Tribunale S.Maria C.V Uff. GUP sent.872 del 16 settembre 2011
Est. Caparco Imp. Apolloni ed altri
Ambiente in genere. Disastro ambientale

Disastro ambientale aggravato dall'evento. Elemento soggettivo. Dolo intenzionale. Necessità. Elemento oggettivo. "Fatto diretto a cagionare un altro disastro" di cui al comma 1 dell'art. 434, c.p. Assenza di condotte finalisticamente rivolte alla determinazione di gravi forme di inquinamento  del territorio. Insussistenza.
Differenza tra danno ambientale e disastro ambientale. Sussistenza del secondo solo quando l'inquinamento di un determinato ecosistema assurga al rango di una imponente contaminazione produttiva di  danno (con certezza di verificazione) o di  pericolo (concretamente accertato) per la pubblica incolumità.
Reato di avvelenamento di acque. Compatibilità con la colpa cosciente (previsione dell'evento confidando che esso non si verifchi). Sussistenza.
Analisi di campioni di cui all'art. 223, disp. att. al codice di procedura penale. Campionamento ed analisi effettuate nell'ambito di attività di polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari. Applicazione delle garanzie difensive di cui all'art. 360 e 369/bis, c.p.p. Necessità. Inutilizzabilità dei verbali di campionamento, prelievi ed analisi.
(segnalazione e massima avv. Gennaro Iannotti).

 

 

N. 6428/03 R.G.N.R. N. 1531/08 R.G. G.I.P.

N.872 /11Reg. sent.

 

TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE

UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L’anno duemilaundici, il giorno sedici del mese di settembre, il Giudice dell’Udienza Preliminare, dott. Giovanni Caparco, ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nei confronti di:

omissis

IMPUTATI

VD ALLEGATI

CONCLUSIONI

Per il P.M.: declaratoria di non luogo a procedere per i reati di cui ai capi A), D), E), F), G), H), I) ed L) per essersi gli stessi estinti per prescrizione e rinvio a giudizio degli imputati per i reati di cui ai capi B) e C) della rubrica.

Per le parti civili: rinvio a giudizio degli imputati;

Per i difensori: declaratoria di non luogo a procedere per insussistenza dei fatti di reato contestati ai singoli imputati ovvero per non aver commesso il fatto; in subordine declaratoria di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione per i fatti di cui ai capi A), D), E), F), G), H), I) ed L).

SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO

Il procedimento a carico degli imputati in epigrafe indicati si è articolato fino allo stato attuale in due fasi, della prima delle quali, conclusasi con sentenza del 13.04.2005 resa dal GUP di Santa Maria C.V., ritiene questo Giudice di dare comunque qui contezza onde consentire la più agevole intelligenza del complessivo svolgimento procedimentale esitato nella presente decisione.

A seguito di iscrizione al N. 23126/99 R.G.N.R., con corrispondente iscrizione al N. 36693/99 R.G.GIP, all’esito di una complessa attività investigativa, in data 26.05.2003 il P.M. chiedeva il rinvio a giudizio di Apolloni Valeria e di altri novantasei coindagati. dopo aver avanzato altresì due richieste di applicazione di misure cautelari personali che non trovavano accoglimento, giacchè rigettate dal GIP con ordinanze del 21.02.2001 e del 15.05.2001, con le quali il medesimo organo giudicante affermava tra l’altro la insussistenza di gravità indiziaria del delitto di cui all’art. 434, comma 2, e 439, c.p. sul quale assunto, a seguito di gravami esperiti dal P.M., si formava altresì giudicato cautelare.

Con decreto del 29.05.2003 il GUP fissava la data del 3.12.2003 per la celebrazione della udienza preliminare.

Seguivano una serie di rinvii resi necessari dalla necessità di perfezionare il procedimento di notifica dell’avviso di fissazione della udienza preliminare a tutti gli imputati e ai relativi difensori.

Instauratosi il rapporto processuale, all’esito di una parziale discussione ad opera delle parti, giacchè non effettuata dai difensori di tutti gli imputati, con sentenza n. 1225/05 del 13.04.2005 il GUP, ravvisando nei fatti contestati al capo A) della imputazione non il reato di cui all’art. 416 c.p., bensì quello di cui all’art. 416 bis c.p., dichiarava la propria incompetenza in favore del GIP presso il Tribunale di Napoli ex art. 51, comma 3 bis, c.p.p. e disponeva trasmettersi gli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.

Iscritto ivi il procedimento al N. 35393/05, il P.M. presso la DDA di Napoli, ritenendo non sussistenti nel caso di specie gli estremi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., avanzava richiesta di archiviazione parziale al G.I.P., il quale a sua volta, con conforme provvedimento del 24.10.2005, decretava l’archiviazione del procedimento <<in ordine al contestato reato di cui all’art. 416 bis c.p., con restituzione degli atti al P.M. in sede>> (cfr. decreto in atti).

Con nota del 17.11.2005, pervenuta al protocollo dell’Ufficio di Procura di S. Maria C.V. in data 22.11.2005, il P.M. presso il Tribunale di Napoli trasmetteva gli atti al P.M. presso il Tribunale di S. Maria C.V. così motivando: << trasmetto il procedimento in epigrafe numerato a carico di Apolloni Valeria + 96, rilevandosi – all’esito del decreto di archiviazione del GIP di Napoli del 24.10.2005 in ordine al reato di cui all’art. 416 bis - la competenza per territorio di codesto Ufficio in ordine ai reati di cui alla richiesta di rinvio a giudizio del 26.05.2003>>.

Con numero di procedimento 6528/03 R.G.N.R., il quale dalle annotazioni del RE.GE risulta in effetti essere derivato da uno stralcio operato dal P.M. in data 21.05.2003 dal N. 23126/99 R.G.N.R., in data 05.02.2008 il P.M. in sede avanzava nuova richiesta di rinvio a giudizio degli imputati in epigrafe indicati perché fossero chiamati a rispondere dei reati di cui in rubrica, loro rispettivamente ascritti, corrispondenti nella totalità alla richiesta di rinvio a giudizio del 2003.

Iscritto il procedimento al N. 1531/08 R.GIP, veniva fissata per la celebrazione della udienza preliminare la data del 17.10.2008.

Seguiva differimento in prosieguo alle udienze del 17.04.2009 e 2.10.2009 a causa del mancato perfezionamento della notifica dell’avviso di fissazione della udienza preliminare a tutti gli imputati e ai rispettivi difensori, operazione di notifica in verità rivelatasi assai complessa, come dimostrano le risultanze delle relate di notifica in atti e le conseguenti complicate attività di accertamento e di ricerca anagrafica eseguite dalla cancelleria, necessitate queste ultime anche dalla non corrispondenza alla attualità della residenza e del domicilio di molti imputati, dimoranti tra l’altro in diverse regioni e province d’Italia, alle relative indicazioni contenute nella richiesta di rinvio a giudizio e in altri atti del procedimento, come gli avvisi ex art. 415 bis c.p.p. effettuati circa otto anni prima, dai quali pur si è tentato di estrapolare elementi di informazione utili.

Molti degli imputati sono risultati, infatti, trasferiti o addirittura sconosciuti agli indirizzi indicati nella richiesta di rinvio a giudizio e negli altri atti contenuti nel fascicolo del P.M.

Nel contempo si è tuttavia cercato di por rimedio ad alcune situazioni di estrema difficoltà nella consultazione della poderosa produzione documentale da parte di questo Giudice, invitando l’Ufficio di Procura cui venivano trasmessi gli atti a procedere alla indicizzazione del fascicolo secondo le disposizioni di cui all’art. 3 del D.M. n. 334 del 1989, essendo stato lo stesso allegato alla richiesta di rinvio a giudizio senza il prescritto indice degli atti e delle produzioni.

L’avvenuto perfezionamento del procedimento di notificazione per un cospicuo numero di imputati lasciava apparire opportuna la disposizione della separazione delle relative posizioni, ciò che alla udienza del 26.02.2010 consentiva di procedere alle preliminari operazioni relative alla costituzione delle parti; venivano così affrontante e risolte numerose questioni relative alla ritualità della nuova richiesta di rinvio a giudizio, nonché in punto di ammissione della costituzione di parte civile di associazioni ambientaliste e di enti locali.

Per le altre posizioni veniva disposto rinvio alla udienza del 02.07.2010.

In ordine al primo troncone procedimentale così venutosi a determinare, alla successiva udienza del 28.06.2010, alla quale si giungeva a seguito di rinvio disposto in data 03.05.2010 in conseguenza della dichiarazione dei difensori di adesione alla astensione proclamata dalla Unione Camere Penali, terminate le questioni relative alla costituzione delle parti, essendo stata sollevata dalla totalità dei difensori l’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio per genericità della descrizione delle condotte contestate ai singoli imputati, questo Giudice, in ossequio al disposto dell’art. 423 c.p.p., letto alla luce del più recente orientamento della S.C. di legittimità, procedeva ad invitare il P.M. ad integrare i capi di imputazione, specie quelli di cui alle lettere A), B), e C) della rubrica, per le ragioni di cui all’ordinanza resa in pari data e alla quale sul punto espressamente si rimanda.

A detto invito il P.M. non ottemperava per l’udienza del 27.09.2010 all’uopo fissata, chiedendo nel contempo nella stessa sede rinvio onde poter procedere a tale adempimento, attesa la complessità dell’intera vicenda oggetto del procedimento.

Veniva così disposto differimento alla successiva udienza del 15.11.2010, nella quale, rigettata l’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio ribadita dai difensori pure all’esito della integrazione effettuata dal P.M., il Giudice dichiarava aperta la discussione ai sensi dell’art. 421 c.p.p.

Alla successiva udienza del 10.01.2011, verificata altresì la convergenza dei due tronconi procedimentali creatisi in virtù della separazione della posizione di alcuni imputati, ne veniva disposta la riunione, essendosi proceduto alla udienza del 02.07.2010 e del 27.09.2010 a verificare l’avvenuto perfezionamento della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare a tutti gli imputati, essendo state affrontate e risolte le questioni relative alla costituzione delle parti civili ed essendo stati integrati i capi di imputazione anche per le condotte ascritte agli imputati le cui posizione erano state separate.

In considerazione dell’elevatissimo numero di difensori, la discussione si articolava altresì nelle successive udienze dell’11.02.2011, 11.03.2011, 06.05.2011, differita poi al 03.06.2011 in conseguenza della dichiarazione dei difensori di adesione alla astensione proclamata dalla Unione Camere Penali, e del 16.09.2011, riservata quest’ultima altresì alla repliche del P.M.

Nel corso di dette udienze alcuni imputati chiedevano di essere sottoposti ad interrogatorio ovvero rendevano spontanee dichiarazioni.

Per mera completezza va evidenziato come in considerazione della complessità del procedimento e dell’elevatissimo numero di imputati e difensori, nonché della necessità di effettuare rinvii non eccessivamente distanziati per la risalenza nel tempo dei fatti oggetto del procedimento, le predette udienze del 03.05.2010, 02.07.2010, 27.09.2010, 15.11.2011, 10.01.2011, 11.02.2011, 11.03.2011, 06.05.2011 e 3.06.2011, cadenti nei giorni di lunedì, sono state tutte fissate e celebrate straordinariamente – previo reperimento della disponibilità di un’aula - rispetto alle previsioni tabellari relative al ruolo dello scrivente magistrato, il quale nel contempo ha regolarmente tenuto udienza preliminare ordinaria il venerdì di ciascuna settimana.

Alla udienza del 16.09.2011, avendo il P.M. rinunciato a replicare, dichiarata chiusa la discussione, all’esito della camera di consiglio il GUP pronunciava il dispositivo della presente sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va dichiarato non luogo a procedere per tutti gli imputati per il reato di cui al capo A).

Sotto tale profilo questo Giudice non può in primo luogo sottacere come circa la richiesta di rinvio a giudizio per la predetta ipotesi di reato, così come (ri)formulata dal P.M. in data 05.02.2008, i difensori degli imputati abbiano sollevato eccezione di bis in idem in riferimento a quanto statuito dal GUP presso questo Tribunale con la sentenza del 13.04.2005 già innanzi citata, con la quale lo stesso organo giudicante formalmente dichiarava la propria incompetenza in favore del GIP presso il Tribunale di Napoli ex art. 51, comma 3 bis, c.p.p., non prima però di aver sostanzialmente affermato la insussistenza nel caso di specie della fattispecie di cui all’art. 416 c.p. a fronte della ritenuta emergenza dagli atti di indagine degli elementi integranti la diversa ipotesi delittuosa di cui all’art. 416 bis c.p.p., ricostruzione successivamente non condivisa dalla Procura della DDA di Napoli e dal GIP presso il Tribunale di Napoli, il quale ultimo, su conforme richiesta del P.M., sul punto pronunciava decreto di archiviazione.

Questo Giudice ritiene tale eccezione fondata.

Invero, la lettura della motivazione della predetta sentenza, la quale non può essere certo ignorata nell’ambito di questa fase procedimentale, ne denuncia chiaramente la sostanziale natura di una sentenza di non luogo a procedere circa la imputazione formulata dal P.M. in ordine al capo A) della originaria richiesta di rinvio a giudizio del 2003 per insussistenza del fatto, giacchè in essa il Giudice, ad onta della formale declaratoria di esercizio dei poteri del GUP di procedere ad una diversa qualificazione giuridica del fatto, nel merito chiaramente afferma la insussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 416 c.p. per essere invece configurabile a suo giudizio il diverso fatto delittuoso di cui all’art. 416 bis c.p.

Non vi è dubbio, infatti, che l’operazione compiuta dal GUP non sia di mera riqualificazione giuridica, essendo nota la irriducibilità del reato associativo c.d. comune (416 c.p.) a quello mafioso (416 bis c.p.), trattandosi pacificamente di fattispecie autonome, caratterizzate da una specialità bilaterale e conseguentemente insuscettibili di reciproca consunzione o assorbimento (ex plurimis Cass. 2000/5405).

E tale opzione ermeneutica viene prospettata e sostenuta anche dal P.M. distrettuale, nonchè recepita poi dal GIP presso il Tribunale di Napoli in sede di decretazione dell’archiviazione del procedimento per la ipotesi di cui all’art. 416 bis c.p..

Invero, nella richiesta di archiviazione così è possibile leggere: <<…il fatto individuato dal GUP – il reato associativo mafioso – è dunque da ritenersi fatto diverso rispetto a quello contestato, sicchè la decisione del GUP condivide la natura, più propria, di sentenza di non luogo a procedere quanto al reato associativo comune e contestuale declaratoria di trasmissione degli atti al P.M. competente quanto al diverso reato individuato..>> .

Detta affermazione appare pienamente condivisibile a questo Giudice, giacchè dogmaticamente corretta, a ciò non ostando la lettera del dispositivo della sentenza in parola, dal momento che, come chiarito più volte dalla stessa S.C. di legittimità, dato il carattere unitario della sentenza, il contrasto (nel caso di specie in verità più apparente che reale) tra dispositivo e motivazione non può essere sempre risolto con il criterio della prevalenza del primo sulla seconda: infatti, pur assolvendo il dispositivo alla funzione di immediata espressione della decisione del giudice, la motivazione ne costituisce imprescindibile elemento di integrazione, concorrendo ad illustrare e a chiarire le ragioni della decisione e potendo contenere elementi univoci, oggettivi e logici che consentano di ritenere errato o carente il dispositivo o una parte di esso (ex plurimis Cass. 07/34986).

Stando così le cose, quindi, non avendo in alcun modo reagito alla sentenza n. 1225/05, il P.M. presso il Tribunale di S. Maria C.V., al quale gli atti venivano poi restituiti dalla procura distrettuale ex art. 54 c.p.p., non avrebbe potuto esercitare nuovamente l’azione penale per il medesimo fatto di reato, cioè l’associazione a delinquere c.d. comune di cui all’art. 416 c.p., già dichiarato insussistente dal GUP, reiterando sul punto la richiesta di rinvio a giudizio, ostandovi chiaramente il precedente pronunciamento: argomentando diversamente, quest’ultimo sarebbe del tutto inosservato ovvero si considererebbe tanquam non esset, soluzione alla quale in verità questo Giudice ritiene non potersi approdare, giacchè processualmente paradossale.

Ciò posto, va evidenziato come sia stato più volte ribadito dalla stessa S.C. di legittimità che una volta che la sentenza di non luogo a procedere non sia più soggetta ad impugnazione e non ricorra alcuna delle ipotesi previste dalla disposizione eccezionale, e perciò di stretta applicazione, dell’art. 345 c.p.p., la quale fa riferimento al sopravvenire della specifica condizione di procedibilità originariamente mancante, è precluso l’inizio dell’azione penale in ordine al medesimo fatto, sia pure diversamente qualificato, nei confronti della medesima persona (Cass. 9.05.2000, Ciapanna).

Ma ad ogni buon conto, volendo anche prescindere da tale assorbente ed insuperabile dato di fatto processuale, questo Giudice non può che ribadire quanto in effetti già evidenziato dal GUP con la predetta sentenza n. 1225/05 del 13.04.2005 circa la insussistenza nel caso di specie degli estremi del reato di cui all’art. 416 c.p. e segnatamente di un programma criminoso teso alla commissione di un numero indeterminato di delitti.

Invero, l’associazione ipotizzata e descritta dal P.M. nella richiesta di rinvio a giudizio del 2008, la cui operatività è in contestazione indicata dallo stesso P.M. fino al 2000, ha come suo programma-scopo quello della perpetrazione di una serie di reati in materia ambientale e segnatamente circa l’attività di smaltimento e gestione dei rifiuti.

Orbene, è noto che la disciplina normativa vigente fino al 2001 prevedeva in ordine alle condotte assoggettate a sanzione panale in subiecta materia solo ipotesi contravvenzionali e non già delittuose, risalendo la prima previsione in tal senso al 2001, con l’avvenuta introduzione nell’ordinamento giuridico penale del delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti ad opera della legge 93/2001.

Pertanto, eventuali associazioni, se pur eventualmente sussistenti ed individuabili sotto il profilo della struttura organizzativa e del pactum sceleris, in caso di connotazione di quest’ultimo come volto alla commissione di una serie di reati di natura contravvenzionale, non appaiono affatto riconducibili alla operatività della previsione dell’art. 416 c.p., la quale espressamente assoggetta a sanzione penale l’associazione di tre o più persone allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti.

Né nel caso di specie può superarsi tale dato di fatto facendo surrettiziamente assurgere a scopo dell’associazione delitti in materia di falso documentale o addirittura di disastro ambientale e di avvelenamento delle acque, giacchè essi appaiono nella stessa tessitura dell’ordito accusatorio solo come reati strumentali all’attuazione del programma (falsi documentali) ovvero reati conseguenza, non programmati in maniera indeterminata, né evidentemente perseguiti come scopo dagli associati.

Infine, per mera completezza, va evidenziato come la ipotesi di reato configurata dal P.M. al capo A) della imputazione sarebbe comunque estinta per prescrizione, come da richieste conclusive rassegnate dallo stesso Ufficio di Procura e in epigrafe trascritte, e ciò ancor prima della nuova richiesta di rinvio a giudizio del 05.02.2008.

In ordine alla imputazione di cui ai capi B) e C) della rubrica, sia nella originaria formulazione del 2008 che in quella successiva alla integrazione richiesta al P.M. con ordinanza del 28.06.2010, ritiene preliminarmente questo Giudice che l’eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di S. Maria C.V. sollevata dai difensori degli imputati in ordine al reato di disastro ambientale e avvelenamento delle acque contestati come verificatisi in altre provincie e regioni d’Italia rispetto alla provincia di Caserta sia infondata.

Invero, in punto di contestazione, tra gli eventi di disastro e di avvelenamento delle acque, considerati connessi ex art. 12 lett. a) e lett. b) c.p.p., quelli afferenti al territorio casertano si palesano evidentemente più gravi o per quantità di rifiuti sversati o per estensione dell’area interessata rispetto a quanto prospettato per le province di Napoli, Reggio Calabria, Terni, Arezzo e Sassari.

Pertanto, risultando in definitiva più grave il delitto di cui all’art. 439 c.p. che avrebbe interessato la provincia di Caserta, il Tribunale di S. Maria C.V. è quello cui appartiene la competenza a conoscere dei fatti oggetto del procedimento ai sensi dell’art. 16 c.p.p.

Ciò posto, passando ad esaminare il profilo della prognosi del vittorioso esperimento dell’azione penale per le imputazioni di cui al capo B) e C) della rubrica, a parere di questo Giudice va in primo luogo sottolineato come le condotte contestate agli imputati di disastro ambientale ed avvelenamento delle acque si palesano riconducibili alle previsioni di cui agli artt. 449 c.p. e 452 c.p., cioè caratterizzate e sorrette dall’elemento psicologico della colpa e non già del dolo, sicché, in tal senso riqualificate le stesse, i reati in parola risultavano già prescritti al momento della reiterazione delle richiesta di rinvio a giudizio del 5.02.2008.

Anzi, per le argomentazioni che subito saranno esplicitate, addirittura il delitto di cui al capo B), specie nella forma aggravata di cui all’art. 434, comma 2, c.p., si palesa giuridicamente non configurabile e quindi insussistente.

Invero, come chiarito anche assai di recente dalla S.C. di legittimità, circa la fattispecie di cui all’art. 434 c.p. il dolo, pur potendo atteggiarsi come eventuale con riguardo al pericolo per la pubblica incolumità, è intenzionale rispetto all’evento di disastro, sicchè solo qualora ricorra tale ultima peculiare connotazione dell’elemento psicologico del reato un soggetto potrà essere chiamato a rispondere ed essere considerato responsabile del delitto doloso di disastro ambientale, aggravato altresì dal verificarsi dell’evento (Cass. 2010/1332).

E come è noto, il particolare atteggiamento della volontà del soggetto agente ascritto dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla categoria del c.d. dolo intenzionale è da considerarsi sussistente nei reati di evento solo allorquando sia possibile ritenere ed affermare che il soggetto abbia avuto di mira proprio la causazione di quell’evento, in guisa tale che la sua realizzazione costituisca l’obbiettivo finalistico (che non va confuso altresì con il movente) che ha dato causa alla condotta.

Ma in più, rispetto alla medesima fattispecie criminosa di cui all’art. 434 c.p., la S.C. è stata altresì chiara nell’indicare che, richiedendo la tipizzazione codicistica per la sussistenza del reato che l’agente commetta un “fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro”, allorquando il fatto consumato sia stato posto in essere non per conseguire questi risultati, ma per conseguire un’altra finalità, viene meno non solo l’elemento soggettivo, ma anche l’elemento oggettivo del reato, il quale, per la sua integrazione, richiede appunto un fatto diretto a cagionare crolli o altri disastri (Cass. 09/41306).

Ciò posto, in ossequio a tali principi questo Giudice non può non evidenziare come, sotto il profilo della volontà dell’evento di (ipotetico o possibile) disastro, dal materiale investigativo le cui risultanze sono poste a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio non emergano affatto elementi che consentano di ritenere che gli imputati o anche solo alcuni di essi abbiano posto in essere azioni o omissioni finalisticamente volte e dirette alla determinazione di un gravissimo inquinamento di una parte del territorio casertano o di altre zone d’Italia, connotantesi quale evento straordinariamente grave e complesso, con potenza espansiva incontrollabile tale da concretizzare pericolo di detrimento alla salute di un numero indeterminato di persone, perseguendo quindi proprio tale scopo quale risultato della propria condotta.

Essi appaiono, infatti, aver chiaramente agito per finalità diverse, coincidenti cioè con la instaurazione e perpetrazione di un illecito sistema di gestione e smaltimento dei rifiuti, il cui movente è poi chiaramente individuabile nella realizzazione di risparmi sotto forma di riduzione dei costi, ma nulla di più nella prospettiva teleologica.

E che tale situazione sia in realtà sottesa allo stesso complessivo ordito accusatorio prospettato dal P.M. emerge anche dalla formulazione delle imputazioni e contestazioni effettuate dall’Ufficio di Procura ai singoli imputati, come precisate alla udienza del 15.11.2010: invero, all’esito della necessaria combinata lettura del capo B) e del capo A), emerge con evidenza come, al di là del mero riferimento alla <<serie di azioni dirette a cagionare un vero e proprio disastro ambientale>> contenuto nel capo B), il quale tuttavia senza integrazione con il capo A) sarebbe un quid vacui, nessuna delle condotte specificamente ascritte e contestate agli imputati (capo A richiamato nel capo B) appare avere e rivestire la precipua caratterizzazione e direzione finalistiche innanzi descritte, necessarie ad integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 434 c.p., per essere invece con evidenza tutte ispirate ed orientate alla perpetrazione con illecite modalità di attività di gestione, conferimento e smaltimento di rifiuti.

Pertanto, pur volendo per un attimo dare per scontata l’avvenuta verificazione di disastro ambientale, cosa che come appresso si dirà non appare nel caso di specie riscontrata da un apparato probatorio idoneo e sufficiente ai fini dell’accoglimento sul punto della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, essendo il delitto di cui all’art. 434 c.p. incompatibile con il dolo eventuale rispetto all’evento di disastro per la precipua caratterizzazione normativa dell’elemento soggettivo come intenzionale su tale punto, come a chiare lettere ribadito anche recentemente dalla S. C. di legittimità (Cass. 10/1332; Cass. 09/41306), la fattispecie concreta oggetto del presente procedimento apparirebbe più propriamente riconducile alla ipotesi delittuosa di disastro ambientale colposo di cui all’art. 449 c.p., magari connotata dal più grave dei possibili atteggiamenti dell’elemento psicologico de quo, ossia la c.d. colpa cosciente o con previsione, la quale risulterebbe tuttavia estinta per prescrizione e ciò già prima del febbraio del 2008, data della richiesta di rinvio a giudizio, essendo per la fattispecie di cui all’art. 449 c.p. prevista la pena edittale pari nel massimo a cinque anni di reclusione.

È lo stesso è a dirsi per il delitto di inquinamento delle acque destinate all’alimentazione, il quale, a prescindere dal dato delle effettiva sussistenza o meno di prove della verificazione di tale evento nel caso di specie, risulterebbe comunque atteggiantesi sotto il profilo dell’elemento soggettivo come colposo e quindi, così riqualificato, risulterebbe anch’esso estinto per prescrizione maturata anche in tal caso già prima della richiesta di rinvio a giudizio del febbraio del 2008, atteso che per lo stesso delitto è prevista la pena edittale massima di tre anni di reclusione (art. 452, comma 1, n. 3 c.p.).

Orbene, già tale crinale argomentativo a parere di questo Giudice impone una declaratoria di non luogo a procedere nei confronti degli imputati per estinzione del reato per intervenuta prescrizione in ordine ai delitti di cui ai capi B) e C), così come sopra riqualificati.

Tuttavia, ferma ed impregiudicata tale preliminare ed assorbente questione, pur volendo rimanere ancorati alla contestazione del delitto di disastro ambientale nella forma dolosa, così come formulata dal P.M., vi sono argomentazioni che a parere dello scrivente è comunque necessario esplicitare ed evidenziare sotto il profilo della insufficienza nel caso di specie di elementi di prova che consentano di pronosticare il vittorioso esperimento dell’azione penale in ordine alla affermazione della sussistenza dell’elemento oggettivo della fattispecie di reato del disastro ambientale aggravato dal verificarsi dell’evento (art. 434, comma 2, c.p.) e dell’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione.

Sotto tale profilo una prima valutazione da effettuare è quella riguardante le imputazioni di cui ai capi B) e C) per la parte relativa agli eventi di disastro ambientale che avrebbero interessato territori diversi da quelli della provincia di Caserta, le quali in parte qua si palesano del tutto prive di riscontro probatorio, giacchè in detti luoghi, e segnatamente nelle province di Napoli, Reggio Calabria, Terni, Arezzo e Sassari, non risulta essere stata effettuata alcuna indagine di natura tecnica.

Invero, le emergenze probatorie che in ordine alle imputazioni di cui al capo B e C) il P.M. ha posto a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio e in tale atto sul punto espressamente richiamate, in particolare le analisi degli organi amministrativi e la consulenza tecnica, riguardano solo il territorio casertano.

In tale prospettiva, quindi, l’assunto accusatorio del disastro ambientale e dell’avvelenamento delle acque nei territori di province di Napoli, Reggio Calabria, Terni, Arezzo e Sassari ovvero “di altri comuni d’Italia” non può che considerarsi del tutto sfornito di prove idonee a sostenere l’accusa in giudizio, sicchè per tale parte della contestazione appare evidente la impossibilità di procedere oltre.

A tutto concedere, nulla consentendo - si ribadisce - anche solo di ipotizzare l’avvenuta verificazione di un disastro ambientale quale concretizzazione dell’aggravante di cui all’art. 434, comma 2, c.p., l’eventuale avvenuta perpetrazione di meri fatti diretti a cagionare un disastro con pericolo per la pubblica incolumità integrerebbe un fatto di reato (art. 431, comma 1, c.p.) prescritto al momento della richiesta di rinvio a giudizio del 2008.

Restano da esaminare, dunque, le condotte illecite che hanno avuto attinenza e che avrebbero potuto dunque causalmente determinare un evento o un rischio di disastro nella provincia di Caserta.

A parere di questo Giudice, in tale prospettiva occorre evidenziare in primo luogo come in ordine all’intercettato flusso di rifiuti confluito presso la Bitumitalia S.p.a., con sede in Napoli, ultimo ricettore per la maggior parte dei flussi di rifiuti provenienti da varie industrie del nord d’Italia, secondo le stime effettuate dagli inquirenti sulla base però di meri dati documentali, nulla induce a ritenere, giacchè nulla prova, che lo stesso sia stato nella sua totalità dirottato nella provincia di Caserta.

Inoltre, come appresso ancora si dirà, anche il riferimento di alcune discariche ivi rinvenute alla illecita attività di gestione perpetrata dai soggetti facenti in qualche modo capo a Bitumitalia viene operato sulla base di presunzioni prive di qualsivoglia riscontro oggettivo, considerate anche dal GIP che ebbe ad occuparsi della vicende in sede cautelare come non aventi pregio neppure indiziario.

Pertanto, già tali considerazioni ridimensionano la reale portata del fenomeno ipotizzato dal P.M. al capo B), giacchè lasciano agevolmente comprendere come i dati quantitativi dello sversamento di rifiuti di origine industriale nel territorio casertano indicati in imputazione, per quanto concerne precipuamente i fatti oggetto del presente procedimento, non siano effettivi, ciò che a sua volta spiega notevole rilievo sulle stesse considerazioni e argomentazioni effettuate dal consulente del P.M. che ha fondato il suo operato e le sue stime proprio su tali informazioni.

In ogni caso, è fuori di dubbio che il dato indicato nel capo B) della imputazione, cioè quello dell’avvenuto sversamento di 500.000 tonnellate di rifiuti, non trova alcun valido riscontro o addentellato probatorio, laddove di contro negli atti del procedimento, specie nella consulenza tecnica, ma anche ad esempio nella richiesta di applicazione di misure cautelari personali redatta dal P.M., il riferimento, anch’esso non suffragato poi da dati certi, diretti ed incontrovertibili, è a quindicimila tonnellate di rifiuti nella zona interessata dalle discariche abusive sottoposte a sequestro.

E non può questo Giudice sottacere come tale dato appaia in sé meno allarmante dell’avvenuto contestato sversamento, ad esempio, di 350.000 quintali, 35.000 tonnellate cioè, a Gioia Tauro, Graffignano e Alviano, ovvero di 100.000 quintali, 10.000 tonnellate cioè, a Foiano della Chiaia (cfr. capo B della rubrica così come integrato in data 15.11.2010), territori nei quali non è stata esperita alcuna indagine di carattere tecnico e dove gli stessi inquirenti non hanno neppure ritenuto di dover procedere alla verifica della avvenuta realizzazione o meno di un evento di disastro di proporzioni straordinariamente gravi e complesse che invece una quantità di rifiuti addirittura inferiore o di poco superiore avrebbe invece cagionato in provincia di Caserta.

Per quanto concerne, poi, i fatti che hanno interessato detto territorio appare opportuno evidenziare come una possibile e rischiosa suggestione dalla quale lo scrivente ha dovuto adoperare ogni sforzo per essere immune è quella di leggere i fatti contestati agli imputati nell’ambito del presente procedimento alla luce di eventi di devastazione del territorio verificatisi anche negli anni successivi a quelli oggetto di contestazione, i quali sono senza dubbio il frutto di una complessa convergenza di molteplici fattori ed azioni umane, molte delle quali aventi certamente rilievo anche per il diritto penale, ma che non possono considerarsi affatto collegati o connessi in una propstetiva processualmente rilevante ed apprezzabile con quelli oggetto del presente procedimento.

E in tal senso emblematiche appaiono le numerose inchieste coordinate dall’Ufficio di Procura di S. Maria C.V. in materia di reati ambientali, tutte relative però a fatti più recenti.

Inoltre, sempre nella prospettiva di una disamina processuale obbiettiva ed immune da possibili condizionamenti afferenti alle complessive dinamiche sociologiche o anche più propriamente criminologiche caratterizzanti un determinato ambito territoriale, le quali non devono e non possono influenzare valutazioni di natura squisitamente giurisdizionale, appare opportuno evidenziare ulteriormente che le indagini relative ai fatti su cui si è appuntata l’attenzione degli investigatori nell’ambito della operazione denominata “Cassiopea” non hanno rivelato alcuna attinenza degli stessi con fenomeni e contesti camorristici, ad onta dei generici accenni a tale profilo contenuti nella parte finale della informativa conclusiva, la quale consta sul punto però di mere considerazioni non fondate su alcun comprovato elemento di riscontro processualmente utilizzabile: d’altro canto, la caratterizzazione mafiosa della associazione ipotizzata dagli inquirenti e contestata al capo A) della rubrica è stata esclusa dallo stesso Ufficio della DDA di Napoli, come in precedenza già evidenziato, laddove le decine di centinaia di conversazioni telefoniche intercettate nel corso delle indagini preliminari non hanno lasciato emergere alcun elemento indicativo di contatti degli imputati produttori di rifiuti o intermediari, così come degli stessi autori materiali degli sversamenti, con esponenti di consorterie criminali di stampo camorristico notoriamente operanti nel territorio casertano.

E certamente sarebbe utopistico pensare, fino al punto da essere addirittura augurabile, che tutto il fenomeno della gestione e dello sversamento illeciti di rifiuti che ha interessato nel corso del tempo la provincia di Caserta si sia esaurito oggettivamente, soggettivamente e cronologicamente in quanto emerso a seguito della attività degli organi inquirenti nell’ambito dell’operazione denominata “Cassiopea”, laddove è di estrema evidenza che lo stesso abbia avuto ed abbia purtroppo ancora allo stato attuale una espansione di più ampia portata cronologica, soggettiva, quantitativa e qualitativa, per la maggior parte, quantomeno in termini di pericolosità per la salute umana, riconducibile a fatti anche e forse soprattutto successivi alla collocazione temporale di quelli oggetto del presente procedimento.

E d’altro canto, basti pensare che nel contesto investigativo che in questa sede interessa e rileva, il caso emblematico preso in considerazione dal consulente del P.M. e fatto oggetto di apposito studio, come appresso meglio si dirà, quello cioè di Località Canale di S. Maria La Fossa, non ha rivelato <<evidenti tracce di contaminazione diretta del suolo da parte dei materiali solidi abusivamente smaltiti nei terreni adiacenti alla discarica >>, laddove tutto il materiale ivi sversato, se anche il dato delle diecimila tonnellate di rifiuti fosse attendibile, ciò che tuttavia non è per la ragioni che saranno in prosieguo esplicitate, sarebbe contenibile in una ipotetica buca di 30x30x8,5 m, come calcolato a titolo esemplificativo dal consulente dei difensori di alcuni imputati, facendo riferimento alla densità di circa 2 kg/dm3 per 7.500 metri cubi, indicati questi ultimi dallo stesso consulente del P.M., cioè una piccolissima discarica.

E ciò solo per fornire una qualche coordinata di riferimento dimensionale del fenomeno oggetto di attenzione in questa sede, attesa la necessità di sgombrare il campo dall’equivoco di ritenere che le condotte ascritte agli soggetti imputati nell’ambito del presente procedimento abbiano riguardato l’intero ed allarmante fenomeno del traffico illecito di rifiuti in Campania.

Deve tra l’altro ribadirsi, poi, che neppure l’attribuzione della realizzazione delle discariche assoggettate a sequestro a S. Maria La Fossa e a Castel Volturno ai medesimi soggetti imputati nel presente procedimento sia dato certo ed incontrovertibile, in alcuni casi, i quali sono in verità la maggior parte, palesandosi lo stesso assunto fondato su presunzioni prive di valido riscontro oggettivo.

Ciò posto, per quanto concerne precipuamente il merito della contestazione di cui al capo B) in relazione ai territori della provincia di Caserta, ritiene questo Giudice che gli elementi posti a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio non siano sufficienti a sostenere l’accusa per il reato di cui all’art. 434, comma 2, c.p., non emergendo da essi prova dell’avvenuta verificazione fino all’anno 2000 – attesa la contestazione del P.M. - di eventi ascrivibili al concetto di disastro ambientale rilevante nella prospettiva della predetta norma dell’art. 434 c.p., letta soprattutto alla luce della elaborazione giurisprudenziale degli anni più recenti.

E tale considerazione vale, a parere di questo Giudice, a prescindere dal dato - che pur non può essere del tutto sottaciuto - della già evidenziata insussistenza di risultanze investigative che consentano di affermare che tutto il materiale ascrivibile alla categoria dei rifiuti illecitamente conferiti nelle discariche o siti allocati nella provincia di Caserta sia stato ivi sversato da soggetti riconducibili alla gestione del c.d. “flusso Bitumitalia” ovvero che tutti i rifiuti acquisiti da quest’ultima attraverso i flussi intercettati dagli organi inquirenti per avviare al riutilizzo ed invece illecitamente smaltiti, secondo le risultanze degli esami e comparazioni documentali effettuati dalla P.G., sia stato conferito nei medesimi luoghi.

Il riferimento è in particolare all’area sita in Località Canale di S. Maria La Fossa assoggettata a sequestro in data 23.02.2000, all’area sita in Località S. Vincenzo di S. Maria La Fossa assoggettata a sequestro in data 23.08.2000, all’area sita in Località Cabina Cirio di S. Maria La Fossa assoggettata a sequestro in data 21.09.2000 e all’area sita Località Arbustello di S. Maria La Fossa assoggettata a sequestro in data 22.11.2000, per le quali l’attribuzione della realizzazione della discarica abusiva al Tessitore Giovanni o agli altri soggetti individuati come autisti e attraverso di loro alla Bitumiltalia e quindi a tutti i produttori che attraverso vari canali hanno conferito in Bitumitalia appare fondato esclusivamente su induzioni basate sul dato dalla omogeneità dei rifiuti o addirittura della vicinanza ai siti ove effettivamente il Tessitore o altri soggetti imputati avevano illecitamente sversato materiali tossici e nocivi, in assenza tuttavia di qualsivoglia altro riscontro oggettivo.

Ma pur prescindendo da tale dato, va evidenziato comunque come nella prospettiva dell’avvenuta verificazione di un disastro ambientale, attesa la contestazione della fattispecie di cui al comma secondo dell’art. 434 c.p. da parte del P.M., l’unico elemento di prova sia rappresentato dalla consulenza tecnica espletata dal prof. Andrea Buondonno a seguito di incarico conferitogli dallo stesso P.M. in data 16.06.2000, teso ad accertare la natura tossico-nociva dei rifiuti smaltiti nelle discariche abusive sequestrate nel territorio casertano, la sussistenza di danni potenziali ed attuali arrecati all’ambiente, possibili iniziative di bonifica e se <<per le dimensioni, la quantità dei rifiuti e i danni prodotti si possano delineare per la zona oggetto di smaltimento le condizioni di disastro ambientale>>.

Orbene, a parere di questo Giudice, la lettura dell’elaborato redatto dall’ausiliario del P.M., epurata dalla inevitabile suggestione provocata dal riferimento agli scenari allarmanti prospettati nelle conclusioni rassegnate, non consente di affermare la sussistenza di prove sufficienti ovvero idonee a provare l’avvenuta verificazione dell’evento di danno necessario ai fini della integrazione della ipotesi di cui al comma secondo dell’art. 434 c.p.

Infatti, come chiarito dalla giurisprudenza della S.C. di legittimità, al fine della configurabilità del delitto di disastro ambientale è necessario che l’evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità sia straordinariamente grave e complesso, anche se non eccezionalmente immane: è necessario cioè che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che l’eccezionalità della dimensione dell’evento desti un esteso senso di allarme.

Ed ancora, pur non essendo richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte e lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, è necessario tuttavia verificare, accertare e comprovare l’avvenuta rovina di queste ultime e l’effettiva insorgenza da essa di un pericolo grave per la salute collettiva.

In particolare, nella prospettiva che in questa sede precipuamente interessa, è possibile identificare danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tali da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, pur non essendo necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo (cfr. Cass. 06/40330 e successive pronunce conformi).

Non ogni danno ambientale, dunque, e non ogni fatto produttivo di inquinamento è suscettibile di essere ascritto al concetto di disastro quale evento contemplato dall’art. 434, comma 2, c.p., ma solo quello che abbia le caratteristiche appena descritte.

Pertanto, laddove la ingenerata situazione di inquinamento di un determinato ecosistema (che è la res che viene in rilievo nel caso di danno ambientale) non si palesi così straordinariamente grave e complessa da assurgere al rango di una imponente contaminazione concretamente accertata e non solo ipotizzata o ipotizzabile (caso concreto esaminato da Cass. 08/9418 dove l’accertamento era stato effettuato in concreto), allora giuridicamente non si sarà in presenza dell’avvenuta realizzazione dell’evento di disastro necessaria ai fini della integrazione della aggravante di cui all’art. 434, comma 2, c.p., bensì eventualmente di un fatto diretto a cagionare un disastro, nella specie ambientale, rilevante nella prospettiva di cui al comma primo dell’art. 434 c.p., il quale pure dovrà a sua volta essere produttivo di pericolo per la pubblica incolumità concretamente accertato, essendo anche la fattispecie di cui al medesimo primo comma dell’art. 434 c.p. di pericolo concreto e non già di pericolo astratto o presunto.

In altri termini, la mera emergenza di detta situazione di pericolo concreto per la pubblica incolumità, se è necessaria ai fini della integrazione della fattispecie di cui all’art. 434, comma 1, c.p. (chiunque…. commette un fatto diretto a cagionare …..un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità…), non è però sufficiente a configurare l’evento di cui al comma secondo della medesima disposizione normativa, richiedendosi a tal fine il quid pluris dell’accertata imponente e straordinariamente grave e complessa situazione di contaminazione.

Pertanto, ove l’analisi del fenomeno, successiva alla condotta ed antecedente alla cessazione del pericolo, prospetti la probabilità in base a leggi scientifiche di verificazione di lesione della vita e della integrità fisica di un numero indeterminato di persone, ciò non consente di predicare tout court l’avvenuta verificazione di un disastro nella prospettiva di cui all’art. 434, comma 2, c.p., per la quale integrazione è invece necessario l’accertamento in concreto della imponenza della situazione di contaminazione, la quale deve essere straordinariamente grave e complessa.

D’altro canto, ad argomentare diversamente, finendo per far coincidere l’avvenuta verificazione del disastro con la mera insorgenza di una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, mal si comprenderebbe la differenza e la distinzione tra l’ipotesi contemplata dal primo comma dell’art. 434 c.p. e quella di cui al relativo capoverso, la quale, secondo autorevole dottrina, integrerebbe addirittura non già una aggravante ma una autonoma fattispecie di reato.

Ciò posto, questo Giudice rileva come il consulente del P.M. così letteralmente si esprimeva sintetizzando le conclusioni della sua prima relazione: << gli atti illeciti di smaltimento in oggetto hanno determinato condizioni di rischio che prefigurano un disastro ambientale di notevole portata, ad elevatissimo rischio attuale e potenziale per la salute umana, animale e vegetale, nonché per la qualità dell’ambiente>>.

Orbene, come condivisibilmente evidenziato anche dal GIP che ebbe ad occuparsi della vicenda in sede cautelare nel 2001, già il lessico utilizzato dal consulente appare poco congeniale all’assunto accusatorio concretizzatosi nella contestazione dell’aggravante di cui all’art. 434, comma 2, c.p., giacchè <<prefigurare significa rappresentare eventi futuri, quindi non attuali>>: le condizioni di rischio riferite dal tecnico, quindi, appaiono più propriamente prospettare la possibilità di una imponente contaminazione (art. 434, comma 1, c.p.), ma non già esplicitare l’avvenuta concretizzazione ti tale evento (art. 434, comma 2, c.p.), nulla in verità significando la distinzione tra rischio attuale e potenziale, giacchè il rischio è sempre prospettazione probabilistica di eventi futuri.

E nella struttura normativa della fattispecie di cui all’art. 434, comma 2, c.p., come già detto, affermato e comprovato il rischio di lesione ovvero il pericolo per la pubblica incolumità, l’evento di disastro deve invece essere non solo probabile ma certo nella sua verificazione.

Invece, leggendo con attenzione l’elaborato redatto dal consulente del P.M., a parere di questo Giudice ci si rende immediatamente conto che in realtà l’apocalittico scenario prospettato dall’ausiliario appare solo futuribile, possibile e probabile, tra l’altro con percentuali di rischio non precisate e quindi non apprezzabili, e non già concreto ed effettivo con i caratteri indicati dalla stessa S.C. di legittimità appena innanzi ricordati.

Invero, le proposizioni assertive sopra trascritte, in uno a quelle che si riscontrano nel corso di tutta la relazione tecnica, non appaiono rispecchiare quanto effettivamente accertato e sperimentato in concreto con analisi tecniche e specifiche effettuate sul campo, sicchè le stesse, all’esito di un’accorta disamina dell’iter operativo seguito, si palesano in realtà apodittiche o quantomeno meramente induttive e prive di idoneo riscontro tecnico-scientifico.

E che quella appena prospettata sia la giusta interpretazione delle conclusioni cui è giunto l’ausiliario del P.M. si palesa con tutta evidenza leggendo in particolare l’ultima parte della relazione depositata in data 28.09.2000, ove il medesimo consulente suggerisce di disporre <<la determinazione dell’indice di contaminazione dei suoli contigui ai siti di discarica secondo una griglia di rilevamento a raggiera, con prelievi in superficie e profondità (ndr che quindi non sono stati effettuati) estesa fino all’accertamento nel suolo di valori inferiori alla soglia critica dei metalli pesanti considerati>>, <<il controllo periodico della presenza dei metalli pesanti nei pozzi aziendali e nei sedimenti del fiume Volturno a valle dei siti di discarica abusiva>> (ndr che però non sono stati effettuati all’attualità), <<l’analisi periodica del sangue e del latte delle bufale allevate in prossimità dei siti di discarica, al fine di rilevare la presenza di metalli pesanti e/o evidenziare alterazioni fisiopatologiche riconducibili all’effetto tossico-nocivo dei metalli pesanti>> (n.d.r. che quindi non sono state fatte all’attualità), dal momento che solo <<successivamente a tali fasi di potrà disporre…la stima del danno ambientale>>.

Quindi, nessuna valutazione circa la concreta verificazione di un disastro nella accezione giuridicamente rilevante appare possibile effettuare alla stregua di quanto accertato dall’ausiliario, in assenza di una effettiva, attuale e reale stima del danno.

Anche all’esito degli esami suppletivi demandati dal P.M. al proprio consulente successivamente al rigetto della prima richiesta di misura cautelare e dallo stesso relazionati nel c.d. “supplemento di consulenza”, il tecnico, pur affermando in tesi che <<le quantità di cadmio e di piombo abusivamente smaltite nell’area studio hanno determinato un disastro ambientale che assume imponenti connotazioni di tossicità per l’ambiente stesso, per i vegetali, per gli animali e per l’uomo>>, ciò sostiene però dopo aver espressamente riferito che <<sugli appezzamenti della località Canale non si riscontrano evidenti tracce di contaminazione diretta del suolo da parte dei materiali solidi abusivamente smaltiti>>, facendo poi discendere deduttivamente il riferito disastro dalla avvenuta constatazione del fatto che gli <<appezzamenti di terreno venivano irrigati con acque prelevate in loco dal fiume Volturno>>, le quali a loro volta sarebbero state esposte a <<rischio di intossicazione ed avvelenamento>> a causa di una parte di terreno franata nello stesso corso d’acqua, la quale tra l’altro, come appresso anche si dirà, non è dato comprendere come sia stata calcolata dall’ausiliario nella sua estensione e nella sua consistenza.

Pertanto, pur a prescindere dal mancato accertamento della presenza di tracce di cadmio e piombo nelle acque del fiume, la quale operazione non verrà effettuata neppure dall’altro consulente del P.M., prof Alfredo Parrella in occasione dell’analisi delle acque del fiume Volturno, non v’è chi non veda come il tutto consentirebbe allora di discutere sempre e solo in termini di potenzialità e quindi di rischio di contaminazione di eccezionale intensità e dimensione spaziale, di possibilità o probabilità di avvelenamento straordinariamente grave e complesso e non di situazioni di tal genere accertare ed acclarate: contaminazione ed avvelenamento di cui non si ha e non si fornisce indicazione alcuna circa l’esatta attuale dimensione e portata, accertate con verifiche effettuate sul campo, perché sono probabili (il rischio nulla è se non la misura della probabilità), sicchè in nessun modo e sulla base di nessun dato possono ritenersi di ampiezza e di intensità tali da risultare in concreto straordinariamente gravi e complessi nella loro avvenuta reale e concreta connotazione.

In altri termini, in punto di verificazione di un evento di disastro, non appare essere stata fornita alcuna informazione utile ed idonea a stimare la eccezionale ampiezza ed la intensità della effettiva contaminazione dei siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli e di falde o fonti acquifere, giacchè non è stata indicata la quantità di suolo, acqua e vegetali realmente avvelenati per effetto dell’illecito sversamento dei rifiuti, trasparendo di contro come nessun accertamento concreto sia stato effettuato in tale prospettiva, giacchè i dati indicati all’uopo dal consulente si palesano come l’evidente precipitato di induzioni, deduzioni e stime di probabilità o di verosimiglianza, ma non già di specifici accertamenti.

L’ausiliario del P.M., infatti, nella prima relazione, dopo aver affermato che <<i danni ambientali immediatamente riconducibili allo smaltimento abusivo dei materiali in oggetto consistono certamente nella diretta contaminazione degli strati superficiali e profondi dei suoli su cui gli stessi materiali sono stati deposti>>, riferisce che solo <<molto verosimilmente>> gli stessi danni si sono concretizzati anche <<nella contaminazione dei suoli viciniori, delle acque di falda e dei tratti del fiume Volturno>>, discorrendo poi di acque di falda solo <<eventualmente contaminate>>, senza che l’avvenuta effettiva contaminazione sia stata oggetto di apposito accertamento, altrimenti lo stesso consulente avrebbe potuto affermare con certezza e non già in termini di verosimiglianza e quindi sempre e solo di probabilità che i suoli vicini alle discariche erano contaminati, così come le fonti o falde idriche o i corsi d’acqua superficiali.

Anzi, nel supplemento di consulenza, dove il quadro viene quasi inspiegabilmente prospettato come ancora più allarmate, il medesimo ausiliario del P.M. riscontra che ove l’accertamento è stato da lui effettivamente eseguito, nel caso-studio cioè, ossia presso un solo sito di discarica addirittura considerato emblematico, le predette previsioni sono apparse sconfessate, non avendo egli trovato conferma della ipotesi formulata ed avendo invece ottenuto in realtà dimostrazione proprio del contrario, dal momento che <<sugli appezzamenti della località Canale non si riscontrano evidenti tracce di contaminazione diretta del suolo da parte dei materiali solidi abusivamente smaltiti>>.

Ma in verità, gli stessi dati usati come grimaldelli del ragionamento induttivo esitato in affermazioni probabilistiche e di verosimiglianza, quali il trasposto da parte del vento della frazione granulometrica più fine, la tipologia dei suoli, la superficialità della falda in zona, nonché la possibilità di collegamenti della stessa con il fiume il Volturno e i pozzi irrigui, pur risultando affermati, non risultano comprovati da test di analisi dell’aria, da carotaggi, esami della composizione e della caratteristica del terreno e simili.

In definitiva, quindi, al di là delle allocuzioni terminologiche, il consulente rileva e prospetta in sostanza al più la probabile o verosimile contaminazione di una vasta parte del territorio e di componenti dell’ecosistema, ma non già la contaminazione effettivamente verificata ed accertata con le connotazioni imprescindibilmente necessarie ad integrare il disastro ambientale secondo la direttrice ermeneutica sul punto tracciata dalla stessa S.C. di legittimità, come sopra ricordata, ciò che poi comproverebbe al più l’avvenuta insorgenza di un pericolo per la pubblica incolumità, ma non già la verificazione dell’evento di cui all’art. 434, comma 2, c.p.

D’altro canto, sotto il profilo in esame non può essere sottaciuta la circostanza secondo cui, mentre da un lato il consulente del P.M. afferma che si è verificato un disastro ambientale, sia pure nei termini prima indicati (ma egli non è un giurista), dall’altro, anche all’esito del supplemento di indagine suggerisce di accertare mediante analisi <<chimico-pedologighe l’effettiva estensione in superficie e profondità della contaminazione dei suoli>>, sostanzialmente ammettendo quindi di non aver compiuto alcuna verifica in tal senso, ciò che tra l’altro incontrovertibilmente mina in radice la stessa attendibilità dei dati numerici e quantitativi che lo stesso consulente afferma invece in termini di certezza nella stessa relazione.

O ancora, le stesse sconcertanti dimensioni di avvelenamento dell’ambiente prospettate dal medesimo tecnico appaiono essere il chiaro frutto di valutazioni ipotetiche allorquando egli suggerisce di accertare mediante analisi <<chimico- agrarie lo stato di contaminazione dei vegetali presenti>>.

Ma ancora e forse con rilievo addirittura assorbente, rispetto alle considerazioni sin qui svolte, va evidenziato come lo stesso procedimento che appare essere stato seguito dal consulente onde addivenire alla conclusione innanzi trascritta riportata nella seconda relazione (c.d.“supplemento di consulenza”), nonché alla determinazione e indicazione di dati numerici rappresentativi della probabile estensione e della probabile intensità del fenomeno di contaminazione, è consistito nell’esame di uno soltanto dei siti assoggettati a sequestro da parte della P.G., definito <<caso-studio>> e ritenuto <<emblematico>> per ragioni che il tecnico in verità non ha inteso esplicitare, laddove non si può sottacere che in loco in realtà lo stesso ausiliario ebbe a rinvenire effettivamente solo due cumuli di rifiuti di trenta metri cubi ciascuno, salvo poi indugiare anche in spiegazioni circa la dispersione nell’ambiente della restate parte di rifiuti che egli, in accordo con il NOE, senza però aver proceduto ad autonomi riscontri, ritiene si stata ivi sversata, esprimendosi tuttavia con veri e propri assiomi, specie per quanto concerne la parte asseritamente caduta o trasportata nel fiume Volturno.

Precisamente, si tratta del sito di Località Canale di S. Maria La Fossa, dal quale il consulente provvedeva a prelevare dei rifiuti dai cumuli ivi presenti per verificare la presenza in essi di metalli pesanti e in particolare di piombo e cadmio, quest’ultimo considerato come caratterizzato da un alto coefficiente di mobilità <<nell’agro-ecosistema>>.

Sorge qui addirittura il dubbio che il consulente abbia proceduto a prelevare in realtà un solo campione, giacchè questa volta, contrariamente a quanto fatto in precedenza nella prima relazione per i campioni prelevati nelle singole discariche, non indica alcuna media, ma solo gli esiti delle <<analisi condotte sui materiali>>, senza che tra l’altro di esse e prima ancora dei prodromici prelievi vi sia documentazione alcuna, ciò che le rende altresì competa mete inutilizzabili in una prospettiva probatoria dibattimentale, esprimendo il risultato il mg/Kg e procedendo poi ad effettuare una moltiplicazione per 10000 tonnellate.

Ma d’altro canto, se vi erano solo due cumuli di rifiuti, non poteva il tecnico effettuare più di due prelievi: ad ogni buon conto le analisi non sono relative alle 10.000 t (4.000 m3), ma solo a 30 m3, cioè 60 t e quindi assolutamente non rappresentative.

Ma ad ogni buon conto, verificate in maniera non controllabile a posteriori le concentrazioni dei predetti metalli presenti nel campione da lui prelevato, a tutto concedere relativo comunque a soli trenta metri cubi, l’ausiliario del P.M. le ha poi moltiplicate per la quantità di rifiuti che secondo gli accertamenti effettuati dalla P.G. sarebbero stati illecitamente sversati nel terreno, desumendo così coefficienti di contaminazione da piombo e cadmio di tutta l’area e quindi, sulla scorta di tali coefficienti, le quantità di acqua, suolo e vegetali contaminabili.

Ma parere di questo Giudice non v’è chi non veda come il procedimento seguito dal consulente non sia affatto condivisibile e suscettibile di validazione nella prospettiva di una valutazione di idoneità probatoria, ciò che rende in parte qua la consulenza da lui espletata elemento di prova non idoneo, già in fase prognostica, a costituire prova dei fatti da dimostrare in un giudizio dibattimentale.

Invero, come evidenziato anche dal consulente di parte di alcuni imputati (vd relazione dott. Bonamin), ma come in verità già sostenuto dal GIP che ebbe a vagliare tali dati in sede cautelare, l’analisi di un unico caso-campione ovvero a tutto concedere di una campione- tipo le cui modalità di determinazione anche mediana non sono state esplicitate e comunque relativo a prelievi effettuati su una piccola frazione della quantità ipotizzata dall’ausiliario come sversata, utilizzata così quale base dalla quale poi giungere induttivamente ad una affermazione di carattere generale, non possa considerarsi operazione metodologicamente corretta al fine di precostituire una prova della avvenuta contaminazione di una porzione di territorio eccezionalmente vasta: non v’è chi non veda come lo stesso sillogismo ad essa sotteso appare fondato su un assioma non dimostrato e privo di qualsivoglia elemento di riscontro e cioè quello per cui la concentrazione percentuale di metalli pesanti presenti nella discarica della Località Canale sia sempre la stessa per tutta l’estensione della discarica medesima, giacchè nulla dimostra che tutti i rifiuti ivi presenti avessero la medesima provenienza.

Ma vi è di più: nulla induce a ritenere che anche la concentrazione percentuale di metalli pesanti presenti in tutti i rifiuti illecitamente sversati negli altri siti assoggettati a sequestro sia sempre la stessa.

D’altro canto, sotto tale profilo basti considerare che il sito in questione fu sottoposto a sequestro probatorio dai Carabinieri del NOE in data 23.02.2000 in esecuzione di un decreto emesso dal P.M. sulla base degli esiti delle analisi chimiche effettuate dall’ASL CE 1, eseguite su campioni ivi prelevati, senza che tuttavia dei rifiuti ivi presenti fosse accertata o anche solo indicata la provenienza.

Né l’attribuzione della realizzazione a soggetti imputati nell’ambito del presente procedimento appare sorretta da alcun elemento, anche solo indiziario, essendo evidentemente il sequestro stato eseguito successivamente allo sversamento, laddove nessuna analisi chimica attendibile dà ragione della omogeneità con i rifiuti rinvenuti in altri siti.

Ma anche a prescindere da tale considerazione, lo stesso calcolo matematico effettuato dal consulente non appare eseguito utilizzando parametri e dati certi, ricavati cioè da operazioni di misurazione obbiettive ed effettuate con metodo scientifico non contestabile in punto di quantità di rifiuti ed estensione dell’area contaminata.

L’ausiliario, infatti, nell’effettuare il calcolo del cadmio e del piombo sversati nell’area esaminata, pervenendo così ad un risultato di 3590 Kg per il primo e 180549 Kg per il secondo, risulta aver moltiplicato le percentuali rinvenute nel campione per 10000 t sul presupposto che i rifiuti occupassero 4000 mc, senza indicare in che modo egli abbia rilevato tali valori, se non dichiarandosi in proposito in <<accordo con l’informativa del NOE>>, la quale in proposito svolge però deduzioni fondate su dati documentali e non già empirici estrapolati e ricavati da misurazioni e stime ancorate ad accertamenti sui luoghi oggetto di attenzione investigativa.

Anzi, arrivando alla successiva conclusione secondo cui con i rifiuti sversati in loco siano stati contaminati 7500 mc di terreno, il consulente sembra aver tenuto conto anche della quantità dello stesso terreno caduta nel fiume Volturno, come da lui in realtà poi esplicitamente indicato, senza specificare in quale maniera egli abbia potuto effettuare la relativa misurazione.

Infine, giova evidenziare e sottolineare come gli allarmati dati numerici che il consulente fornisce per riferire dell’avvenuta verificazione secondo la categoria concettuale da lui utilizzata di un disastro ambientale si riferiscono a quantità di acqua, suolo e vegetali contaminabili in astratto, ma non già contaminate effettivamente: pertanto, la verificazione di un evento di straordinarie proporzioni apprezzabili nella prospettiva del concetto di disastro ambientale giuridicamente rilevante si palesa sempre e solo possibile, ma non già effettiva.

E a tale ultimo proposito deve questo Giudice evidenziare come agli atti ha rinvenuto un documento denominato “rapporto preliminare” del supplemento di consulenza, trasmesso al P.M. via fax il 01.03.2001, dove, nell’indicare le dimensioni del disastro ipotizzato dal medesimo consulente egli riferisce di “avvelenamento di piombo” e “avvelenamento da cadmio”, ciò che potrebbe indurre o aver indotto a pensare che si tratti di dati relativi a fenomeni concretamente verificatisi, ma così evidentemente non è.

Infatti, nella relazione definitiva del “supplemento di consulenza” datata 15.03.2001, il medesimo consulente chiarisce sul punto, utilizzando altra terminologia (…”il piombo può avvelenare”… il “cadmio può avvelenare”), che quei dati sono ipotetici, indicativi cioè di possibilità e non già di contaminazione effettivamente avveratasi e in tal guisa accertata.

In virtù di tutto quanto precede, dunque, va ribadito che le condotte di sversamento dal punto di vista oggettivo, ferme ed impregiudicate le questioni già affrontate in punto di elemento soggettivo, integrerebbero atti diretti a cagionare un disastro con pericolo per la pubblica incolumità (art. 434, comma 1, c.p.)

Ed appare appena il caso di evidenziare come, in uno al consulente, alle medesime conclusioni espressive di probabilità e rischio pervengano anche le relazioni del Settore Ambiente, Ecologia e Territorio della Provincia di Caserta sullo stato dell’ambiente.

Anzi, sotto tale profilo non può non evidenziarsi come gli stessi enti amministrativi, sulla scorta del comprensibile allarme suscitato dalla relazione del prof. Buondonno loro trasmessa dal P.M. e ai cui accertamenti esplicitamente si richiamano, abbiano ulteriormente accentuato ed aggravato lo scenario, senza però effettuare alcun ulteriore riscontro oggettivo in tal senso.

A titolo meramente esemplificativo, infatti, basta leggere la relazione del dirigente del Settore Ambiente, Ecologia e Protezione Civile di Caserta del 2.03.2011 nella quale la “verosimile contaminazione delle falde acquifere” prospettata dal consulente del P.M. diventa l’apodittico “certo avvenuto avvelenamento” delle acque di falda e di quelle superficiali del Volturno, non suffragato da ulteriori specifici accertamenti rispetto a quelli (in verità non) effettuati dal consulente del P.M.

In realtà, lo stesso autore della relazione riferisce della necessità di accertamenti analitici, che dichiara altresì in corso, <<per rivelarne il grado di tossicità>>, ma di essi non vi è traccia in atti, sicchè nulla comprova anche per tale via l’avvenuto accertamento della effettiva contaminazione delle falde acquifere o delle acque superficiali.

Ma vi è ancora da osservare come condivisibilmente il consulente dei difensori di alcuni imputati, il chimico dott. Vladimiro Bonamin, abbia sollevato critiche in ordine alla attendibilità dei test di cessione effettuati dal consulente del P.M., evidenziando in primo luogo come in tal caso lo stesso nella prima relazione di consulenza abbia fatto riferimento a valori medi senza indicare su quali e su quanti campioni la stessa media sia stata calcolata.

In altra prospettiva non ha determinato o quantomeno non ha indicato il riferimento al cromo esavalente, ma solo il cromo totale, laddove è noto come prevalentemente il primo abbia potenzialità inquinanti significative in determinate concentrazioni.

Circa l’analisi delle forme mobili dei metalli pesanti mediante estrazione in acido acetico 0,5 M, nulla il consulente risulta aver poi specificato in ordine al metodo di analisi ed il rapporto di cessione, né il pH di inizio e fine estrazione, apparendo poi assai singolare la possibilità di estrazione acida da un rifiuto precedentemente classificato dallo stesso ausiliario del P.M. come “fortemente alcalino”.

Ma a prescindere da ciò, questo Giudice, su indicazione dei difensori degli imputati che hanno fatto ovviamente riferimento a quanto evidenziato dal loro consulente, ha avuto modo di verificare che i metodi ufficiali per i rifiuti vigenti all’epoca (cfr. deliberazione del Comitato Interministeriale del 14 luglio 1986) prevedevano che per un rifiuto prettamente inorganico – ed in particolare per i rifiuti da altoforno, acciaierie e fonderie – venisse usato il test in acqua satura per CO2, mentre il test in acido acetico era previsto per tutti i rifiuti organici o misti o che andavano in discariche miste.

E il metodo predetto in verità risulta essere stato utilizzato dal LIP dell’ASL di Caserta nella effettuazione dei test di cessione i cui esiti sono riportati nei certificati in atti, i quali, per quelli in acqua satura di CO2 evidenziano valori, con minime eccezioni, inferiori o di poco superiori ai limiti soglia.

Ma ancor di più, alla stregua del metodo di cessione in acido acetico di cui alla deliberazione interministeriale 14 luglio 1986, il rapporto di diluizione sarebbe stato di 1:20 e non già di 1:2,50 come indicato dal consulente del P.M., sicchè, assumendo i valori di Cd, Cu, Cr e Pb dichiarati dal medesimo consulente sul rifiuto “tal quale”, l’estrazione massima sarebbe stata di gran lunga inferiore rispetto a quanto indicato nella tabella da lui elaborata.

Invero, il dott. Bonamin ha realizzato una ulteriore tabella nella quale vengono messe a confronto le cessioni “dichiarate” dal consulente tecnico del PM con la cessione massima che teoricamente avrebbero dei rifiuti con contenuti di Cd, Cr, Cu e Pb pari a i valori medi, minimi e massimi indicati dal medesimo consulente del P.M. (valori espressi in ppm):

 

 

 

 

Tab. 3 CT del PM

contenuto sul tal quale

Tab. 4 CT del PM

cessione dichiarata

massima cessione teorica

Cd

Medio

359

122

17,95

Min

318

94

15,9

Max

412

164

21,05

Cr

Medio

1860

1

2

Min

778

<0,005

38,9

Max

2460

93

123

Cu

Medio

1787

90

89,35

Min

1600

26

80

Max

2163

170

108,15

Pb

Medio

18054

2400

902,7

Min

9937

700

496,85

Max

28910

3540

144,5

 

Appare evidente allora come i dati indicati dal consulente del P.M. risultino difficilmente accettabili in quanto superiori nella maggior parte dei casi al limite di cessione massimo teoricamente possibile: d’altro canto, gli stessi risultano non corrispondenti a quelli del LIP di Caserta in acido acetico, i quali sono notevolmente più bassi, dalle dieci alle cento volte.

Il consulente riferisce ancora di un rischio di contaminazione ambientale per il cromo, laddove però i valori da lui trovati sono inferiori o uguali al limite della tabella A della vecchia “legge Merli”, limite che per il Cr III era pari a 2 mg/l, laddove per il Cr VI (cromo esavalente) il valore limite di riferimento per la concentrazione soglia di contaminazione, ancora allo stato attuale ex D.Lgs 152/2006, è di 0,50 mg/l, affermando poi che, con riguardo al contenuto di rame, cromo, piombo e cadmio, sia per la quantità totale che per la mobilità dei metalli stessi, nonché per le caratteristiche chimico fisiche e meccaniche si evidenzierebbero caratteristiche di tossico-nocività e pericolosità.

Ma tale conclusione pur appare in verità singolare, solo ove si consideri che per inertizzare un rifiuto contaminato da metalli pesanti bisogna alcalinizzarlo, come accade ad esempio proprio per il cromo esavalente che si tende a neutralizzare con decadimento in soluzione alcalina: pertanto, se lo stesso tecnico ha riscontrato la caratteristica fortemente alcalina dei rifiuti analizzati e/o dell’ambiente circostante, come dallo stesso riferito, assai difficilmente gli stessi possono poi essere considerati mobili in punto di cessione.

E ancora, la stessa estrema pericolosità” dei rifiuti affermata dal consulente appare dubbia, specie per il cadmio e il piombo, ciò che si palesa con evidenza confrontando i valori massimi indicati nella tabella innanzi trascritta con i limiti fissati dalla decisione 94/904/CE, che è stata allegata in copia alla relazione tecnica del consulente degli imputati, la quale ha istituito l’elenco europeo dei rifiuti pericolosi all’epoca vigente.

Detto elenco, recepito in Italia dal D.lgs. n. 22/1997, è dichiaratamente fondato sulla presunzione che i rifiuti elencati posseggano una o più delle caratteristiche puntualmente stabilite all’art. 1 della decisione comunitaria in parola, la quale in particolare prevede la soglia di 0,1% (1.000 ppm) per le sostanze classificate come molto tossiche (quali i composti del cadmio) o cancerogene di prima e seconda categoria, nonché la soglia del 3% (30.000 ppm) per le sostanze classificate come tossiche (quali i composti del piombo).

Di conseguenza, anche la riferita “abnorme” concentrazione di metalli pesanti “altamente tossici” nei rifiuti, in uno alla affermata elevata mobilità del cadmio, si rivela non del tutto meritevole di condivisione.

Questo Giudice non ha potuto, invero, non prendere in considerazione quanto evidenziato dal consulente degli imputati circa il fatto che il consulente del P.M., facendo riferimento ad una categoria in verità non prevista dal legislatore, quella di “rifiuto altamente tossico”, nella valutazione delle concentrazioni unifica metalli diversi e così considerati dalla stessa disciplina normativa.

Tra i metalli presi in esame, infatti, solo il cadmio è classificato come <<molto tossico>> alla concentrazione limite dello 0,1% (1.000 ppm), laddove il piombo, che è l’altro metallo su cui ha appuntato l’attenzione l’ausiliario del P.M., è classificato come <<tossico>> e nell’art. 1 della decisone CE 94/904/CE già citata, ha una soglia del 3% (30.000 ppm): i valori di concentrazione indicati dal consulente, quindi, anche nei massimi, non appaiono scientificamente definibili come “abnormi”, se non altro perché non superano le soglie fisiologiche.

E quanto alla mobilità del cadmio, le considerazioni del consulente del P.M. non appaino coerenti con risultati del LIP di Caserta, palesandosi in verità non giustificabili dalla chimica del cadmio in ambiente alcalino, come già in precedenza osservato.

In virtù di quanto precede, quindi, non appaiono sussistere elementi che consentano di stimare la intensità della contaminazione dell’ecosistema oltre che la estensione della stessa concretamente verificatesi , le quali, come già più volte detto, devono essere straordinariamente gravi e complesse onde integrare gli estremi del disastro innominato ambientale di cui all’art. 434 c.p.

Ma questo Giudice nella prospettiva in esame ritiene di effettuare ancora ulteriori considerazioni nel senso della insussistenza o comunque della insufficienza di elementi che consentano di pronosticare il vittorioso esperimento dell’azione penale in riferimento alla fattispecie di cui all’art. 434, comma 2, c.p.

Invero, in assenza di più specifiche indagini condotte in loco e di accertamenti di fattori palesanti l’estensione e la intensità della compromissione dell’ecosistema oggetto di attenzione investigativa, tale dato non può ricavarsi, nemmeno presuntivamente, dall’avvenuto accertamento statistico del superamento dei cc.dd. “limiti soglia” per le concentrazioni di materiali pericolosi, tossici o nocivi.

Infatti, come evidenziato dalla più autorevole dottrina in materia, le cui argomentazioni sono state poi recepite e fatte proprie anche dalla S.C. di legittimità, le agenzie regolamentatrici fissano i valori massimi consentiti per la presenza di sostanze tossiche nella terra, nell’acqua, nell’aria e negli alimenti, i c.d. “limiti soglia”, conducendo tale operazione in seguito alla individuazione del livello al quale non si verifica nessun effetto dannoso conosciuto o previsto per la salute delle persone; si applica poi un “fattore di sicurezza” che fa scendere quel livello ad un limite normalmente inferiore di dieci, cento o addirittura mille volte e si individua così il limite soglia.

Due sono, dunque, i criteri impiegati per definire detti limiti: l’individuazione del livello di “nessun effetto dannoso osservato e previsto” e la applicazione di un fattore di sicurezza che consente di stabilire, ad un livello più basso, il limite soglia.

Ciò posto, appare evidente come, se i parametri normativi sui livelli di concentrazione delle sostanze tossiche costituiscono limiti soglia, misure cioè di tutela ultracautelare del bene protetto, il loro superamento non possa costituire di per se solo la prova anche della esistenza anche del solo pericolo, il quale, specie qualora debba atteggiarsi in termini di concretezza, impone sempre una dimostrazione reale e non ipotetica della pericolosità della condotta (cfr. per l’affermazione di tali principi Cass. 06/855).

Tali considerazioni, quindi, a parere di questo Giudice privano di pregio nella prospettiva in esame anche le argomentazioni effettuate dal consulente del P.M. in termini di biodisponibilità nel supplemento di relazione, specie ad esempio in punto di concentrazioni di piombo nei vegetali disponibili per l’alimentazione.

Né a diversa conclusione si perviene esaminando la relazione del Dipartimento di Scienze della Vita della Seconda Università di Napoli circa lo stato del fiume Volturno, le cui risultanze non appaiono affatto idonee a dimostrare l’effettiva verificazione di un evento di disastro ambientale nelle zone del casertano oggetto degli illeciti sversamenti di rifiuti fino all’anno 2000.

Infatti, a prescindere dalla considerazione secondo cui l’accertamento dello stato di inquinamento del Volturno e del Calore non equivale all’accertamento e quindi alla possibilità di affermazione di inquinamento di tutto l’ambiente, con compromissione potenziale di tutte le specie di vita animale e vegetale, nella predetta relazione non viene individuata come unica causa dell’inquinamento del corso d’acqua lo sversamento illecito di rifiuti, venendo tale stato di fatto espressamente indicato quale conseguenza di due diversi fattori, quello batteriologico e quello tossico, laddove quest’ultimo a sua volta viene rappresentato quale risultanza dell’azione di più fattori inquinanti, quali la zootecnia, la agricoltura e quindi le discariche di rifiuti tossici.

E d’altro canto, il riferimento agli scarichi abusivi contenuto nella relazione in parola è effettuato per relationem alla consulenza del P.M., affermando l’estensore dello stesso documento di aver avuto notizia della recente scoperta di discariche abusive, nulla però accertando o anche solo accennando circa la effettiva presenza di cadmio e piombo che invece il consulente del P.M. ha considerato quali fondamentali fattori inquinanti.

Invero, riscontrando tossicità anomala nella zona di S. Maria La Fossa, lo stesso prof. Parrella, autore della relazione, afferma che essa <<potrebbe essere determinata dal dilavamento dei suoli a ridosso del Volturno in quanto è recentissima la scoperta di scarichi di fonderia nel territorio comunale in questione e in quello di Grazzanise ricchi in metalli pesanti, specie cadmio e piombo>>, ma nessuna analisi specifica volta a verificare la effettività di tale situazione e della riconducibilità alla effettiva presenza di tali metalli pesanti nelle acque del fiume risulta aver egli stesso condotto.

Alla stregua di quanto precede, quindi, questo Giudice non può non evidenziare la totale insufficienza di elementi di prova tali da poter sostenere l’accusa in giudizio a carico di nessuno degli imputati per il delitto di cui all’art. 434, comma 2, c.p.

Nella prospettiva invece della eventuale ascrizione della fattispecie concreta alla ipotesi di cui all’art. 434, comma 1, c.p., sopra già divisata, va evidenziata l’avvenuta prescrizione di tale eventuale fatto di reato già al febbraio 2008, data della reiterazione della richiesta di rinvio a giudizio, per avvenuto decorso del termine massimo di prescrizione di sette anni e mezzo.

In una prospettiva strettamente processuale, poi, deve questo Giudice evidenziare come la situazione di insufficienza e a volte di contraddittorietà o di inidoneità probatoria innanzi più volte ribadita in ordine alla sussistenza della aggravante di cui all’art. 434, comma 2, c.p. non si palesa affatto suscettibile di superamento, né in sede di udienza preliminare con l’esercizio dei poteri e l’utilizzazione degli strumenti di integrazione probatoria di cui all’art. 422 c.p.p., né in sede dibattimentale.

Non v’è chi non veda come una eventuale perizia disposta a molti anni di distanza non avrebbe alcun senso e alcun significato nella prospettiva probatoria, giacchè la stessa res oggetto di indagine è per sua natura suscettibile di modifica nel corso del tempo, soggetta altresì all’azione di una serie di fattori, alcuni dei quali sicuramente altamente inquinanti.

Né tale constatazione appare superabile argomentando dal fatto che le discariche abusive sono state assoggettate a sequestro, anche probatorio, giacchè ciò non è garanzia di immodificabilità, palesandosi la mutazione nel caso di specie in re ipsa, atteso che ogni ecosistema si modifica in virtù anche del mero decorso del tempo, non solo dal punto di vista biologico, ma anche mineralogico per effetto degli inevitabili processi chimici non solo organici, ma anche inorganici che sono alla base dello stesso inarrestabile ciclo di trasformazione della materia che compone tutto l’universo sensibile.

Ma pur volendo ritenere che i siti assoggettati a sequestro non abbiano subito alcuna modifica per effetto del tempo, bisognerebbe pur provare, con onere in verità palesantesi quasi diabolico, la totale insussistenza di interventi umani, specie di ulteriori sversamenti anche sui terreni vicini a quelli sequestrati.

Ma anche a voler prescindere pure da tali considerazioni, va osservato come assoggettati a sequestro siano stati solo i siti adibiti a discariche abusive, piccole frazioni di territorio quindi, non già l’intera area di notevole estensione ed ampiezza che sarebbe dovuta essere oggetto di contaminazione, altresì di notevole intensità, concretamente accertata, tanto da palesarsi straordinariamente grave e complessa, la cui sola effettiva compromissione avrebbe consentito di parlare nel caso di specie, non solo di danno ambientale, ma bensì di disastro in una prospettiva non già meramente chimico-biologica, ma giuridicamente rilevante.

Ed ancora, assoggettati a sequestro evidentemente - ma ritiene questo Giudice di dover esplicitare anche tale banale considerazione - non sono le falde acquifere, non è il fiume Volturno o il fiume Calore, non sono tantomeno le specie vegetali, animali e i componenti dell’ecosistema che all’epoca degli illeciti sversamenti oggetto del presente procedimento sarebbero dovuti risultare contaminati in maniera così straordinariamente intensa, grave e complessa al fine di poter discutere di disastro ambientale effettivamente verificatosi.

Tutto ciò chiaramente non era possibile, sicchè appare consequenziale che gli accertamenti su detti componenti dell’ecosistema dovevano essere fatti per quanto possibile coevamente agli illeciti depositi di materiali potenzialmente inquinanti e, qualora lo fossero stati, ciò che non è purtroppo avvenuto, per il loro stesso oggetto avrebbero avuto il carattere della irripetibilità, anche a distanza di un piccolo lasso temporale.

Né appare possibile dal punto di vista probatorio procedere ad una utile rivisitazione peritale delle analisi del consulente del P.M.

Invero, questo Giudice ritiene fondate le argomentazioni svolte dai difensori degli imputati circa la inutilizzabilità dei risultati delle operazioni di campionamento e di analisi effettuate dal consulente del P.M., giacchè i prelievi – dei quali in verità non risultano essere stati versati in atti neppure i relativi verbali - sono stati eseguiti senza le garanzie di cui all’art. 220 disp. att., apparendo indiscutibile il loro espletamento in una fase procedimentale ormai avanzata per fatti di reato e a carico altresì di soggetti già incontrovertibilmente individuati, in alcuni casi (cfr. supplemento consulenza) allorquando il P.M. aveva addirittura già avanzato una prima richiesta di applicazione di misura cautelare.

Invero, come chiarito dalla giurisprudenza della S.C. di legittimità, l’attività di campionamento e di analisi ha sì normalmente natura amministrativa, ma sempre che sia svolta dagli organi di polizia e di controllo nell’ambito della loro normale attività amministrativa di vigilanza ed ispezione, ossia quando sia diretta soltanto ad accertare la regolarità dell’attività e non sia emersa ancora nessuna notizia di reato.

E tuttavia, proprio perché anche dallo svolgimento di tali verifiche amministrative potrebbero emergere indizi di reato, il legislatore, su indicazione della Corte Costituzionale, con l’art. 223 disp. att. c.p.p. ha previsto alcune garanzie difensive nei confronti dei soggetti interessati proprio per l’eventualità che a seguito delle analisi emergano per costoro indizi di reato.

Le previsioni e le garanzie di cui all’art. 223 cit, dunque - le quali neppure in verità risultano essere state osservate nel caso di specie anche in occasione dei prelievi effettuati dall’ASL, attraverso la redazione di verbali di campionamento – riguardano i prelievi e le analisi inerenti alle attività amministrative, ossia appunto alla normale attività di vigilanza e di ispezione.

Ma dagli stessi occorre distinguere nettamente le analisi e i prelievi inerenti non ad una attività amministrativa, bensì ad una attività di polizia giudiziaria nell’ambito di un’indagine preliminare, per le quali devono invece trovare applicazione le garanzie difensive previste dal codice di rito in virtù del disposto dell’art. 220 disp. att. c.p.p.

In altre parole, l’attività di prelievo ed analisi ha natura amministrativa sempre che essa non venga eseguita su diposizione del magistrato o non esista già un soggetto determinato indiziabile di reati, dovendo in caso contrario trovare applicazione le garanzie difensive previste dal codice di procedura penale (ad esempio, art. 360 e 369 bis c.p.p.) (cfr ex plurimis Cass.2010/15372; Cass. 2002/23369).

Ciò posto, non può sottacersi come nel caso di specie non emerga in alcun modo che dette garanzie difensive siano state osservate in occasione dei prelievi effettuati dal consulente del P.M. e successivamente da altri organi incaricati allo stesso Ufficio di Procura ovvero dalla stessa P.G. in alcuni casi, allorquando erano già emersi indizi di reato a carico di alcuni soggetti, come comprova anche l’attività di intercettazione telefonica in corso o addirittura già espletata allorquando venivano eseguiti sequestri e prelievi di campioni.

D’altro canto, sempre alla stregua dell’insegnamento della S.C. di legittimità, il presupposto per l’operatività dell’art. 220 disp. att. c.p.p. e dunque per il sorgere dell’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale, è costituito dalla sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Cass. SS.UU. 2004/45477).

Alla stregua di tali argomentazioni, quindi, gli esiti delle analisi espletate a seguito di prelievi effettuati dal consulente del P.M., dall’ASL e dalla P.G. in assenza di alcuna garanzia difensiva non possono che considerarsi inutilizzabili, o al più viziati di nullità procedimentale non sanabile perché tempestivamente eccepita già in sede di udienza preliminare (cfr. in motivazione Cass. 10/15372), con la conseguenza che tutto l’apparato accusatorio sugli stessi fondato viene a palesarsi già allo stato insuperabilmente privo di qualsivoglia valido supporto probatorio.

E come già osservato, dato il tempo trascorso, non appare certamente neppure ipotizzabile il superamento di tali sanzioni processuali con l’espletamento di nuovi prelievi e nuove analisi, avendo questi ad oggetto cose soggette a modificazione, anche in virtù del mero decorso del tempo.

E tali considerazioni valgono ovviamente anche in ordine ai fatti fondanti l’imputazione di cui al capo C) della rubrica.

Ma anche sotto tale profilo, ritiene questo Giudice di dover evidenziare ulteriormente come, a tutto concedere, nessun elemento probatorio posto a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio appare integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 439 c.p., così come contestato agli imputati al capo C), per la configurabilità del quale è necessario sia l’elemento della immissione di sostanze produttive di avvelenamento nelle sostanze o nelle acque con conseguente situazione di potenziale pericolo per la salute pubblica, sia l’accertamento della destinazione delle acque stesse al consumo umano.

E già la prima condizione non appare affatto emergere dagli atti, giacchè lo stesso consulente del P.M. sul punto si esprime in termini di rischi di contaminazione delle falde acquifere, senza tuttavia verificare se le stesse siano state effettivamente contaminate.

Ma soprattutto, nessun accertamento, neppure indiretto, appare essere stato effettuato né dalla P.G., né dal consulente del P.M., sulle colture e sugli allevamenti presenti nelle zone interessate dagli illeciti sversamenti di rifiuti, né risulta essere neppure dedotta la presenza di attività ittiche direttamente interessanti il fiume Volturno, attraverso le quali, lo stato di inquinamento del corso d’acqua potrebbe arrecare danno alla salute umana.

Per tali ragioni la fattispecie di cui all’art. 439 c.p. non appare configurabile nel caso di specie neppure nella forma tentata.

Ma come già evidenziato anche a proposito della contestazione di disastro ambientale di cui al capo B), anche per l’imputazione in esame a maggior ragione non può che evidenziarsi la insostenibilità della sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo a carico degli odierni imputati, non essendo stati accertati sversamenti diretti in corsi d’acqua né in prossimità di evidenti punti di attingimento di acque destinate, anche indirettamente, alla alimentazione umana.

Per tutte le altre fattispecie di cui ai capi D), E), F), G), H), I) ed L) della rubrica, risalendo le più recenti all’anno 2000, alcune risultando consumate addirittura nel 1998, appare evidente in ogni caso l’avvenuta prescrizione dello stesse già in data antecedente alla richiesta di rinvio a giudizio del febbraio del 2008, trattandosi di reati di natura contravvenzionale o di delitti punti con pena non superiore nel massimo a sei anni di reclusione, il cui termine massimo di prescrizione è quindi di sette anni e mezzo.

P.Q.M.

Il Giudice, letto l’art. 425 c.p.p. dichiara non luogo a procedere nei confronti degli imputati per il reato di cui al capo A) perchè l’azione penale non doveva essere iniziata ovvero proseguita o comunque perché il fatto non sussiste;

dichiara non luogo a procedere nei confronti degli imputati per il reato di cui al capo B) perché, esclusa l’aggravante di cui all’art. 434, comma c.p., il reato risulta estinto per prescrizione;

dichiara non luogo a procedere nei confronti degli imputati per il reato di cui al capo C) perché il fatto non sussiste;

dichiara non luogo a procedere nei confronti degli imputati per i reati di cui ai capi D), E), F), G), H), I) ed L) della rubrica perché l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita giacchè già estinti per prescrizione al momento della richiesta di rinvio a giudizio del 05.02.2008;

dispone il dissequestro e la restituzione dagli aventi diritto dei siti ancora oggetto di sequestro.

S. Maria C.V, 16.09.2011

Il GUP

dott. Giovanni Caparco