Il codice dei beni culturali
di
Alessandro Ferretti
Il primo maggio 2004 ha segnato una data fondamentale per la tutela dei beni culturali del nostro Paese. Per la prima volta, dopo anni e anni di interventi normativi, il legislatore ha deciso di realizzare un vero e proprio Codice dei beni culturali (d. lgs. n. 42/2004). Il provvedimento è stato accompagnato, prima ancora di venire ad esistenza per l’ordinamento giuridico, da polemiche di carattere allarmistico, che hanno provocato disagio e malumore tra i cittadini, tanto da far pensare - e, diciamolo subito, erroneamente - addirittura a vendite incontrollate di monumenti storici nazionali o ad una dismissione generalizzata del patrimonio pubblico culturale.
In realtà, questo pericolo non sussiste, o quantomeno non è questa la situazione a rischio, che dovrebbe provocare allarme tra i cittadini, semmai altre sono le difficoltà che potrebbero presentarsi nell’applicazione delle norme del Codice e che devono essere tenute presenti ai fini di un efficace controllo della materia.
Procedendo con ordine, era davvero necessario adottare un Codice per la tutela dei beni culturali? Il quesito non è di poca importanza ove si rifletta sul fatto che pochi anni fa – nel 1999, con il d. lgs. n. 490 – è stato adottato un Testo Unico, diretto a riorganizzare l ‘intera materia. Ci si può chiedere perché il legislatore ha preferito procedere alla redazione di un codice, invece che alla revisione del Testo Unico.
La risposta è conseguente: adeguare la normativa sui beni culturali ai dettami imposti dalla revisione del Titolo V della Costituzione, che ha innovato il riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali, attribuendo la prima a livello centrale e la seconda a livello periferico.
In realtà - e questo è il primo mito da sfatare - parallelamente ad una serie di novità di rilievo contenute nel Codice permangono, in molti casi, le stesse norme che erano presenti nel precedente T.U. o in altra normativa di settore. Il legislatore delegato non ha innovato completamente la materia, limitandosi a razionalizzarla con alcune novità. Questa operazione poteva essere ben condotta anche con una revisione della normativa di settore, senza procedere ad una presunta codificazione, ingenerando nella collettività la falsa convinzione di una radicale riforma della regolamentazione esistente. Probabilmente, in questo modo, sarebbe stato anche minore l’allarme suscitato, basato più sulla apparenza della novità che sulla sua effettività.
Una vera novità, invece, è rappresentata dai primi articoli del provvedimento che forniscono per la prima volta tutta una serie di definizioni - fondamentali - per la materia. Si scopre così che anche il paesaggio fa parte del patrimonio culturale dello Stato, costituendo espressione dei valori storici, culturali, naturali e morfologici del territorio.
Si individua una sorta di prevalenza della tutela – garantire la protezione e la conservazione del bene culturale per fini di pubblica fruizione – nei confronti della valorizzazione – promuovere la conoscenza del patrimonio culturale ed assicurarne le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica – dovendo quest’ultima essere attuata in forme compatibili con la prima, senza pregiudicarne le esigenze.
Si riconosce in capo ai privati un vero e proprio obbligo di conservazione dei beni culturali di appartenenza. Si tratta di una responsabilizzazione del privato che è tenuto in prima persona ad intervenire nell’attività di tutela, ricevendo anche contributi dello Stato e sgravi fiscali.
E’ prevista la possibilità di dare in comodato il bene culturale a strutture museali statali che, pertanto, finiscono per togliere al privato ogni onere di custodia e di restauro del bene, seppur per un tempo limitato.
Un impulso importante è diretto alla possibilità di outsourcing, di esternalizzazione delle attività e dei servizi “culturali”, ai fini di garantirne una migliore efficienza, così come alla costituzione di fondazioni e al ricorso a strumenti contrattuali, come la sponsorizzazione, per valorizzare in modo adeguato il patrimonio culturale.
A fronte di tali novità, sicuramente positive, permangono dei dubbi, soprattutto a livello interpretativo, di alcune norme; dubbi che si sono rivelati dei veri e propri tormentoni, capaci di coinvolgere a tutto tondo l’attenzione della collettività.
Opinionisti ed esperti del settore – come ad esempio il Prof. Settis – pur apprezzando in generale l’intervento del legislatore per la sua azione di razionalizzazione della materia, ritengono che alcuni meccanismi normativi possano o debbano essere migliorati.
E’ il caso, ad esempio, di quel procedimento che prende il nome di verifica dell’interesse culturale dei beni demaniali, al quale, in buona sostanza, devono essere sottoposte tutte le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private.
L’oggetto della critica non è tanto puntato sulle modalità attuative del procedimento, quanto sul limite temporale imposto dal legislatore e denso di conseguenze negative, che sono riassunte nella formula del “silenzio-assenso”. Nel caso in cui, dopo 120 giorni, dall’inizio del procedimento di verifica , l’Amministrazione non fornisca alcuna risposta in merito alla sussistenza dell’interesse culturale del bene, il silenzio sarà equivalente ad un esito negativo. Seguendo il ragionamento della critica appare chiaro che il verificarsi di questa evenienza non sembra prevedibile come del tutto isolata o episodica, considerata l’endemica carenza di personale delle Soprintendenze territoriali e l’immensità del patrimonio da sottoporre a verifica.
Sta di fatto che il richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 12 del Codice al decreto legge n. 269/2003 – che introduce il concetto di silenzio assenso appena delineato – rappresenta - a detta di alcuni esperti - una vera spada di damocle che il legislatore avrebbe fatto meglio a tenere fuori del sistema, al fine di evitare inutili imbarazzi interpretativi ed applicativi.
Un’ultima critica, infine, viene rivolta alla assenza della previsione di un adeguato periodo transitorio nel passaggio dal vecchio sistema al nuovo, che inevitabilmente può comportare difficoltà per chi quotidianamente è chiamato ad applicare le norme relative.
In conclusione, il Codice rappresenta una novità nel panorama della legislazione sui beni culturali che, a fronte di alcune innovazioni significative, necessiterà di un adeguato periodo di rodaggio per verificare eventuali punti di criticità da correggere nel tempo previsto dalla normativa, fissato in due anni dalla sua entrata in vigore.