cd. condotta anticipata, la cui punibilità risulta condizionata dalla configurabilità di un pericolo per la pubblica incolumità.
• Il capoverso dell’art. 434 c.p. non può essere considerato come una semplice circostanza aggravante del primo comma della medesima norma, con la conseguente impraticabilità di qualsiasi giudizio di bilanciamento con eventuali attenuanti.
• Le fattispecie in esame sono da considerarsi in progressione criminosa.
• L’evento di “crollo o altro disastro” deve necessariamente non essere voluto e quindi deve concretizzarsi in un accadimento ulteriore e diverso, ben distinto dall’agire dell’agente.


La esatta inquadrabilità normativa delle condotte contestate.
a. inconfigurabilità del reato di cui all’art. 434 capoverso c.p.
Secondo l’originaria impostazione accusatoria è stato sostenuto che l’avvenuta deturpazione della montagna interessata dalle illecite escavazioni della Beton Meca costituisse un “disastro ambientale”.
Orbene, dalla lettura della contestazione sembra ricavarsi che, nella prospettazione del Pubblico Ministero, il “disastro ambientale” provocato da una irrazionale ed illecita coltivazione di una cava (purchè interessante un fronte di notevoli dimensioni) possa essere incluso nell’ampio novero degli “altri disastri” descritti nella fattispecie in esame, con la conseguenza che, nel caso di specie, sarebbe stato perpetrato il grave reato contemplato dall’art. 434, secondo comma c.p.
Una tale impostazione, per quanto suggestiva, non può essere condivisa.
Per comprendere le ragioni di tali conclusioni appare opportuno fornire la giusta definizione della nozione di “altri disastri”.
Al fine di attribuire l’esatto significato al termine in esame sembra utile e risolutivo riportare in parte qua le testuali parole della Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale: “la disposizione dell’art. 440 (ora 434), nella parte che riguarda altri disastri, ha carattere integrativo: essa, cioè è destinata a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme di questo titolo concernente la tutela della pubblica incolumità. ( in Manzini, Trattato di diritto penale Italiano tomo VI, p.321 n.7).
Come si vede, pertanto, la chiara ed inequivoca intenzione del legislatore del 1930 fu quella di utilizzare tale dicitura proprio come una vera e propria norma di chiusura.
Ciò anzitutto consente certamente di affermare che il termine in esame risulta del tutto svincolato dalla necessaria verificazione di un crollo, inteso nella accezione tradizionale del termine (secondo la tesi piu’ restrittiva altro disastro=crollo di entità diverse dalle costruzioni).
Paradossalmente, però, proprio l’ampiezza di tale accezione impone di applicare rigidi criteri interpretativi che consentano di fornire una definizione del reato che risulti in linea con la sua struttura, collocazione codicistica e limiti edittali.
Orbene, proprio per tali ragioni, ribadendo quanto suindicato, deve ritenersi che la nozione in parola evochi necessariamente il verificarsi di un accadimento naturalistico esterno che risulti solo mediatamente in relazione con la condotta posta in essere dall’agente.
Probabilmente condividendo tale impostazione si è giunti da affermare che sussista il reato in parola nell’ipotesi in cui si cagioni un disastro automobilistico (Cass. 8 giugno 1954 n. 753), o teleferico o di ascensore (Rel Min. Cit. La caduta di un ascensore privato può, in determinate circostanze, per il numero delle persone lese o esposte al pericolo, essere considerata un disastro, pur non rientrando nelle ipotesi specifiche previste nelle disposizioni di questo titolo), o, ancora, si cagioni la invasione di zone abitate con lava vulcanica etc.
Come si vede, quindi, anche i sostenitori della tesi piu’ estensiva finiscono con il collegare la sussistenza del reato ad ogni possibile accadimento purchè abbia capacità devastanti, si aggiunga naturalisticamente alla azione ed abbia -in qualche maniera- possibilità di nocumento progressive ed ingravescenti rispetto alla condotta medesima.
Seguendo tale impostazione è agevole concludere come, nel caso in esame, non sia possibile ritenere che la vasta ed irrazionale escavazione di una montagna a fini di sfruttamento estrattivo, possa di per sè sola costituire il reato di cui all’art. 434 secondo comma c.p.p..
Al fine di ritenere integrata tale fattispecie, infatti, occorrerebbe che la illecita escavazione abbia avuto delle ulteriori quanto non auspicate conseguenze (ad esempio il crollo del fronte di scavo, la esondazione irregolare di acque dai terreni sovrastanti et similia)
Giova ribadire che, solo con tale interpretazione sarà possibile salvaguardare la struttura e caratteristiche del reato in esame e renderla compatibile con i principi generali del diritto penale sostanziale.
Basti pensare che, per tutto quanto sopra detto, sotto un profilo subiettivo, solo tale interpretazione consente di tenere ben distinti i diversi atteggiamenti volontaristici richiesti dalla norma rispetto alla condotta (necessariamente dolosa e quindi voluta) ed il disastro (evento aggravatore necessariamente non voluto).
Di converso, qualora si volesse ritenere che la diffusa escavazione della montagna costituisca in sè il disastro (verificato), i diversi requisiti subiettivi finirebbero col confondersi rendendo praticamente impossibile anche la distinzione con altre e piu’ gravi fattispecie di reato.

b. Residuale configurabilità del reato di cui all’art. 434 primo comma c.p.
Ovviamente una volta escluso che il fatto contestato possa anche solo astrattamente integrare gli estremi del reato di danno di cui al capoverso dell’art. 434 , ciò certamente non esclude che possa ritenersi integrato il reato di pericolo di cui al primo comma della medesima norma atteso che , come detto, le due fattispecie devono essere considerate in rapporto di progressione criminosa.
In altre parole si tratta di stabilire se la escavazione e del tutto irregolare (con le modalità suindicate) di un esteso fronte di cava possa essere considerata una azione diretta a cagionare un crollo e/o un “altro disastro” di cui alla fattispecie in esame.
E’ appena il caso di aggiungere che, perchè ciò sia possibile, è necessario che risulti contemporaneamente realizzata la condizione obiettiva di punibilità prevista dal 434 primo comma c.p.; in altre parole occorre verificare che la attività posta in essere abbia creato un serio “pericolo per la pubblica incolumità”.
Orbene si ritiene che tali condizioni certamente sussistano nel caso di specie.
Anzitutto, infatti, per tutto quanto sopra detto, è stato dimostrato che l’attività posta in essere abbia concretamente creato le condizioni per un potenziale pericolo di crollo del fronte di cava. Giova ricordare che tanto risulta dalla analisi fattuale delle modalità di estrazione (fronti con altezze di oltre trenta metri e con pareti con andamento rientrante –addirittura oltre la verticale-).
In questo senso, pertanto, sembra configurabile la fattispecie dell’art. 434 c.p. nella sua accezione piu’ classica e meno problematica.
A ben riflettere, però, nel caso in esame deve ritenersi che la norma risulti analogamente violata sotto un profilo piu’ generale ed onnicomprensivo:
Giova ricordare, infatti, che l’istruttoria dibattimentale ha ampiamente dimostrato come la illecita attività di escavazione, per le sue caratteristiche ed estensione, fosse giunta a creare una vera e propria alterazione geomorfologica dell’area, cagionando un danno ambientale non altrimenti recuperabile se non provocando ulteriori e significative aggressioni del fronte montagnoso.
Orbene, deve ritenersi che tali definitive ed estese attività di deturpazione, avendo innegabili effetti incidenti sulle caratteristiche naturali della zona (quali ad esempio i ritmi morfoevolutivi, la circolazione delle acque, la stabilità dei versanti, l’equilibrio idrodinamico dei corsi di acqua sotteranei etc.) hanno il sicuro effetto di alterare i delicati (e dinamici) equilibri naturali e possono certamente e ragionevolmente essere ricomprese nel novero di condotte idonee a provocare un qualsivoglia “altro disastro” contemplato dalla fattispecie in esame (delle caratteristiche generali ed onnicomprensive della nozione si è già ampiamente parlato).
Non resta che ribadire che nel caso di specie sussiste ampiamente la prova che tale pericolo abbia potenzialità lesive estese nei confronti della pubblica incolumità.
Come ampiamente chiarito, infatti, la particolare zonizzazione della cava (area boschiva sovrapposta, strada provinciale sottoposta etc.). rendeva e rende ampiamente probabile che il possibile verificarsi di un qualunque disastro naturale costituisca un potenziale rischio per la incolumità di occasionali (quanto necessitati) frequentatori delle zone limitrofe.
In altre parole e riassumendo deve ritenersi che la causazione di un danno ambientale ( o se si preferisce di un disastro -secondo l’accezione proposta dal P.M.-) del genere di quello in contestazione, seppur non consente di ritenere verificata la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 434 c.p., costituisce una innegabile premessa logica e fattuale per prefigurare la verificazione di un disastro che si potrebbe definire naturale, purchè questo abbia potenzialità lesive estese in danno della pubblica incolumità (disastro ambientale + pericolo per la pubblica incolumità = pericolo di disastro naturale = art.434 primo comma c.p.).

La datazione delle condotte in contestazione.
Una volta stabilito come le condotte in contestazione siano inquadrabili esclusivamente nell’ambito del reato di cui all’art. 434 primo comma c.p. risulta inevitabile stabilire con certezza la esatta datazione di queste.
Appare innegabile, infatti, che mentre per la fattispecie di cui al capoverso della medesima norma occorra indicare in contestazione la sola data di verificazione dell’evento (disastroso), la diversa struttura del reato in esame imponga di contenere nella imputazione la esatta temporalizzazione delle condotte (da cui dipende anche la data di consumazione del reato).
Su queste premesse e richiamandosi a quanto sopra già ampiamente chiarito, deve ribadirsi che non risulta raggiunta alcuna prova dibattimentale che le condotte contestate siano state poste in essere anteriormente alla data indicata nella imputazione (14 luglio 1997); ciò sotto il duplice profilo che non risulta acclarata la esatta datazione della cessazione dell’attività estrattiva in epoca anteriore alla data contestata e, soprattutto, che non risulta in alcun modo dimostrato che l’attività di coltivazione posta in essere sino a quella data avesse effettivamente prodotto le deturpazioni utili ad integrare la fattispecie di reato.
Di converso si è già ampiamente chiarito come, a seguito della istruttoria dibattimentale, sia evidentemente emerso che una nuova ed ulteriore attività di estrazione (con le perniciose conseguenze suddescritte) sia stata posta in essere in epoca anteriore e prossima alle verifiche effettuate dai CTU e dalla PG (come detto risalenti al piu’ tardi all’estate del 1999).

Conclusioni.
Alla luce delle suesposte considerazioni deve pertanto concludersi che, per quanto concerne i rigorosi limiti temporali della contestazione formulata fino al luglio 1997 ( da cui il Tribunale deve necessariamente essere vincolato), entrambi gli imputati debbano essere mandati assolti perchè il fatto non sussiste.
Ciò evidentemente rende inutili ulteriori argomentazioni circa la diversa posizione subiettiva dei due imputati.
Per mero dovere di completezza deve comunque essere rimarcato che al Di Rauso Stefano, diversamente dal padre Michele (gravato da specifici precedenti penali), un eventuale giudizio di responsabilità avrebbe imposto la concessione delle circostanze attenuanti generiche ( con conseguente prescrizione del reato di cui al 434 primo comma c.p. purchè temporalmente circoscritto al luglio 1997).
Per quanto concerne, invece, i fatti accertati nel dibattimento (verificati nell’anno 1999) e rimasti fuori dalla contestazione iniziale ( che il P.M. non ha inteso integrare) gli atti devono essere trasmessi alla Procura sede, configurandosi gli estremi del reato di cui all’art. 434 primo comma c.p.p..
Sulla base delle risultanze dibattimentali tali condotte risultano accertate in data 13 settembre 1999 (epoca in cui fu effettuato il sopralluogo dai CTU nominati).
Non resta che aggiungere che per i reati di cui capi C ed E deve essere pacificamente pronunciata sentenza di non doversi procedere trattandosi di fattispecie per le quali risultano ampiamente decorsi i relativi termini prescrizionali.
Attesa la evidente complessità e specialità delle condotte in contestazione è stato necessario derogare agli ordinari termini per il deposito della motivazione, fissandoli in giorni 45, ai sensi dell’art. 544, terzo comma c.p.p.
PQM
Letto l’art.530, secondo comma, c.p.p. assolve Di Rauso Michele e Di Rauso Stefano dal reato loro ascritto al capo D) perchè il fatto non sussiste.
Letto l’art. 531 c.p., dichiara non doversi procedere nei confronti di Di Rauso Michele e Di Rauso Stefano in ordine ai reati loro ascritti ai capi C ed E essendo estinti per intervenuta prescrizione.
Ordina trasmettersi gli atti al P.M. per il reato di cui all’art. 434, primo comma, c.p., accertato il 13 settembre 1999.
Letto l’art.544, terzo comma, c.p.p., indica il termine di giorni quarantacinque per il deposito della motivazione della sentenza.
SMCV 6 dicembre 2005