Cass. Sez. III sent.6762 del 22 febbraio 2006 (c.c. 24 gennaio 2006)
Pres. Postiglione Est. De Maio Ric. Cempini
Caccia – Nozione di attività venatoria
Rientra nell’esercizio dell’attività venatoria il compimento di quella attività
prodromica e preliminare alla cattura degli animali quali la predisposizione di
una trappola e la detenzione degli attrezzi necessari all’armamento della
trappola stessa
Composta
dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. POSTIGLIONE AMEDEO
1.Dott.DE MAIO GUIDO
2.Dott.TERESI ALFREDO
3.Dott.LOMBARDI ALFREDO MARIA
4.Dott. IANNIELLO ANTONIO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
1) CEMPINI
ROBERTO n. il 16/08/1938
avverso SENTENZA del 11/04/2005 CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere DE MAIO GUIDO
Udito il Procuratore Generale in persona del dott. SINISCALCHI
che ha concluso per inammissibile il ricorso
MOTIVAZIONE
Con sentenza in data 19.5.2004 del Tribunale di Livorno, sez. distacc. di
Cecina, Roberto Cempini fu assolto per non aver commesso il fatto dal reato di
cui agli artt.81 cp - 18 co.1 - 13 co.5 e 30 lett. a) ed h)
L.157/92 ("perché esercitava la caccia in periodo di divieto generale e con
mezzi non consentiti quali una gabbia e un cavetto in acciaio per la cattura
degli ungulati, in Casale M.mo il 13.2.2003).
Avverso tale sentenza propose appello il Proc. Gen. presso la Corte d'Appello di
Firenze, in accoglimento del quale quella Corte d'Appello, con sentenza in data
11.4.2005 in riforma di quella di primo grado, ritenne l'imputato colpevole del
menzionato reato condannandolo alle pene di giustizia.
Tale sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione personalmente
dall'imputato, il quale con unico motivo censura, sotto i profili della
violazione delle norme incriminatici nonché della motivazione insufficiente e/o
manifestamente illogica, "la valutazione delle circostanze di fatto che
sorreggono la decisione impugnata". Il ricorso va dichiarato inammissibile
perché le censure proposte sono manifestamente infondate e non consentite in
sede di legittimità. Infatti, la sentenza impugnata ha ritenuto che l'attuale
ricorrente "conosceva perfettamente l'esistenza della trappola e con gli
attrezzi necessari (granturco e cavetto intrecciato di acciaio) la stava
preparando per la cattura degli istrici". Trattasi con tutta evidenza di un
accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità. Peraltro, il
compimento di quell'attività prodromica e preliminare alla cattura degli animali
-che costituisce proprio e di per sé esercizio della caccia punibile ai
sensi delle citate norme incriminatici (giurisprudenza consolidata, non
contestata dal ricorrente, puntualmente citata in sentenza)- è stato logicamente
desunto dai giudici di merito sulla base dei rilievi:
a) che "la trappola distava 80 metri dalla casa palesemente nella disponibilità dell'imputato";
b) che quest'ultimo fu sorpreso in possesso degli attrezzi necessari all'armamento della trappola stessa. Ed invero, la coordinazione logica di tali dati di fatto giustifica pienamente la conclusione adottata, in quanto il possesso degli attrezzi da un lato è specificamente funzionale nel senso dell'attivazione della trappola e dall'altro non potrebbe avere una diversa destinazione.
La valutazione delle circostanze di fatto è, quindi, per un verso esente dai
denunciati vizi logici e, per l'altro, correttamente allineata con la citata
giurisprudenza di questa Corte (in base alla quale la nozione di esercizio di
attività venatoria usata dalla L.157/92 comprende non solo l'effettiva
cattura o uccisione della selvaggina, ma anche ogni attività preliminare e la
complessiva organizzazione dei mezzi e, di conseguenza, qualsiasi attività,
desumibile dall'insieme delle circostanze di tempo e di luogo, che appaia
diretta al suindicato fine). Di mero fatto, e quindi non consentite in sede di
legittimità, sono le ulteriori deduzioni del ricorrente circa, in particolare,
la mancanza di prova della "disponibilità in capo al ricorrente dell'abitazione
nelle vicinanze dell'accaduto" e di "considerazione in relazione alla modalità
di funzionamento della trappola".
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali, nonché (non essendovi elementi per ritenere
un'assenza di colpa) al versamento in favore della Cassa delle ammende della
somma, equitativamente fissata, di cinquecento euro.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali nonché al versamento di euro cinquecento alla Cassa
delle ammende.
Così deliberato il 24.1.2006