Cass. Sez. III n. 45983 del 15 dicembre 2021 (CC 12 nov 2021)
Pres. Rosi Est. Scarcella Ric. De Falco
Beni culturali.Beni provenienti dalle collezioni numismatiche

Con riferimento ai beni provenienti dalle collezioni numismatiche, non può non tenersi conto del fatto che il codice Urbani conferma implicitamente la possibilità che i beni di interesse culturale siano posseduti da soggetti privati, in particolare qualora il Ministero competente non abbia dichiarato di interesse culturale le cose, in quanto aventi caratteristiche di eccezionalità. In questi devono considerarsi incluse le collezioni numismatiche, delle quali risulta lecito il possesso se acquistate presso rivenditori commerciali od altri collezionisti, a meno che non vi sia la prova che gli oggetti commercializzati provengono da campagne di scavo anteriori all'entrata in vigore della l. 20 giugno 1909, n. 364, ovvero siano di provenienza delittuosa (furtiva, ad esempio)


RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza 1/06/2021 il giudice dell’esecuzione ha rigettato l’impugnazione formulata nell’interesse dell’istante De Falco avverso l’ordinanza dell’1/10/2020 con cui il medesimo giudice rigettava l’opposizione proposta ex art. 667 comma 4 c.p.p. avverso l’ordinanza del 12/12/2019, a sua volta reiettiva della richiesta di restituzione dei reperti numismatici confiscati ex art. 174, comma 3, D.lgs. 42/2004 con decreto di archiviazione emesso in data 11/06/2019 dal G.I.P. presso Tribunale di Napoli.

2. Per migliore intelligibilità dell’impugnazione giova ripercorrere brevemente la vicenda giudiziaria che ha interessato l’odierno ricorrente.
Nei confronti del De Falco veniva avviato un procedimento penale per il reato di cui all’art. 176 D.lgs. 42/2004, e ciò a fronte dell’indagine svolta dal Nucleo CC-TPC Monza dalla quale era emerso che l’Ufficio Esportazione della Soprintendenza Archeologica di Milano aveva rigettato la richiesta di rilascio dell’attestato di libera circolazione per una moneta romana (Asse dell’Imperatore Vespasiano del 70 d.C.) in ragione dell’interesse storico archeologico del bene. La richiesta era stata avanzata dalla NAC Numismatica S.p.A. di Milano, per conto di Costantini Cesare, legale rappresentante della Numismatica Picena s.r.l., il quale aveva alienato la moneta alla Numismatica Ars Classica NAZ AG di Londra.
Escusso a s.i.t., Costantini Cesare dichiarava di aver acquistato la moneta di interesse in data 13/07/2015 dalla Numismatica Alberto De Falco. Ricevuto l’avviso ex art. 415 bis c.p.p., l’odierno ricorrente veniva sottoposto ad interrogatorio nel corso del quale dichiarava di aver acquistato la collezione privata, composta da 852 monete, da Renzulli Francesco nell’anno 2013, che il pagamento era stato effettuato con un bonifico della somma di euro 9.000,00 e che l’alienante aveva sottoscritto una dichiarazione scritta attestante la legittima provenienza dei beni. Forniva dunque copia della scrittura privata dell’atto di compravendita sottolineando che l’acquisto era stato regolarmente annotato nel Registro dei Beni Usati Antichità e Preziosi con visto della Questura di Napoli. Riferiva, infine, che parte della sopraindicata collezione era stata successivamente rivenduta alla Numismatica Picena s.r.l. di Costantini Cesare.
In data 11/06/2019, su conforme richiesta del PM, il G.I.P. presso il Tribunale di Napoli disponeva l’archiviazione del procedimento penale iscritto a carico del De Falco per il reato di cui all’art. 176 D.lgs. 42/2004 stante l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato presupposto (art. 648 c.p.) rispetto a quello oggetto di contestazione; contestualmente, ordinava la confisca degli oggetti numismatici (nella specie, monete risalenti all’età romanica) ex art. 174, comma 3, D.lgs. 42/2004.
Con istanza ritualmente proposta la difesa del De Falco invocava la revoca della suddetta confisca e la restituzione delle monete ma, con ordinanza del 12/12/2019, il G.I.P. presso il Tribunale di Napoli, in veste di giudice dell’esecuzione, rigettava la richiesta. Avverso tale provvedimento la difesa proponeva ricorso per cassazione. In data 28/5/2020 questa Corte, Sez.1^ penale, riqualificava detto ricorso come opposizione ex artt. 676, 667, comma 4, c.p.p., e conseguentemente trasmetteva gli atti al G.I.P. presso il Tribunale di Napoli dinanzi al quale, in data 24/09/2020, veniva celebrata l’udienza ex artt. 676, 667, comma 4, c.p.p. Con ordinanza del 1/10/2020 il giudice dell’esecuzione scioglieva la riserva di cui alla già menzionata udienza e rigettava l’opposizione ritenendo il gravame destituito di fondamento.
Avverso tale ordinanza la difesa del De Falco, in data 16/10/2020, depositava atto di ricorso per cassazione. Con provvedimento del 5/02/2021 questa Corte, Sez. 1^ penale, riqualificava nuovamente l’impugnazione della difesa come opposizione ex artt. 676, 667, comma 4, c.p.p. con conseguente trasmissione degli atti al G.I.P/Tribunale di Napoli, il quale, in data 13/4/2021, celebrava la seconda udienza ex art. 676, 667, comma 4, c.p.p. e con ordinanza del 1/06/2021 scioglieva la riserva di cui alla già menzionata udienza rigettando nuovamente l’opposizione.

3. Avverso l’ordinanza il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, articolando tre motivi.

3.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606, co. 1 lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 25 Cost., 568 comma 1, 21, comma 1, e 178 lett. a) c.p.p.
In sintesi, contesta la nullità assoluta dell’ordinanza impugnata poiché questa sarebbe stata emessa dallo stesso giudice che aveva già deciso ex art. 676, 667, comma 4, c.p.p.
In particolare, la difesa si duole perché, pur avendo eccepito tale circostanza nel corso dell’udienza camerale celebratasi dinanzi al GIP/Tribunale di Napoli in data 13/4/21 e pur avendo in tale contesto chiesto la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione competente a decidere sull’impugnazione, il giudice si sarebbe comunque pronunciato sul gravame senza peraltro spendere alcuna parola su tale questione nel provvedimento oggi ricorso. A fronte della predetta eccezione difensiva, che la difesa specifica di aver formulato tanto all’udienza  del 13/4/2021 quanto alla precedente udienza del 24/9/2020, il G.I.P./Tribunale di Napoli avrebbe invero dovuto trasmettere gli atti alla Suprema Corte di Cassazione competente a decidere ovvero sollevare conflitto di attribuzione ex art. 28 c.p.p.
Non essendo avvenuto ciò, l’ordinanza oggi ricorsa, così come quella pregressa dell’1/10/2020, sarebbero da ritenersi affette da nullità assoluta in quanto emesse da giudice funzionalmente incompetente ossia dallo stesso giudice che aveva già deciso sulla questione ex art. 676 c.p.p.

3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606, co. 1 lett. b) c.p.p. ed il correlato vizio di motivazione in relazione alla configurabilità delle monete confiscate quali beni culturali.
In sintesi, la difesa si duole perché, sul punto, il giudice estensore del provvedimento impugnato si sarebbe limitato a richiamare i principi generali regolatori della materia e a rinviare a quanto già statuito nelle pregresse ordinanze, senza tuttavia esaminare nel merito le doglianze difensive.
Il giudice, in particolare, non avrebbe chiarito da quali elementi ha ricavato il particolare valore numismatico delle monete sequestrate e non avrebbe adeguatamente tenuto conto né dell’elaborato prodotto dal consulente tecnico difensivo, il quale non avrebbe mai sostenuto l’interesse archeologico delle monete in questione, necessario per ritenere tali beni appartenenti allo Stato, né dell’elaborato prodotto dal consulente tecnico del P.M., il quale avrebbe dichiarato di non potersi ritenere certo che le monete sequestrate siano state rinvenute in siti archeologici italiani.
La difesa prosegue la propria doglianza asserendo che il De Falco avrebbe acquistato lecitamente le monete in questione dal collezionista Renzulli, il quale a sua volta avrebbe rilasciato idonea documentazione e dichiarato che dette monete non erano soggette a notifica. Sottolinea inoltre che buona parte di tali oggetti numismatici, venduti dal De Falco alla Numismatica Picena di Cesare Costantini, avrebbero già ottenuto dalla Sovraintendenza di Roma il nulla osta di esportazione, richiesto dalla ditta Moruzzi, alla quale il Costantini avrebbe a sua volta venduto numerose monete della “collezione Renzulli”.

3.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge ex art. 606, co. 1 lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 648, 240 c.p. e agli artt. 10, 174, 176 D.lgs. 42/04, 27 Cost. nonché il correlato vizio di contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
In sintesi, si duole perché con il già menzionato decreto di archiviazione la confisca sarebbe stata disposta ex art. 174 d.lgs. 42/2004 pur in assenza di un’effettiva esportazione illecita delle monete in questione posto che, per le stesse, erano state attivate tutte le procedure per ottenere la relativa licenza.
Del resto - osserva la difesa - il reato di cui all’art. 174 D.lgs. 42/2004 non è mai stato oggetto di contestazione nei confronti del De Falco, in passato indagato esclusivamente per il reato di cui all’art. 648 c.p. Conseguentemente, rispetto ai beni in questione avrebbe potuto trovare applicazione solo la disciplina ordinaria della confisca, ove detti beni fossero risultati il prodotto o il profitto dell’illecito. La difesa, tuttavia, ritiene che nel caso di specie la confisca non poteva ritenersi applicabile neanche ai sensi degli artt. 240, comma 2, c.p. e art. 176 D.lgs. 42/2004 non avendo il P.M. dato prova della provenienza illecita delle monete, onere, questo, che sarebbe gravato sulla pubblica accusa posto che nessuna violazione dell’art. 176 D.lgs. 42/2004 sarebbe mai stata mossa al De Falco.
Tali deduzioni sarebbero del tutto rimaste disattese dal G.E. il quale, sul punto, dopo aver apoditticamente riconosciuto che le monete acquistate dal De Falco provengono da siti archeologici italiani e sono state rinvenute dopo il 1909, si sarebbe limitato a ritenere fondata la disposizione ablatoria e del tutto irrilevante il riferimento all’uno o all’altro articolo, trattandosi in ogni caso di confisca obbligatoria.

4. Con requisitoria scritta datata 23/09/2021, precisata in data 27/10/2021, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso ritenendo insussistenti i vizi denunciati dal ricorrente.
In particolare, il primo motivo di ricorso sarebbe infondato in quanto nel caso di specie non sarebbe invero sussistita alcuna causa di astensione obbligatoria da parte del giudice dell’esecuzione.
Anche il secondo motivo di ricorso sarebbe privo di pregio in quanto in atti vi sarebbero certamente stati elementi sufficienti a far ritenere che si trattasse di beni di valore archeologico. In tal senso avrebbero assunto particolare rilievo la c.t.u. del consulente del De Falco nonché gli altri elementi dedotti per relationem dall’ordinanza impugnata.
Infine, anche il terzo motivo di ricorso sarebbe infondato non essendovi dubbi che il reato ex art. 176 D.lgs. 42/2004, basato sulla condotta di impossessamento, ben possa essere compatibile con la condotta di ricettazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è parzialmente fondato.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato, nei termini che si diranno.

3. Ai sensi del codice di rito, competente a decidere sulla confisca è il giudice dell’esecuzione (art. 676 c.p.p.) ossia, salvo diversa disposizione di legge, il giudice che ha deliberato il provvedimento (art. 665 c.p.p.). In tali casi, il giudice dell’esecuzione procede senza formalità con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato e, avverso tale provvedimento, le parti possono esperire opposizione davanti allo stesso giudice purché nel rispetto del termine perentorio previsto dalla legge (art. 667, comma 4, c.p.p.). Qualora sia esperita opposizione si procede a norma dell’art. 666 c.p.p., che, al sesto comma, prevede in capo alle parti la possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa dal giudice dell’esecuzione in sede di opposizione.

4. Tanto premesso e venendo ora al caso di specie, dagli atti del procedimento si ricava che in data 31/12/2019 il De Falco proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del 12/12/2019 con cui il G.I.P./Tribunale di Napoli aveva rigettato l’incidente di esecuzione proposto dal ricorrente al fine di ottenere la revoca della confisca e la restituzione del materiale espropriato. Riconosciutasi funzionalmente incompetente a conoscere l’impugnazione, questa Corte correttamente riqualificava detta impugnazione in opposizione ex artt.667, comma 4, c.p.p. Conseguentemente trasmetteva gli atti al G.I.P./Tribunale di Napoli in ossequio al principio del favor impugnationis di cui all’art. 568, comma 5, c.p.p. per cui “l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta. Se l’impugnazione è proposta a un giudice incompetente, questi trasmette gli atti al giudice competente”.
Con ordinanza del 1/10/2020 il giudice dell’esecuzione decideva sull’opposizione alla confisca rigettando il gravame. Avverso tale provvedimento la difesa esperiva ricorso per cassazione. Tale impugnazione, tuttavia, veniva qualificata nuovamente dalla Suprema Corte come opposizione ex artt. 667, comma 4, c.p.p. Trasmessi così gli atti al G.I.P/Tribunale di Napoli, quest’ultimo in data 13/4/2021 celebrava la seconda udienza ex art.667, comma 4, c.p.p. e con ordinanza del 1/06/2021 scioglieva la riserva di cui alla già menzionata udienza rigettando nuovamente l’opposizione.

5. Nel caso in esame è quindi evidente che il GIP, in entrambi i casi, ha deciso a seguito di un provvedimento con cui la Corte di cassazione, convertendo il ricorso in opposizione ex art. 667, co. 4, c.p.p., ha investito il giudice della competenza a decidere sulla questione sottoposta originariamente all’esame della S.C. con il ricorso. In entrambi i casi, dunque, il Giudice cui gli atti erano stati trasmessi dalla S.C. non avrebbe potuto a sua volta declinare la competenza né sollevare conflitto ex art. 28 c.p.p. davanti al Giudice di legittimità.
È pacifico, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte che non può verificarsi conflitto di competenza fra la Corte di Cassazione, che è istituzionalmente investita del compito di dirimere le controversie in tema di competenza, ed altro giudice, in quanto, essendo sovraordinata agli altri organi giurisdizionali, le sue decisioni in sede di ricorso possono annullare o confermare le decisioni di altri giudici, ma mai porsi in conflitto con gli stessi (Sez. 1, n. 4353 del 21/10/1993 - dep. 22/01/1994, Confl. comp. in proc. p.c. e Sessa, Rv. 196316 – 01; Sez. 1, n. 42000 del 21/10/2010 dep. 26/11/2010, Rv. 249089).

6. Né, peraltro, è ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 178, lett. a), c.p.p., atteso che detta disposizione prevede una nullità di ordine generale in caso di inosservanza delle disposizioni, per quanto qui rileva, concernenti la “capacità del giudice”, nozione che va intesa come mancanza dei requisiti occorrenti per l'esercizio delle funzioni giurisdizionali e non anche come difetto delle condizioni specifiche per l'esercizio di tali funzioni in un determinato procedimento.
È ben vero, certamente, che l'incompetenza funzionale denunciata dal ricorrente equivale al disconoscimento della ripartizione delle attribuzioni del giudice in relazione allo sviluppo del processo e riflette i suoi effetti direttamente sulla idoneità specifica dell'organo all'adozione di un determinato provvedimento. Essa, infatti, pur non avendo trovato un'esplicita previsione neppure nel nuovo codice di procedura penale, proprio perché connaturata alla costruzione normativa delle attribuzioni del giudice ed allo sviluppo del rapporto processuale, è desumibile dal sistema ed esprime tutta la sua imponente rilevanza in relazione alla legittimità del provvedimento emesso dal giudice, perché la sua mancanza rende tale provvedimento non più conforme a parametri normativi di riferimento (per tutte: Sez. U, n. 14 del 20/07/1994 - dep. 01/08/1994, De Lorenzo, Rv. 198219 – 01).
Tuttavia, è altrettanto indubbio che, nel caso in esame, la decisione del giudice “funzionalmente incompetente” è stata determinata dalla decisione della Corte di cassazione, adita tramite il ricorso per cassazione, che, in entrambi i casi, precedenti a quello qui sub iudice, aveva provveduto a riqualificare il ricorso come opposizione ex art. 667, co. 4, c.p.p., trasmettendo gli atti al tribunale per decidere, investendolo della “competenza” a decidere in sua vece. Non essendo sollevabile un conflitto, per le ragioni già esplicitate, la S.C. ha operato la conversione del mezzo di impugnazione, in base al principio di conservazione degli atti processuali ex art. 568, co. 5, c.p.p., disponendo la trasmissione degli atti al giudice competente, ritenendosi, evidentemente, “giudice incompetente” (utilizzando proprio l’espressione indicata nel citato art. 568, co. 5, c.p.p.) beninteso funzionalmente, a conoscere della impugnazione proposta dall’interessato, convertendola in opposizione ex art. 667, co. 4, c.p.p., con effetto vincolante assimilabile a quanto previsto espressamente dagli artt. 25 e 627, c.p.p., determinando detta attribuzione di “competenza funzionale” al GIP incompetente funzionalmente da parte della Corte di cassazione - non essendo possibile sollevare conflitto ex art. 28, c.p.p. per le ragioni prima evidenziate -, l’irretrattabilità del foro commissorio conseguente al provvedimento sulla competenza.

7. Deve essere pertanto affermato il seguente principio di diritto:
“Non è affetta da nullità di ordine generale ed assoluta ex artt. 178, co. 1, lett. a), e 179 c.p.p., l’ordinanza emessa da un giudice funzionalmente incompetente nel caso in cui questi sia stato investito della competenza a conoscere dell’impugnazione proposta da parte della Corte di cassazione a seguito della conversione dell’originario ricorso per cassazione in opposizione ex art. 667, co. 4, c.p.p., determinando la trasmissione degli atti dal Giudice di legittimità, dichiaratosi incompetente ex art. 568, co. 5, c.p.p., al giudice dell’opposizione ex art. 667, co. 4, c.p.p., un effetto vincolante attributivo del foro commissorio irretrattabile, equivalente a quello previsto espressamente dagli artt. 25 e 627, c.p.p., attesa l’impossibilità per il giudice dell’opposizione di sollevare conflitto ex art. 28 c.p.p. con la Corte di cassazione”.

8. Il secondo motivo di ricorso è fondato per le ragioni di cui si dirà oltre.
Con la doglianza in esame la difesa, in sostanza, contesta l’avvenuta categorizzazione delle res oggetto di confisca quali beni culturali appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato.

9. Prima di esaminare la doglianza del ricorrente giova richiamare alcuni principi normativi e giurisprudenziali attinenti alla materia.
Ai sensi della disciplina di settore contenuta nel D.lgs. 42/2004, costituiscono beni culturali “le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” (art. 10, comma 1). Lo stesso testo normativo include tra i beni culturali anche “le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio” (art. 10, comma 4, lett.b). L’art. 91 del D.lgs. 42/2004 prevede poi che “le cose indicate nell’art. 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o suoi fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli artt. 822 e 826 c.c.”.
Alla luce dell’appena richiamata disciplina normativa, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che le cose di interesse numismatico “devono essere considerate beni culturali, non solo quando abbiano carattere di rarità o di pregio, ai sensi dell'art. 10, comma 4, lettera b) , ma anche quando, a prescindere dall'accertamento della presenza di tali caratteri, siano state ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, perché in tal caso esse appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato, trattandosi, per definizione, di «cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico o artistico».” (Così, Sez. 3, n. 37861 del 04/04/2017 - dep. 28/07/2017, P.M. in proc. Rolfo, §3.1 del Considerato in diritto).

10. Si rende inoltre necessario ricordare che sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica, con la conseguenza che essi appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (l. n. 364 del 1909, r.d. n. 363 del 1913, l. n. 1089 del 1939, artt. 826, comma 2, 828 e 832 del Codice civile), la cui disciplina è rimasta invariata con l'introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004.  
Le Sezioni civili di questa Corte (Sez. 1, n. 2995 del 10/02/2006 in motiv.), infatti, hanno affermato che la legislazione di tutela dei Beni Culturali, in particolare dei beni archeologici, è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell'importanza che essi rivestono (anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico - artistico garantita dall'art. 9 Cost.), dell'appartenenza di detti beni allo Stato (...), per cui l'art. 826 c.c., comma 2, assegna al patrimonio indisponibile dello Stato "le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo": disciplina confermata dalla L. n. 1089 del 1939, artt. 44, 46, 47 e 49, cui rinvia l'art. 932 c.c., comma 2. In seguito, prima il d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 88, Beni Culturali, che quelle norme ha abrogato (art. 166), ha disposto che i beni di cui all'art. 2 (che alla lett. a) enumera "le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico"), da chiunque e in qualunque modo ritrovati, appartengono allo Stato, e, attualmente, il d.lgs. n. 42 del 2004, nei termini appena sopra richiamati. Sono tuttavia fatte salve particolari e tassative ipotesi nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando che: 1) i reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909 (Sez 3, n.16513 del 11/03/2021 – dep. 30/04/2021, § 8.2 del Considerato in diritto; Sez. 3, n. 19692 del 21/03/2018 - dep. 07/05/2018, §4.2.1 del Considerato in diritto; Sez.3, n. 42458 del 10/06/2015 – dep. 22/10/2015, Almagià, §3 del Considerato in diritto).

11. La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha in più occasioni sottolineato che “il possesso delle cose di interesse archeologico integra il reato di cui all'art. 176, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004 e si presume illegittimo, a meno che il detentore non dimostri di averli legittimamente acquistati in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909” (Sez. 3, n. 37861 del 04/04/2017 - dep. 28/07/2017, P.M. in proc. Rolfo, § 3.1 del Considerato in diritto; Sez. 4, n. 14792 del 22/03/2016, Rv. 266981; Sez. 3, n. 49439 del 04/11/2009 – dep.23/12/2009, Rv. 245743); conseguentemente, “anche nell'ipotesi di archiviazione del procedimento per il reato di impossessamento illecito, previsto dall'art. 176 D.lgs. n. 42 del 2004, grava sul richiedente la restituzione dei predetti beni sottoposti a sequestro l'onere di dimostrare che il possesso del proprio dante causa si è verificato in epoca antecedente all'entrata in vigore della predetta legge n. 364” (Sez. 4, n. 14792 del 22/03/2016 – dep.11/04/2016, Rv. 266981). Si tratta di orientamento giurisprudenziale che, progressivamente, ha superato quello enunciato da una significativa sentenza di questa Corte (Cass. pen., Sez. III, 27 maggio 2004, n. 28929, Mugnaini, Rv. 229492), secondo cui la prova della illegittima provenienza dei beni di interesse archeologico, ai fini della configurabilità di tale reato, è a carico della pubblica accusa, non potendo essere posto a carico del cittadino la prova della legittimità del possesso di beni archeologici.

12. Ebbene, tenendo conto dei principi normativi e giurisprudenziali sopra richiamati può passarsi ora ad esaminare la doglianza del ricorrente.
Con il secondo motivo di ricorso la difesa, in sintesi, contesta il carattere archeologico delle monete confiscate nonché la loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato data la mancata prova sia del loro rinvenimento in data successiva all’entrata in vigore della l. 364/1909, sia della loro provenienza da siti archeologici italiani.

12.1. Per quanto attiene il valore archeologico e la provenienza dei beni numismatici in questione si rileva quanto segue.
Con l’ordinanza dell’1/10/2020 emessa in sede di opposizione, il G.I.P./Tribunale di Napoli ha espressamente fatto rinvio a quanto già statuito nell’impugnata ordinanza del 12/12/19. Da tali atti – da leggersi quindi congiuntamente – emerge che il giudice dell’esecuzione, richiamati i principi regolatori della materia (pagg. 2-3 ordinanza del 12/12/19), ha riconosciuto le res reclamate quali cose di interesse numismatico rientranti nella categoria dei beni culturali, e ciò in ragione dell’interesse archeologico dalle stesse rivestito, attestato dall’elaborato tecnico redatto dalla Soprintendenza Archeologica delle Belle Arti e Paesaggio di Milano il cui contenuto viene richiamato integralmente (pagg. 3-4 ordinanza del 12/12/19).
Tale elaborato, allegato al ricorso dallo stesso ricorrente, consente in effetti di accertare l’infondatezza delle doglianze difensive.
Il consulente tecnico, infatti, ha qualificato le monete in questione quali “autentiche e di interesse archeologico” e non ha affatto escluso la provenienza delle stesse da siti italiani. In particolare, in relazione alle monete di epoca repubblicana ha sottolineato che “la loro provenienza sia verosimilmente da individuare in Italia, tranne pochi esemplari emessi in zecche itineranti al seguito di generali dell’esercito romano che comunque risultano dai rinvenimenti effettuati sul territorio nazionale aver avuto circolazione anche nella penisola”. Per le monete di età imperiale – ha proseguito il perito – poiché queste hanno potuto circolare in tutti i territori dell’Impero romano “è più complesso definire l’area di rinvenimento anche se per le zecche italiane o occidentali è possibile la provenienza dall’Italia dato che tutti questi ateliers sono ben attestati nei rinvenimenti nella penisola in quanto concorrevano a rifornire la massa del circolante in Italia. Saltuarie presenze di emissione delle zecche africane e orientali nei depositi archeologici italiani portano a non escludere una simile provenienza anche degli altri esemplari”.

12.2. Per quanto concerne poi l’asserita omessa valutazione da parte del giudice dell’esecuzione della consulenza tecnica difensiva, non può non rilevarsi come l’autorità giudiziaria risulti invero aver fornito adeguata risposta alla presente doglianza, già formulata in sede di opposizione e reiterata in sede di legittimità in via del tutto acritica. Nell’ordinanza dell’1/10/20, infatti, si legge: “Quanto alla relazione stilata dal c.t. di parte, deve evidenziarsi come, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, della stessa si sia tenuto conto, per quanto di effettivo interesse ai fini della decisione, nella misura in cui si è rilevato che il consulente del De Falco, al parti di quello del P.M., ha di fatto anch’egli riconosciuto che le monete in questione rivestono obbiettivo interesse archeologico (ancorché, a suo giudizio, di grado non particolarmente significativo). Tanto bastava ai fini della decisione, essendo assolutamente irrilevanti, in questo senso, le altre considerazioni svolte dalla Alagna circa la rarità ed il pregio delle monete” (pag.2 dell’ordinanza).
La lettura fornita dal giudice dell’esecuzione rispetto alla consulenza tecnica di parte si presenta coerente rispetto ai principi giurisprudenziali sopra richiamati e non manifestamente illogica ove si consideri che, proprio nelle conclusioni redatte dal prof. Alagna, si legge testualmente: “Tutte le monete da me analizzate, provenienti dalla collezione Renzulli, sono monete che non possono essere assoggettabili all’art. 10 in quanto prive di interesse artistico, storico, archeologico, o etnoantropologico particolarmente importante”.

12.3. Chiarito il carattere archeologico dei beni qui in rilievo, si passa ora ad affrontare la questione della loro appartenenza.
Occorre anzitutto sgomberare il campo da un equivoco: diversamente da quanto afferma l’odierno ricorrente e da quanto si legge nelle ordinanze emesse dal giudice dell’esecuzione, il procedimento penale instauratosi a carico del Falco non ha avuto ad oggetto il reato di cui all’ art. 648 c.p. bensì il reato di impossessamento illecito di beni culturali ex art. 176 D.lgs. 42/2004, di cui il reato di ricettazione costituisce il presupposto. Ciò, del resto, emerge chiaramente dal decreto di archiviazione del procedimento penale emesso dal G.I.P. in data 13/06/2019, nel quale si legge testualmente: “la condotta dell’indagato non integra i presupposti del reato contestato [art. 176 D.lgs. 42/2004], risultando carente l’elemento soggettivo del reato presupposto (648 c.p.): ed invero dalla modalità della compravendita è emerso che l’acquisto è avvenuto con scrittura privata avente data certa al 3.12.2013 e che è stato registrato presso il Registro del Commercio di Beni usati Antichità e Preziosi; il Renzulli, inoltre, numismatico di esperienza, era stato componente della redazione del Bollettino Numismatico Napoletano, circostanza che non può non aver influenzato il ragionevole affidamento dell’indagato sulla lecita provenienza della collezione privata acquistata. Si ritiene, pertanto, sussistente la buona fede dell’indagato” (pag.2 del decreto di archiviazione).
Chiarito ciò, i beni culturali – come già ricordato – si presumono dello Stato a meno che il detentore non dimostri di averli acquisiti in data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, di averli ottenuti in premio per il loro ritrovamento o di averli ricevuti dallo Stato.
Ebbene, nel caso di specie il De Falco risulta aver acquistato dette monete dal collezionista Renzulli nell’anno 2013; proprio in virtù di ciò egli contesta l’appartenenza di detti beni al patrimonio indisponibile dello Stato, non essendovi in atti la prova che esse siano state acquisite dal Renzulli in seguito all’entrata in vigore della L. 364/1909.

12.4. La doglianza difensiva, evidentemente, stride con l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato che fa gravare sul soggetto che invoca la restituzione dei beni l’onere di dimostrare il legittimo possesso delle stesse da parte del proprio dante causa.
Occorre, tuttavia, fare chiarezza sull’applicabilità di tale orientamento anche al collezionista. Con riferimento, infatti, ai beni provenienti dalle collezioni numismatiche, non può non tenersi conto del fatto che il codice Urbani conferma implicitamente la possibilità che i beni di interesse culturale siano posseduti da soggetti privati, in particolare qualora il Ministero competente non abbia dichiarato di interesse culturale le cose, in quanto aventi caratteristiche di eccezionalità. In questi devono considerarsi incluse le collezioni numismatiche, delle quali risulta lecito il possesso se acquistate presso rivenditori commerciali od altri collezionisti, a meno che non vi sia la prova che gli oggetti commercializzati provengono da campagne di scavo anteriori all'entrata in vigore della l. 20 giugno 1909, n. 364, ovvero siano di provenienza delittuosa (furtiva, ad esempio).
Ed allora, il richiamo al principio giurisprudenziale citato ed assai rigoroso, confermato anche da altre pronunce (così, Cass. pen., Sez. IV, 22 marzo 2016, n. 14792, Cadario e altro, Rv. 266981; Id., Sez. III, 4 novembre 2009, n. 49439, Dafarra, Rv. 245743, sentenze da cui non si evince tuttavia quali siano i beni di interesse archeologico in questione), sembra al Collegio invero non calzante. Risulta evidente che nessuno dei 'soggetti imputati di tale delitto' può, ratione aetatis, dare la prova di un acquisto anteriore al 1909; semmai egli può provare di avere ricevuto iure hereditatis tali beni, ovvero di averli acquistati da un collezionista. Ed appunto con riferimento al collezionista (qual è l’attuale ricorrente) che si pone il problema della “prova” da fornirsi, in quanto, ove si applicasse rigidamente, sempre ed indistintamente, l’orientamento giurisprudenziale rigoroso c.s. illustrato, risulterebbe difficile se non impossibile riuscire ad ottenere la restituzione del bene numismatico sottoposto a sequestro penale, poiché - salva la probatio diabolica che consenta di risalire agli "antenati" fino ad epoca anteriore all'entrata in vigore della 1. n. 364/1909 - tale bene è di proprietà dello Stato.
Ritiene, infatti, il Collegio che in tale impostazione vada del tutto perduta l'interpretazione della dizione letterale della fattispecie di cui all'art. 176 del Codice dei beni culturali, che incrimina non già la detenzione del bene culturale appartenente allo Stato, ma, per l'appunto, l'impossessamento, con ovvie conseguenze sotto il profilo del tempus commissi delicti (ma anche del luogo del commesso reato, ovviamente).
La detenzione è infatti un reato permanente, ma nel caso che ci occupa la detenzione è un effetto del reato, di natura istantanea, di impossessamento, il quale si perfeziona, e consuma, tutto e solo, nella condotta di apprensione della cosa. Con le ovvie conseguenze in tema di computo della prescrizione, quanto al processo penale, ma anche con le scarse possibilità di recupero del bene, che derivano dall'impostazione data sul punto dalla giurisprudenza consolidata.

12.5. Tornando ad esaminare l’impugnata ordinanza, si osserva, la motivazione fornita dal giudice dell’esecuzione si presenta carente posto che deduce l’appartenenza dei beni reclamati al patrimonio indisponibile dello Stato italiano dal dato, pacifico, che “l’istante non ha acquistato i beni confiscati in epoca antecedente all’entrata in vigore della L. n. 364/1909, non li ha ricevuti dallo Stato, né li ha ottenuti in premio per il loro rinvenimento” (pag. 3 ordinanza del 12/12/19 cui la successiva ordinanza dell’1/10/2020 fa espresso rinvio),  senza far cenno alcuno all’onere di prova gravante sul ricorrente in ordine al legittimo possesso di detti beni da parte del proprio dante causa, il Renzulli.
Non può ritenersi, proprio per le ragioni dianzi esposte al § 12.4, che le doglianze difensive non siano idonee a compromettere la legittimità del provvedimento di confisca disposto dal G.I.P./Tribunale di Napoli e confermato dal giudice dell’esecuzione sol perché, per mezzo di esse, il ricorrente si limita a contestare “l’assenza di prova” dell’illegittimo possesso delle monete da parte del Renzulli. Come anticipato, infatti, non può applicarsi in maniera pedissequa al collezionista il rigoroso orientamento giurisprudenziale richiamato secondo cui sarebbe proprio sul soggetto interessato alla restituzione dei beni che grava l’onere di dimostrare il lecito possesso degli stessi da parte del proprio dante causa, operando di base una presunzione di proprietà statale.
In altri termini, non può ritenersi, in questo caso, che il ricorrente fosse gravato dall’onere, non assolto, di provare il fatto fondamentale posto alla base della propria domanda, cioè il possesso del suo dante causa, anteriore alla L. n. 364/1909. È ben vero che ciò era già stato sottolineato dal G.I.P. in sede di archiviazione, laddove, nel disporre la confisca dei beni, il giudice aveva osservato come, nel caso di specie “non è stata riscontrata alcuna documentazione che comprovi la detenzione a qualsiasi titolo del materiale numismatico da parte del sig. Francesco Renzulli, dante causa del De Falco, o che ne dimostri il legittimo possesso. Né dalle memorie difensive depositata in data 18.12.2018 e 22.05.2019 emerge alcun elemento idoneo a provare che il possesso del dante causa si è verificato in epoca antecedente all’entrata in vigore della predetta legge [L. n. 364/1909], condizione necessaria onde poter ritenere non sussistente la presunzione di provenienza illecita dei beni” (pag. 3 del decreto di archiviazione).
Purtuttavia, osserva il Collegio, le stesse ragioni poste a fondamento della archiviazione del procedimento per l’asserita buona fede del De Falco, avrebbero dovuto spingere il giudice dell’esecuzione a motivare in maniera adeguata circa la confiscabilità delle monete appartenenti al De Falco, a lui pervenute dalla collezione Renzulli, individuando ulteriori elementi da cui fosse ricavabile l’ostatività della restituzione delle monete, legittimamente pervenute al ricorrente, come ad es., l’accertamento dell’emissione del provvedimento da parte dell’Autorità amministrativa competente ex art. 13 del Codice dei beni culturali, in tal modo qualificando il bene numismatico o la collezione quale appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato.
Tale carenza argomentativa sul punto rende, pertanto, ragione dell’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al giudice partenopeo per un nuovo esame.

13. In relazione al terzo motivo di ricorso si rileva quanto segue.
Con la doglianza in esame la difesa, in sintesi, contesta la possibilità di applicare la confisca ai beni numismatici venuti in rilievo e ciò, sia ai sensi dell’art. 174 D.lgs. 42/2004, posto che si tratta di un reato mai contestato al De Falco e che nel caso di specie le monete non sarebbero mai state oggetto di illecita esportazione, sia ai sensi dell’art. 240, comma 2, c.p., posto che la Pubblica Accusa non avrebbe invero mai dimostrato l’illecito possesso delle monete da parte del Renzulli.

14. Occorre anzitutto sottolineare che la confisca obbligatoria di cui all’art. 240, comma 2, c.p. e la confisca obbligatoria di cui all’art. 174 D.lgs. 42/2004 costituiscono misure tra loro diverse e distinte. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha chiarito che “La confisca delle cose oggetto di contrabbando prescinde dall'accertamento della responsabilità penale e deve essere disposta anche quando l'imputato venga prosciolto o dichiarato non punibile. Essa, pertanto, si differenzia dalla confisca prevista dall'art. 240 cod. pen. che attribuisce la facoltà e non l'obbligo, salvo le ipotesi di intrinseco carattere criminoso delle cose, di disporre la misura di sicurezza patrimoniale, sempre che sia intervenuta condanna.” (Sez.2, n.1253 del 28/02/1995 – dep. 5/04/1995, Vallorani, Rv.201589). Questa Corte, del resto, ha ben delineato i caratteri propri della misura di cui all’art. 174 D.lgs. 42/2004 specificando che “la confisca dei beni culturali esportati illecitamente risponde a una finalità essenzialmente recuperatoria di una res extra commercium insuscettibile di essere sottratta al patrimonio culturale italiano, essendone inibita, da un lato, la fuoriuscita dal territorio nazionale e, dall’altro, la sottrazione al dominio che lo Stato esercita su di essa. Sicché, secondo la volontà del legislatore, una volta accertata la circostanza di fatto della illecita esportazione del bene culturale, la confisca, salvo che la cosa appartenga a persona estranea al reato, è obbligatoria dovendo necessariamente essere ripristinato il patrimonio culturale italiano leso dall’appropriazione illecita del bene da parte del privato, che può anche non essere l’autore del reato. (…) Logico corollario di tale impostazione è che la confisca prevista dall’art. 174 decreto legislativo n. 42 del 2004 non ha una funzione sanzionatoria ma è una misura recuperatoria di carattere amministrativo, la cui adozione è affidata dal legislatore al giudice penale allorquando si proceda per un fatto preveduto dalla legge come reato, con la conseguenza che l’applicazione della misura prescinde dal fatto che il procedimento penale si concluda con una affermazione di responsabilità penale. Non a caso infatti l’articolo 174 decreto legislativo n. 42 del 2004 stabilisce che la confisca ha luogo ai sensi della disciplina prevista dalla legge doganale, in base alla quale la misura di sicurezza viene disposta anche nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento o di non punibilità, quindi a prescindere da una sentenza di condanna, come invece sarebbe stato necessario nel caso si fosse richiamato l’art. 240 codice penale, essendo stata fatta salva solo l’ipotesi che i beni appartengano a persone estranee al reato, quale ad esempio la persona che abbia acquistato in buona fede. (…)”. (Sez.3, n.42458 del 10/06/2015 – dep. 22/10/2015, Almagià, §4 del Considerato in diritto)

15. Chiarito ciò, rispetto al caso di specie si rileva quanto segue.
Dal decreto di archiviazione del 13/06/2019 si ricava che la “collezione Renzulli” acquistata dal De Falco si compone di 852 monete delle quali, 163 risultano detenute dalla Numismatica De Falco di Napoli, 610 risultano essere state cedute dal De Falco alla Numismatica Picena di Costantini Cesare e 79 risultano essere state alienate in altro modo dalla Numismatica De Falco; il Costantini, inoltre, risulta aver a sua volta alienato alla Numismatica Ars Classica NAC AG di Londra  la moneta romana (Asse dell’Imperatore Vespasiano del 70 d.C) rispetto alla quale l’Ufficio Esportazione della Soprintendenza Archeologica di Milano negava il rilascio dell’attestato di libera circolazione.
A fronte di ciò il G.I.P., nel disporre l’archiviazione del procedimento penale a carico del De Falco, disponeva la confisca dei beni ex art. 174 D.lgs. 42/2004;  in particolare, il giudice affermava: “Ricorre nel caso di specie l’ipotesi di confisca obbligatoria prevista dall’art. 174 d.lgs. 42/2004, la quale, non solo prescinde dall’affermazione della responsabilità penale, ma configura un’ipotesi peculiare di confisca non sussumibile nella misura di sicurezza patrimoniale disciplinata, in via generale, dall’art. 240 c.p.” (pag. 2 del decreto di archiviazione).
Successivamente, rispetto alla doglianza con cui la difesa censurava l’avvenuta disposizione della confisca ai sensi dell’art. 174 D.lgs. 42/2004 mai contestato al ricorrente, il giudice dell’esecuzione ha affermato che invero non “rileva il riferimento all’uno o all’altro articolo di legge per giustificare la disposizione ablatoria, trattandosi in ogni caso di provvedimento obbligatorio, ex art. 240, co.2, n.2, c.p., avendo ad oggetto beni la cui detenzione costituisce reato, ex art. 176, D.lgs. n. 42 del 2004, e che appartengono al patrimonio indisponibile dello Stato” (pag. 4 ordinanza del 12/12/19; in modo identico, pag. 2 ordinanza dell’1/10/2020).

16. Tale valutazione giudiziale non risulta condivisibile, posta la profonda diversità dei due strumenti ablatori in rilievo.
Occorre dunque che il giudice dell’esecuzione faccia chiarezza in ordine al tipo di confisca che si rende necessaria nel caso di specie. In altri termini, occorre chiarire se le monete qui in rilievo sono state, in tutto o in parte, oggetto di trasferimento all’estero – rendendosi in tal caso necessaria la disposizione della misura di recupero di cui all’art. 174 D.lgs. 42/2004, indipendentemente da un’effettiva responsabilità penale di taluno per tale trasferimento e nei limiti consentiti dalla legge – o se, al contrario, tali monete, in tutto o in parte, non sono mai state oggetto di effettiva esportazione –  rendendosi in tale diversa ipotesi necessaria la disposizione della confisca ai sensi dell’art. 240, comma 2, n. 2, c.p. posto che, per i motivi esplicitati al precedente paragrafo, la c.d. “collezione Renzulli” costituisce bene culturale appartenente al patrimonio indisponibile dello Stato, la cui detenzione costituisce reato ai sensi dell’art. 176 D.lgs. 42/2004.

17. Si impone, pertanto, l’annullamento con rinvio al tribunale di Napoli, ufficio Gip, perché riesamini l’istanza di dissequestro e restituzione tenendo in considerazione quanto supra argomentato anche a proposito del terzo motivo.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame al tribunale di Napoli.
Così deciso, il 12 novembre 2021