Cass. Sez. III n. 10122 del 16 marzo 2021 (Ud 18 dic 2020)
Pres. Sarno Est. Gentili Ric. Marmo
Caccia e animali.Nozione di gravi sofferenze
Il reato di cui all’art. 727, co 2 c.p. si verifica ogni qual volta risulti che un soggetto detenga animali in condizioni tali da determinare loro gravi sofferenze, dovendosi intendere queste ultime sussistenti non solo in quanto le modalità di detenzione determinino la insorgenza di processi patologici ma anche in quanto siano tali da determinare a carico dei quelli mere sofferenze
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Vercelli, in composizione monocratica, ha, con sentenza del 1 aprile 2019, dichiarato la penale responsabilità di Marmo Piergiorgio e di Marmo Mauro in ordine al reato, in ipotesi commesso in concorso fra i due, di cui all’art. 727, comma 2, cod. pen., per avere detenuto n. 28 cavalli, 11 asini ed 1 mulo in condizioni incompatibili con la loro natura e produttivi per le predetta bestie di gravi sofferenze.
In particolare, secondo la accusa ritenuta comprovata in giudizio, gli animali di cui sopra erano allevati in ambienti sporchi, privi di acqua, in condizioni di degrado statico e di dimensioni insufficienti; gli stessi erano caratterizzati dalla presenza di liquami fangosi, feci non rimosse e carcasse di altri animali in istato di decomposizione.
Il Tribunale di Vercelli ha, pertanto, condannato i predetti imputati - il secondo in quanto titolare e gestore dell’allevamento, il primo in quanto medico veterinario che, ben a conoscenza della situazione esistente nell’allevamento condotto dal coimputato, del quale egli è, peraltro, il fratello, si occupava personalmente e stabilmente degli aspetti sanitari riguardanti la citata struttura – alla pena di euro 4.500,00 di ammenda Marmo Mauro ed alla pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, di euro 3.000,00 di ammenda Marmo Piergiorgio, avendo per ambedue escluso i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna pronunziata.
Il Tribunale, tenuto conto della condanna, ha altresì disposto la confisca delle bestie in sequestro ed il loro affidamento ad enti od associazioni competenti che ne facciano richiesta da individuarsi tramite la Polizia giudiziaria.
Avverso la sentenza del Tribunale hanno interposto ricorso per cassazione i due imputati, assistiti dal comune difensore di fiducia, affidando le loro doglianze a 5 motivi di impugnazione.
Il primo motivo riguarda la stessa integrazione del reato loro contestato.
Il secondo motivo di ricorso ha ad oggetto la illogicità e la contraddittorietà della motivazione della sentenza emessa a loro carico in relazione alla sussistenza per ciò che riguarda la posizione dell’imputato Marmo Mauro della condotta vietata.
Il terzo motivo è relativo al vizio di motivazione riguardante l’affermazione della responsabilità penale di Marmo Piergiorgio.
Il quarto motivo di ricorso attiene alla mancanza di motivazione in ordine alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Infine, l’ultimo motivo concerne la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche all’imputato Marmo Mauro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è risultato fondato quanto alla posizione dell’imputato Marmo Piergiorgio, e, pertanto, la sentenza emessa nei suoi confronti deve essere annullata.
Essendo, invece, risultato infondato il ricorso per ciò che attiene alla posizione dell’imputato Marmo Mauro, lo stesso, nella parte in cui esso ha ad oggetto la posizione di tale secondo imputato, deve essere rigettato.
Esaminando, prioritariamente, la posizione del ricorrente Marmo Piergiorgio, ritiene la Corte che la motivazione della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal Tribunale di Vercelli sia minata da un’insanabile contraddizione in ordine alla affermazione della sua partecipazione, a titolo di concorrente, nel reato contestato ai due prevenuti.
Ed infatti, premesso che Marmo Piergiorgio non è pacificamente il gestore del maneggio ove erano allevati gli equidi di cui al capo di imputazione ma è persona che, vuoi per la sua qualifica professionale di medico veterinario, vuoi per il suo rapporto familiare con il correo Marmo Mauro, del quale è, come ricordato, il fratello, vuoi perché è, a sua volta, titolare di un allevamento di ovini la cui ubicazione è indicata in sentenza non distante dal maneggio gestito dal fratello, si trovava a frequentare siffatta struttura.
Da tale circostanza il Tribunale ha, con un evidente salto logico, desunto la esistenza di elementi sufficienti per affermare la responsabilità penale anche di questo imputato nel reato.
E’, infatti, riportato in sentenza che risulterebbe dimostrata un’ingerenza o quanto meno una collaborazione di fatto nella gestione delle varie necessità dell’allevamento da parte di Marmo Piergiorgio tale che non poteva che essergli nota la situazione esistente; salvo poi, in aperta contraddizione con quanto sopra riportato, ammettere lo stesso Tribunale che, sebbene fosse stata accertata la formale estraneità dell’imputato ora in questione allo svolgimento dei compiti connessi con l’attività di allevamento (a tale proposito è significativo rilevare come lo stesso Tribunale segnali che Marmo Piergiorgio intervenisse solo in quanto in tale senso richiesto da fratello, con compiti pertanto di carattere meramente esecutivo e privi di autonomia gestionale), tuttavia la sua condotta “tanto più se letta alla luce della sua posizione e delle competenze di medico veterinario, non può essere equiparata a quella di mera connivenza non punibile”.
Tale affermazione, la quale postula l’assunzione di una sorta di posizione di garanzia da parte del prevenuto in esame legata alla sua qualifica di operatore sanitario, cozza con il rilievo che, quanto meno alla luce del capo di imputazione contestato, le bestie in discorso non presentavano delle patologie non curate tali da poter coinvolgere la specifica posizione professionale dell’imputato citato (al riguardo deve osservarsi come sia fuori luogo il riferimento operato dal Tribunale, onde dimostrare la condizione di illiceità della condotta del imputato in discorso, alla sussistenza in capo al prevenuto di una sua possibile mancanza all’obbligo di referto di cui all’art. 335 cod. pen., in quanto - anche a voler prescindere dalle possibili difficoltà interpretative derivanti dall’applicazione dell’art. 335, comma secondo, cod. pen., essendo incerto se in una condizione quale è quella che caratterizza il medico veterinario, per persona assistita, in relazione alla quale il rischio che questa sia, per effetto del referto fatto dal medico, sottoposta a procedimento penale, costituisce elemento negativo della fattispecie, debba intendersi l’uomo che abbia sollecitato l’intervento del veterinario, ovvero, con interpretazione ampiamente estensiva, la bestia sulla quale il medico veterinario sia intervenuto - in ogni caso l’obbligo in questione scatta solo in presenza di un delitto perseguibile di ufficio e non anche in un caso, quale è il presente, di contravvenzione), essendo la contestazione esclusivamente riferita alle modalità materiali di allevamento delle bestie, modalità in relazione alle quali, stante la estraneità del Marmo Piergiorgio alla gestione dell’allevamento, intesa questa nella sua corretta accezione comportante la facoltà di assumere autonomamente delle scelte significative nello svolgimenti di tale attività, non risulta che questi avesse una sua personale “voce in capitolo”.
La sentenza sul punto deve, pertanto, essere annullata, con rinvio al Tribunale di Vercelli che, in diversa composizione personale, valuterà, alla luce dei rilievi esposti la sussistenza o meno degli estremi per l’affermazione della responsabilità a titolo concorsuale nel reato contestato anche dell’imputato Marmo Piergiorgio.
Infondato è, viceversa, il ricorso per ciò che concerne la posizione di Marmo Mauro.
Premesso che il reato contestato si verifica ogni qual volta risulti che un soggetto detenga animali in condizioni tali da determinare loro gravi sofferenze, dovendosi intendere queste ultime sussistenti non solo in quanto le modalità di detenzione determinino la insorgenza di processi patologici ma anche in quanto siano tali da determinare a carico dei quelli mere sofferenze (Corte di cassazione, Sezione III penale, 4 aprile 2019, n. 14734), si rileva che nel caso di specie la sentenza impugnata ha ben chiarito che le modalità di custodia ed allevamento delle bestie detenute dal Marmo fossero indubbiamente tali da generare in queste delle condizioni di vita chiaramente incompatibili con il benessere.
Del tutto privo di fondamento è il secondo motivo di impugnazione, con il quale si deduce una illogicità motivazione ed una contraddittorietà della sentenza in punto relativa alla assenza, nell’allevamento gestito dal Marmo Mauro, delle condizioni minime per il benessere delle bestie ivi ospitate; nessun rilevo ha la circostanza, a lungo valorizzata dal ricorrente, che la presenza del fango all’interno della stalla era frutto di abbondanti piogge, sia perché, in assenza di non rilevati fenomeni esondativi, in ogni caso il fango non si vede perché, ove ci si fosse trovati in condizioni di normale efficienza dell’allevamento, dovesse essere penetrato all’interno degli alloggiamenti degli animali, sia perché non solamente di fango si tratta ma anche di letame, circostanza che fa ritenere che le bestie fossero mantenute negli stessi locali ove veniva conservato il frutto delle loro deiezioni.
Lo stesso dicasi quanto alla struttura edificata all’interno della quale gli animali erano ricoverati, avente una superficie di 24 mq circa, che viene definita, in termini anche eufemistici, “insufficiente ad ospitare i quaranta cavalli” (recte: equidi ndr) ivi allogati.
Parimenti per ciò che attiene ai rifornimenti di cibi e di liquidi che sono stati riferiti essere, secondo quanto la sentenza ha riportato, non adeguati.
Dire che si trattava di un allevamento allo stato brado, come sostenuto dal ricorrente, non comporta certo che le bestie, all’occorrenza, non potessero avere un adeguato locale coperto ove trovare alla bisogna ricovero.
Sul punto la sentenza è del tutto congrua e nessuno dei rilievi al riguardo formulati dalla difesa dell’imputato coglie nel segno.
Riguardo alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 cod. pen. si osserva che si tratta di doglianza che, per come è stata proposta, appare inammissibile.
Invero, sebbene, secondo quanto riportato dal ricorrente, la relativa richiesta fosse stata formulata in sede di conclusioni in esito al dibattimento celebrato di fronte al Tribunale di Vercelli, di tale circostanza non vi è traccia nella sentenza impugnata.
Ciò posto, poichè sia legittima la doglianza di omessa motivazione su di una specifica istanza formulata al giudice procedente è necessario che siffatta richiesta sia stata portata formalmente all’attenzione del giudicante; sarebbe stato, pertanto, onere del ricorrente indicare con la dovuta specificità quando ed in che termini la richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. è stata formulata, né tale omissione può essere sanata attraverso la formulazione del motivo di ricorso per cassazione con il quale si chiede che tale causa di non punibilità sia applicata, essendo fermo e condiviso principio di questa Corte che, laddove la richiesta poteva essere formulata di fronte alle istanze giudiziarie di merito e ciò non sia avvenuto, ovvero non risulti essere avvenuto, siffatta richiesta non può essere formulata per la prima volta in sede di legittimità (così, fra le altre: Corte di cassazione Sezione II penale, 16 maggio 2019, n. 21465).
Riguardo al motivo di ricorso riferito alla mancata attribuzione al ricorrente del beneficio delle circostanze attenuanti generiche si rileva che siffatta scelta è stata adeguatamente motivata da parte del giudice del merito stante la assenza di qualsivoglia iniziativa riparatoria da parte del prevenuto il quale, secondo quanto riferito, senza che ciò abbia trovato un’adeguata smentita, ha anche certato di realizzare il trasferimento degli equidi in un’altra struttura a lui riferibile, la quale - ed in ciò vi è la riprova della assenza di un’adeguata raggiunta consapevolezza del malfatto, fattore questo che si pone, secondo il condivisibile orientamento del giudice di primo grado, siccome ostativo al riconoscimento del beneficio - era egualmente inadatta ad una loro congrua custodia.
Conclusivamente, mentre il ricorso di Marmo Piergiorgio deve essere accolto, nei termini, meglio supra precisati, di cui in dispositivo, quello di Marmo Mauro deve essere rigettato, con la condanna del prevenuto, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
PQM
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Marmo Piergiorgio, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Vercelli, in diversa persona fisica.
Rigetta il ricorso di Marmo Mauro e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2020