Cass. Sez. III n. 22294 del 13 giugno 2025 (PU 6 feb 2025)
Pres. Ramacci Rel. Gentili Ric. El Khaouad
Caccia e animali.Abbattimento rituale
Sebbene l'abbattimento di animali (nella fattispecie, 6 montoni) corrisponda ad una legittima pratica religiosa propria del credo islamico, se eseguito senza il previo stordimento delle bestie interessate ed in un locale non avente le caratteristiche proprie della struttura denominabile "macello" integra l'elemento oggettivo dei reato di cui all'art. 544-bis cod. pen.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Torino ha, con sentenza del 3 maggio 2024, parzialmente riformato la precedente sentenza con la quale, in data 16 ottobre 2020, il Tribunale di Cuneo aveva dichiarato la penale responsabilità di El Khaouad Hicham, in concorso con El Mountasser Hicham, Ghali Abdelouahad e El Khaouad Yaouad, in ordine al reato di cui all'art. 544-bis cod. pen., sia consumato che tentato (così riqualificata la condotta loro ascritta, precedentemente sussunta entro il paradigma normativo di cui 544-ter, commi primo e terzo, cod. pen.) per avere, in concorso fra loro e con altro soggetto, nei cui confronti in quanto minorenne si è separatamente proceduto, sottoposto a sevizie ed ucciso - avendo adibito l'autorimessa di un'abitazione privata, ubicata in Comune di Cuneo, a macello clandestino - 3 esemplari di montoni precedentemente acquistati vivi dal Ghali e dal El Mountasser, che venivano abbattuti tramite la iugulazione e successivamente decapitati, e per avere tentato di sottoporre alla medesima pratica altri 3 esemplari di montone uno dei quali veniva sottoposto all'"incaprettamento" (cioè nell'unione delle quattro zampe vincolate con un'unica corda) mentre gli altri erano stati relegati in un angusto spazio in attesa della medesima operazione.
Con la sentenza di primo grado gli imputati erano stati, pertanto, condannati, esclusa la ricorrenza delle attenuanti generiche stante le modalità particolarmente cruente della condotta, alla complessiva pena di mesi 8 di reclusione ciascuno, oltre accessori.
La Corte subalpina, adita da tre degli originari imputati (non risulta, infatti, che El Mountasser Hicham abbia impugnato la sentenza emessa in primo grado) ha ritenuto i predetti meritevoli della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nei certificati penali dei medesimi richiesti ad istanza dei privati, tenuto conto della incensuratezza degli stessi e della circostanza che la condotta delittuosa era stata originata dalla esigenza di rispettare un precetto religioso imposto dalla fede mussulmana da essi professata in materia di macellazione delle carni di animali commestibili.
Nel resto, tuttavia, la Corte territoriale ha ritenuto di dovere, invece, confermare la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza in tal modo pronunziata ha interposto ricorso per cassazione la difesa dell'imputato El Khaouad Hicham, articolando 3 motivi di impugnazione: un primo motivo concerne la violazione di legge per avere trascurato i giudici del merito di esaminare la compatibilità della applicazione, quanto al caso ora in esame, della norma precettiva che si assume essere stata violata, cioè l'art. 544-bis cod. pen., con la contestuale vigenza sia dell'art. 4 del Regolamento Ue n. 1099 del 2009, il quale, prevede una specifica deroga, in materia di abbattimento di animali, ai particolari metodi di macellazione prescritti da riti religiosi, a condizione che questa avvenga in uni "macello", sia dell'art. 1, punto 3, del Regolamento Ue n. 853 del 2004, il quale a sua volta, dispone che la disciplina in esso contenuta, ivi compresa quella che detta una definizione normativa della nozione di "macello", non si applichi laddove di tratti di "produzione primaria per uso domestico privato".
Ha, altresì, aggiunto, la ricorrente difesa che la Corte territoriale subalpina avrebbe ulteriormente travisato il contenuto della normativa pertinente, non avendo considerato che l'art. 19-ter delle disp. di coord. cod.
pen. espressamente esclude l'applicabilità della previsione prescrittiva la cui violazione è ora contestata al prevenuto sia nei casi in relazione ai quali sia prevista la applicazione di altre leggi speciali in materia di animali, sia in ordine alle "manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla Regione competente"; l'avere istituito un parallelismo comportamentale, come fatto dalla Corte distrettuale, fra l'utilizzo di esche vive per la pesca sportiva e la macellazione secondo le modalità previste dal rituale islamico è operazione, oltre che giuridicamente non pertinente, poco rispettosa del sentimento religioso, costituzionalmente garantito, dell'imputato.
Un secondo motivo di impugnazione concerne il vizio di motivazione che minerebbe la sentenza emessa in sede di gravame per avere, da una parte, la Corte territoriale sostenuto la compatibilità della metodica della macellazione rituale islamica con le disposizioni penali presenti nell'ordinamento, salvo poi ritenere, in assenza di una solida base probatoria, quanto al caso in esame, che, sia stato violato, sia in forma tentata che in forma consumata, il precetto di cui all'art. 544-bis cod. pen.
Infine, con il terzo motivo di doglianza si censura il fatto che la Corte di Torino avrebbe confermato l'affermazione della penale responsabilità del prevenuto, sebbene, pur avendo formato oggetto la questione di ricorso in grado di appello, non sia stata fornita in sede di merito la prova di un suo apporto causale, vuoi in forma morale vuoi in forma materiale, alla commissione del reato in contestazione.
La ricorrente difesa ha anche censurato l'avvenuta conferma della esclusione delle circostanze attenuanti generiche in favore del ricorrente, e la conseguente determinazione della pena; gli elementi mitigatori del trattamento sanzionatorio sarebbero state riconoscibili in relazione al particolare movente che ha determinato la condotta attribuita all'imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato per le ragioni che saranno di seguito espresse.
Deve, preliminarmente, rimarcarsi il dato obbiettivo costituito dal precetto normativo che - in parte in forma consumata ed in parte in forma tentata (ma tale distinzione ora non rileva non essendo stata in alcun modo censurata la efficienza sintomatica degli atti posti in essere nei confronti dei capi di bestiame ancora non abbattuti come evidentemente prodromici al loro imminente abbattimento secondo le medesime modalità seguite per l'avvenuta macellazione delle altre bestie di cui al capo di imputazione) - si assume essere stato violato dal prevenuto; esso, costituito dall'art. 544-bis cod. pen. (così è stata, infatti, modificata la originaria imputazione, la quale in precedenza prevedeva la violazione dell'art. 544-ter cod. pen.), ha ad oggetto la condotta di chi, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale.
Nel caso ora in esame si era verificato, secondo quanto incontestatamente riportato nella due sentenze di merito, che in data 1 settembre 2017 - significativamente in coincidenza con una ricorrenza prevista dal calendario religioso islamico, denominata Festa del sacrificio, nel corso della quale, in ricordo del sacrificio, la cui narrazione è presente sia nella tradizione letteraria biblica che in quella coranica (sia pure con la differenza della figura del sacrificato: Isacco nella tradizione biblica; Ismaele in quella coranica), che il profeta Abramo, onde dimostrare la sua obbedienza al volere divino, sarebbe stato disposto a fare del suo stesso figlio, in occasione della quale i soggetti osservanti sono soliti procedere, secondo specifiche modalità atte a preservare la purezza del prodotto alimentare, all'abbattimento rituale di animali commestibili i cui singoli lacerti vengono poi distribuiti fra i fedeli - all'interno di un'autorimessa venivano trovate dalle forze dell'ordine (ivi confluite per ragioni del tutto indipendenti dall'oggetto del presente giudizio) talune persone, fra le quali l'odierno ricorrente; all'interno del locale in questione venivano, altresì, rivenuti, oltre a coltelli insanguinati e materiale ematico sparso sul terreno, i corpi, uno dei quali già scuoiato ma non ancora depezzato, di 3 ovini, di sesso maschile, uccisi attraverso la metodica della iugulazione - cioè attraverso la recisione dei vasi sanguigni del collo tale da determinare il rapido e completo dissanguamento della bestia - che non era stata preceduta da alcuna forma di stordimento dei medesimi, e 3 altri animali della stessa specie, uno dei quali già presentava la comune legatura della 4 zampe (cosiddetto "incaprettamento") mentre gli altri 2, in evidente attesa, come l'altro, di essere sottoposti anch'essi alla iugulazione rituale, erano custoditi in un angolo del predetto locale.
Sulla base dei descritti dati di fatto i giudici di merito hanno ritenuto dimostrata la penale responsabilità dei soggetti che si trovavano al momento dell'accesso delle forze dell'ordine all'interno della autorimessa e fra questi, pertanto, anche dell'odierno ricorrente.
Nell'impugnare il provvedimento emesso dalla Corte subalpina la difesa del prevenuto ha, in primo luogo, dedotto la insussistenza del fatto sostenendo, in sintesi, che il fatto attribuito, fra l'altro, al ricorrente non rientrerebbe fra quelli stigmatizzati dalla citata norma precettiva, in quanto la uccisione delle bestie in questione sarebbe stata finalizzata alla esigenza di procedere alla loro macellazione secondo il rituale metodo seguito nella religione islamica.
Ciò posto, rileva il Collegio come, la natura rituale, cioè legata al rispetto di determinate metodiche dettate dal credo religioso professato dal ricorrente, non è di per sé fattore idoneo a scriminare la condotta a lui attribuita.
Invero, prendendo le mosse dalla stessa norma costituzionale dettata dall'art. 3 della Costituzione che, rendendo non solo virtuale ma effettiva la previsione di eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini (espressione quest'ultima, evidentemente da riferirsi a tutte le persone, non essendo limitata ai soli individua aventi la cittadinanza italiana), di fronte alla legge, sancisce il ripudio, fra le altre, di ogni forma di discriminazione che sia basata sulla religione professata, costituendo la scelta religiosa una delle forme in cui si estrinseca la libertà e la personalità dell'individuo, l'art. 19 della Costituzione repubblicana sancisce per ogni soggetto dell'ordinamento il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma e di professarne il culto "purché non si tratti di riti contrari al buon costume".
Va subito precisato che con tale espressione ("buon costume") non si intende certo alludere alle sole condotte che, come invece avviene, per gli atti osceni (cfr. art. 529 cod. pen.), offendono, secondo il comune sentimento, il pudore, cioè a quelle condotte che avendo connotazione sessuale - tenuto conto della sensibilità dei consociati di normale levatura morale, intellettuale e sociale nell'attuale momento storico - suscitano nell'osservatore rappresentazioni e desideri erotici ovvero cagionano una reazione emotiva immediata di disagio, turbamento e repulsione in ordine ad organi del corpo o comportamenti sessuali, i quali, per ancestrale istintività, continuità pedagogica e stratificazione di costumi ed esigenze morali, tendono a svolgersi nell'intimità e nel riserbo (Corte di cassazione, Sezione III penale, 8 maggio 2015, n. 19178, rv 263374; Corte di cassazione, Sezione III penale, 23 settembre 2004, n. 37395, rv 230042), ma essa deve essere riferita al più generale concetto di boni mores e di honeste vivere il quale risulta indubbiamente violato ogniqualvolta un determinato comportamento si pone in contrasto con un precetto penale.
Deve, pertanto, escludersi che, di per sé, il fatto di avere tenuto la condotta contestata in ossequio ad un precetto religioso, ancorché lo stesso sia riferito ad un credo religioso avente una globale diffusione e sia liberamente praticato da una elevata percentuale di individui, anche all'interno dei confini nazionali, possa costituire un fattore idoneo a scriminare la predetta condotta, la quale deve essere, pertanto, scrutinata, quanto alla sua legittimità, secondo gli ordinari criteri applicabili a ciascuno dei consociati.
Fatta questa precisazione, rileva il Collegio che non valgono a dimostrare la sussistenza del preteso vizio di violazione di legge né quello di motivazione i richiami contenuti nell'atto di gravame alla normativa sovranazionale disciplinante le modalità di macellazione delle bestie.
Invero, sebbene tale normativa debba, evidentemente, essere considerata nell'opera di interpretazione dell'art. 544-bis cod. pen., il quale, nel vietare l'uccisione degli animali, fa ovviamente salve, dovendo esse rientrare nella ipotesi derogatoria della necessità di procedere all'uccisione dell'animale, la sua macellazione a fini alimentari, tuttavia l'esame della disciplina anche sovranazionale in materia di macellazione non conduce ad escludere la rilevanza penale della condotta attribuita al prevenuto.
Invero siffatta normativa, da intendersi come integrativa del precetto penale (in quanto, appunto, volta a dare uno dei possibili significati in cui va declinata, per escluderne la ricorrenza nel caso di specie, la espressione "senza necessità" contenuta nella disposizione precettiva che si assume essere stata violata) prevede, fra l'altro, che, per la tutela del generale interesse acchè le attività di macellazione animale si svolgano in maniera tale da preservare (va realisticamente aggiunto, dato l'oggetto della normativa stessa, nei limiti del possibile) il "benessere animale", queste si svolgano all'interno di strutture, soggette ad una procedura di riconoscimento pubblico preventivo tale da assicurare la loro conformità a norme tecniche applicabili in materia di sicurezza degli alimenti, con la precisazione che siffatte strutture debbano prendere espressamente in considerazione l'esigenza di assicurazione del "benessere degli animali" (Considerando 8 del regolamento CE n. 1099 del 2009), dovendo, pertanto, ritenersi che a siffatte condizioni l'uccisione dell'animale, le cui carni siano commestibili, non vada intesa "senza necessità".
Precisa il successivo art. 4, paragrafo 1, del citato Regolamento che l'abbattimento degli animali debba avvenire "previo stordimento" e che siffatta condizione di "perdita delle coscienza e della sensibilità (vada) mantenuta sino alla morte dell'animale".
Una tale prescrizione è, tuttavia, derogabile, secondo la previsione del successivo comma 4 del già citato art. 4 del Regolamento n. 1099 del 2009, laddove la macellazione avvenga attraverso l'applicazione di particolari metodiche prescritte da riti religiosi, ma ciò in quanto essa "abbia luogo in un macello".
Come abbiamo visto nella parte descrittiva della presente fattispecie, invece, è chiaramente risultato che l'avvenuta macellazione dei 3 ovini di cui alla imputazione e quella programmata dei restanti 3, era avvenuta e sarebbe dovuta avvenire senza che si fosse proceduto allo stordimento degli stessi e le operazioni, esecutive e prodromiche all'abbattimento delle bestie si erano svolte all'interno di un locale abitualmente adibito ad autorimessa, quindi all'evidenza, non in una locale normativamente qualificabile come "macello".
Né ha un rilievo il dato, enfatizzato dalla difesa del ricorrente, secondo il quale la disciplina che impone che l'abbattimento degli animali da adibire ad uso commestibile debba avvenire all'interno di una struttura avente caratteristiche tali da consentire l'attribuzione ad essa del predicato di "macello" in senso tecnico trova una deroga per ciò che attiene alle ipotesi di macellazione destinata "alla produzione primaria per uso domestico privato" ovvero, si aggiunge ora, a quelle inerenti "alla preparazione, alla manipolazione e alla conservazione domestica di alimenti destinati al consumo domestico privato" (in tale senso si veda il Regolamento CE n. 853 del 2004, art. 1, comma 3, lett. a e b). Invero la prevista esenzione consente che sia derogata la normativa in materia di repressione della macellazione clandestina contenuta nell'art. 6, comma 1, del dlgs n. 193 del 2007, consentendo, pertanto, che la macellazione di animali possa avvenire in luoghi diversi dagli stabilimenti o dai locali (...) riconosciuti ai sensi del (Regolamento n. 853 del 2004), laddove essa sia finalizzata al "consumo domestico privato" (si veda al riguardo: Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 novembre 2024, n. 44345, non mass., nonché: Corte di cassazione, Sezione III penale, 2 agosto 2022, n. 30428, rv 283413), ma non ha un immediato effetto sulla diversa disciplina dettata dal combinato dall'art. 544-bis cod. pen. e dell'art. 4 del più volte ricordato Regolamento CE n. 1099 del 2009.
Vuole con ciò intendersi che la deroga - prevista in ossequio alle esigenze connesse ad una ritualità religiosa - all'obbligo di procedere alla macellazione delle bestie commestibili previo loro stordimento, è legittimamente operante solo in quanto siffatta pratica avvenga all'interno di un "macello" avente le caratteristiche normative per essere definito tale; ma non anche che la deroga alla necessità di procedere alla ordinaria macellazione all'interno di una delle strutture aventi le dette caratteristiche, resa possibile dal fatto che le operazioni abbiano quale loro finalità "l'uso domestico privato", estenda i suoi effetti anche alle eventuali modalità rituali della macellazione in assenza del preventivo stordimento della bestia.
Un ulteriore elemento di giudizio in tale senso è rinvenibile anche nella relativamente recente normativa introdotta per il tramite del dlgs n. 27 del 2021 il quale - sebbene entrato in vigore successivamente alla realizzazione delle condotte oggetto del presente giudizio e, pertanto, non direttamente applicabile ad esse - costituisce un affidabile indice interpretativo anche della previgente legislazione essendo lo stesso stato emanato in attuazione della normativa unionale già vigente in materia, alla luce della quale va interpretata ed applicata anche quella interna.
Infatti, l'art. 16, comma 1, lett. b), del dlgs n, 27 del 2021 conferma il divieto, anche in caso di macellazione rituale, di metodi di abbattimento dell'animale che non siano stati preceduti da suo stordimento.
Non coglie nel segno il richiamo operato dalla ricorrente difesa all'art.
19-ter delle norme di coordinamento al codice penale; infatti siffatta disposizione, la quale prevede la sussidiarietà delle disposizioni codicistiche in materia di delitti contro il sentimento per gli animali laddove la materia sia disciplinata da normative speciali, e fra queste si richiamano anche quelle in tema di macellazione degli animali, non entra in giuoco nella presente ipotesi, atteso che, come dianzi dimostrato, la fattispecie ora in esame esula rispetto alla normativa dettata dal dlgs n. 193 del 2007, la quale è volta a tutelare principalmente la salubrità dei prodotti commestibili derivanti dalla macellazione deli animali e non, come invece si verifica nel caso che ora interessa, a reprimere le violazioni del sentimento di rispetto che l'uomo deve avere nei confronti degli animali e che gli impone di non infliggere loro inutili sofferenze, tanto più ove queste siano tali da condurre quelli, senza un giustificato motivo, a morte.
Correttamente, pertanto, i giudici del merito - preso atto che, sebbene l'abbattimento, in parte realizzato ed in parte inequivocabilmente programmato, dei 6 montoni di cui al capo di imputazione abbia corrisposto ad una legittima pratica religiosa propria del credo islamico, esso è stato eseguito senza il previo stordimento delle bestie interessate ed in un locale non avente le caratteristiche proprie della struttura denominabile "macello - hanno ritenuto io stesso fosse tale da integrare l'elemento oggettivo dei reato di cui all'art. 544-bis cod. pen.
Cionondimeno la impugnazione del ricorrente è, nella fattispecie e come già dianzi segnalato, fondata; ciò in particolare quanto al terzo motivo di doglianza.
Con esso, infatti, la ricorrente difesa aveva lamentato come fosse stata omessa da parte della Corte territoriale ogni valutazione in relazione al motivo di impugnazione con il quale era stata posta in discussione la esistenza di un diretto apporto, morale o materiale, offerto dall'attuale ricorrente alla realizzazione della condotta di cui al capo di imputazione.
Una tale censura, cioè di omessa motivazione, è fondata.
In effetti in sede di redazione dei motivi di gravame la difesa dell'E!
Khaouad si era lagnata del fatto che il giudice di primo grado, il quale aveva riscontrato un'ipotesi di concorso di persone nel reato, non fosse stato in grado di precisare chi fra i concorrenti avesse materialmente posto in essere la condotta costituente reato né quale fosse stata la condotta personalmente addebitabile al suo assistito, non essendo stato precisato, quanto al predetto, né se egli aveva posto in essere la condotta tipica del reato in contestazione o almeno una porzione di essa, né se egli, fornendo alla realizzazione del reato un contributo causale atipico, avesse partecipato, consapevole di quelli che ne sarebbero stati gli esiti, alla fase preparatoria di esso ovvero avesse determinato o istigato i compartecipi alla commissione del reato.
A fronte di tale articolato motivo di gravame la Corte territoriale si è limitata, non fornendo una puntuale risposta ad esso, a rappresentare il fatto che l'attuale prevenuto fosse presente sul luogo ove le più volte ricordate bestie sono state sgozzate ovvero stavano per esserlo, senza in alcun modo chiarire, eventualmente precisando le ragioni di tale sua convinzione, se siffatta presenza fosse indicativa di una partecipazione del prevenuto alla commissione del reato e perché essa non potesse essere espressione di una semplice connivenza non punibile.
Va, infatti, rilevato che, sulla base della radicata giurisprudenza di questa Corte il criterio distintivo fra le due ipotesi - quella di partecipazione, sia pure atipica, alla condotta costituente reato e quella di connivenza con gli autori di esso - non è ricavabile sulla base della mera presenza del soggetto di cui si tratta sul luogo ove il reato viene perpetrato, a meno che questa non sia accompagnata da atti idonei, quanto meno, a determinare un rafforzamento del proposito dell'autore materiale del reato ed ad agevolare la sua opera, sempre che il concorrente si sia rappresentato l'evento del reato ed abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell'autore materiale (Corte di cassazione, Sezione II penale, 8 luglio 2013, n. 28855, rv 256465).
Tale principio è stato, altresì, confermato con l'osservazione che non può considerarsi a tale fine sufficiente la semplice condotta omissiva, occorrendo, al fine di radicare una responsabilità concorsuale nel reato, che sussista un contributo materiale o psicologico che abbia consentito una più agevole commissione di esso, se non altro stimolando o rafforzando il proposito criminoso del concorrente (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 8 gennaio 2003, n. 61, rv 222976).
Elementi fattuali questi cui la Corte di appello, del tutto negligendo l'esame del motivo di ricorso a tal riguardo proposto dalla ricorrente difesa, non ha affatto evidenziato quanto alla posizione dell'attuale ricorrente.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio sul punto, competendo, conseguentemente, al giudice del rinvio, individuato come da dispositivo, l'esame del motivo di impugnazione, sino ad ora trascurato, riferito alla sussistenza o meno dell'apporto causale del ricorrente alla condotte delittuosa, rappresentando le ragioni per le quali questi, pacificamente presente sul luogo ove il delitto è stato consumato, possa essere considerato un concorrente dello stesso ovvero un soggetto meramente connivente con quanti lo hanno posto in essere.
L'accoglimento dei descritto motivo assorbe, evidentemente le ragioni impugnatorie aventi ad oggetto il trattamento sanzionatorio riservato al ricorrente.
PQM
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.
Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2025