Lo strano caso dei diritti degli animali

di David ZANFORLINI

Qualche tempo fa sono capitato quasi per caso in un processo che riguardava alcuni ragazzi arrestati per gravi reati (rapina, furto, resistenza a pubblico ufficiale e altri minori) perché, di fatto, avevano difeso degli “animali non umani” (i noti Beagle di Green Hill) da una devastante e crudele situazione di maltrattamenti.
A parte il processo contro i responsabili dei maltrattamenti (che è terminato con la loro condanna), è rimasto quello sui fautori della difesa “ad oltranza” di questi esseri senzienti e pensando alla difesa mi sono posto il problema del perché il nostro sistema giudiziario continui a perseguirli, giungendo ad una conclusione che si potrebbe definire almeno curiosa e che potrebbe avere, se condivisa fortissime ripercussioni sull’attuale assetto sociale almeno degli italiani.
Il punto di partenza potrebbe essere quello della banale osservazione per cui la difesa di un “animale non umano”, oltre che condivisibile, debba anche essere lecita: basti pensare che se vedo qualcuno che sta bastonando un cane, mi sentirei di intervenire anche con la forza per impedire una azione così indegna, anche se il cane fosse di sua proprietà. Ma siamo sicuri che io così facendo non commetta alcun reato?  
Pare quasi grottesco ma provo a fare un esempio: se vedo qualcuno rompere la sua auto, un qualunque oggetto di sua proprietà, a parte rimanerne perplesso, non solo non mi sentirei di intervenire, ma nemmeno potrei farlo: il suo diritto di proprietà, infatti, gli consente di fare ciò che vuole di un suo bene, anche di distruggerlo. Ed è stato così anche per gli “animali non umani”, come si suole definirli più correttamente oggi, perché il nostro Diritto (civile) individua solo due categorie di beni, quelli mobili e quelli immobili, in ogni caso si tratta di cose sui quali è possibile esercitare il nostro assoluto potere.
Diverso il Diritto Penale italiano in primis e quello transnazionale. Vi faccio un breve riepilogo, il più sintetico possibile.
Il Codice Penale italiano (non avendo in precedenza praticamente norme che tutelassero gli “animali non umani”) ha introdotto nel 2004 una puntuale e precisa Tutela degli Animali (Libro II, Titolo IX bis Cp), identificando senza ombra di dubbio l’”animale non umano” come soggetto primario degno di protezione penale, che viene tutelato, cioè, non solo per proteggere il “sentimento dell’uomo” nei suoi confronti, ma forse anche direttamente, in quanto “soggetto senziente e sensibile”, portatore - se non direttamente di diritti soggettivi - comunque di interessi propri, che il Legislatore sta riconoscendo in modo sempre più palese, sebbene non senza incoerenze. L’evoluzione normativa ha seguito questa nuova visione giuridica e all’art. 189, IX° bis, CdS (comma introdotto dall’art. 31 L. 120\2010) si recita: “L'utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, da cui derivi danno a uno o  più  animali d'affezione, da reddito o protetti, ha l'obbligo di  fermarsi e di porre in atto ogni misura idonea  ad  assicurare  un  tempestivo intervento di soccorso agli animali  che  abbiano  subito  il  danno. Chiunque non ottempera agli obblighi di cui al periodo precedente e' punito (omissis)”. Come appare evidente in questo caso l“’animale non umano” investito ha un proprio diritto al soccorso, non per evitare intralci o pericoli alla circolazione, ma per il solo fatto di essere stato ferito, con ciò confermando che il Legislatore, sulla linea dell’attenzione sociale al problema di tutela degli “animali non umani”, sta “veleggiando” verso un sempre più esplicito riconoscimento di diritti propri in capo a loro.
Quanto alla normativa internazionale deve essere segnalato l’art. 13 del TFUE (13\12\2007): questo articolo fa cessare definitivamente quell’antico retaggio per cui gli “altri esseri viventi” siano mere res, riconoscendoli come esseri senzienti, capaci cioè di provare sensazioni, in grado di capire, di essere felici o tristi, di provare dolore, di essere sensibili, di compiere valutazioni e prendere decisioni autonome, dotati perciò, come noi, seppure in forma diversa, di un’intelligenza da rispettare. Si tratta di una norma positiva che, nell’attuale gerarchia delle fonti del nostro Paese, ha un rango para-costituzionale, nel senso che ha validità immediata per il nostro Ordinamento in quanto non contraria ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale.
E’ evidente che questi interventi normativi, soggetti peraltro ad una costante evoluzione, abbiano dato inizio ad una nuova definizione, dei limiti del rapporto uomo-animale, punendo con maggiore severità, rispetto al passato, le distorsioni di tale rapporto (e così facendo, indubitabilmente finendo per riconoscere implicitamente una “soggettività” propria dell’”animale non umano”, elevandolo dal rango di cosa).
E su questa scia di innovazione giuridica ha dato una risposta positiva anche la giurisprudenza di merito transnazionale, che sta riconoscendo ambiti di applicazione una volta impensabili in questa materia. Il dibattito ha trovato anche due interessanti spunti di riflessione in due sentenze sul tema dell’Habeas Corpus. La prima emessa dalla Corte di Cassazione Argentina, che ha annullato una sentenza che dichiarava inammissibile una richiesta di liberazione di un Orango, disponendo quindi che il ricorso fosse trattato dal giudice di merito; la seconda pronunciata dalla Corte Suprema dello Stato di New York che ha ritenuto ammissibile una petizione sull’Habeas Corpus di due scimpanzé. Entrambe le sentenze sono molto interessanti perché stabiliscono che è ipotizzabile il diritto di un animale a vedere tutelata la propria libertà personale e a non essere sottoposto a detenzione a tempo indefinito.
Una volta delimitato il perimetro della nuova categoria giuridica “dell’essere senziente” e considerati gli sviluppi giurisprudenziali in questione, ci si deve perciò chiedere se sia giusto continuare a considerare e trattare l’”animale non umano” come res, e, a fronte di una risposta negativa, cosa si possa fare per tutelarne i diritti, fino a dove ci si possa spingere quando si dovesse intervenire per tutelare il benessere di un animale, poiché l’unico scopo sarebbe quello di impedire che queste “res non res” subiscano una lesione al proprio diritto al benessere.
Si potrebbe giungere ad una tesi audace, forse rivoluzionaria, che potrebbe piacere a molti di quegli ideologi che, sempre più numerosi, si rivolgono allo studio di questa “nuova frontiera” sia dal punto di vista sociale, che, di conseguenza, anche di quello giuridico. Ma una tesi di questo genere, cioè della sussistenza in capo ad un animale di un diritto soggettivo proprio presenta un difetto sostanziale, quello cioè della necessità di reperire il fondamento costituzionale o, comunque sovraordinato, che consenta di interpretare le norme del Codice Penale in questo senso.
Inutile dire che una norma di tutela dei diritti degli animali tout court, nel nostro Ordinamento, non esiste, se non quella, espressa nel TFUE citata, e forse sta proprio qui il punto di partenza che consente un ragionamento quasi metagiuridico, ma che comunque è opportuno lo stesso svelare.
In concreto l’art. 13 del TFUE non fa che recepire una diffusa ideologia formatasi già da diverso tempo, secondo cui, abbandonando il retaggio della concezione del supremo predominio dell’uomo, vede invece lo sviluppo sociale rivolto ad armonizzarsi con il mondo circostante, con l’ambiente in generale e con gli “animali non umani” in particolare. Orbene, per tornare all’importante tema giuridico che si vuole segnalare, l’art. 13 del TFUE esprime un diritto (quello al benessere), a cui corrisponde il dovere per gli Stati membri (ed i loro cittadini) di tenere “pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”. Resta indiscutibile, perciò, 1) che un diritto sia stato espresso, 2) che questo dipenda dal riconoscimento della “capacità senziente” degli animali in questione, e 3) che, a fronte della statuizione del diritto, sussista la presenza di un corrispondente dovere.
Il principio di diritto espresso dal Testo comunitario ora, come si diceva, deve avere un richiamo costituzionale perché possa avere tutela penale, almeno diretta e non mediata dal sentimento umano per gli animali.
Per ricercare questo appiglio sicuramente non diretto nella nostra Carta Costituzionale, posto che al momento della sue redazione certamente non ci si era posti il problema della esistenza di “diritti non umani”, bisogna forse rivolgere l’attenzione, tramite analogia, ad un altro principio faticosamente espresso negli ultimi secoli che attiene alla abolizione della schiavitù.  Potrebbe sembrare a prima vista una ipotesi estremamente ardita (anche questa), ma sommessamente si ritiene di sottolineare che il principio cardine della riduzione in schiavitù è la privazione della titolarità di diritti.
Il problema quindi risulta essere che, nel momento in cui il soggetto-schiavo diventa anche titolare di diritti (di libertà, uguaglianza, solidarietà, ecc.), sorge il corrispondente dovere, per l’Ordinamento, di impedire che questi diritti vengano annullati, o solo compressi anche in minima parte, e di conseguenza “liberi” il soggetto titolare di quei principi.
Ovviamente si tratta di una semplicistica sintesi della questione, ma è utile per introdurre il passo successivo e cioè dove nel nostro Ordinamento esiste la tutela costituzionale al principio della incompatibilità della schiavitù con la nostra Legislazione (tenendo conto che la schiavitù nella Penisola scomparve giù attorno all’anno 1000). Resta il fatto che il problema della schiavitù per la nostra cultura è un relitto delle società antiche, e pertanto la Costituente non dovette direttamente esprimersi sul punto, ma lo fece, comunque all’art. 2 della Costituzione, quando dichiarò che la Repubblica: “garantisce i diritti inviolabili dell'uomo”.
Qui prosegue, poi, con una altra affermazione, molto importante, con risvolti sicuramente ampi per la nostra discussione, quando scrive: “…e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
C’è da soffermarsi sul significato di solidarietà sociale. Una definizione facilmente reperibile dichiara la solidarietà essere: “un sostantivo che deriva dalla parola francese solidarité che ha come suo significato principale una forma di impegno etico-sociale a favore di altri. Il termine indica un atteggiamento di benevolenza e comprensione che si manifesta fino al punto di esprimersi in uno sforzo attivo e gratuito, teso a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che abbia bisogno di un aiuto”. E ancora: “la benevolenza è messa in moto da una volontà che mira al bene, intendendo che vi sia una voluntas, un atteggiamento spirituale che genera il desiderio di fare del bene”.
Per poi esprimere una sorta di “interpretazione autentica” della norma costituzionale citata, pare utile riferire alcuni stralci della relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione, On. Meuccio Ruini, che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana, quando egli afferma: “Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l'altro ed inscindibile aspetto. Col giusto risalto dato alla personalità dell'uomo non vengono meno i compiti dello Stato. Se le prime enunciazioni dei diritti dell'uomo erano avvolte da un'aureola d'individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana”.
Molti, quindi, i principi richiamati e soprattutto il metodo di approccio ad essi: non vi deve essere un predominio dell’uomo sulla organizzazione di stato, ma vi è un biunivoco rapporto di diritti e doveri che devono essere bilanciati dalla solidarietà. Non vi può essere libertà, dice, senza che si perda di vista la solidarietà.
A questo punto se lo scopo costituzionale è quello di garantire la solidarietà, con il tramite della benevolenza, e non è scritto che essa, la benevolenza, debba esplicitarsi esclusivamente verso gli esseri umani, ben può sostenersi che la solidarietà può avere di mira anche il benessere animale che per questo va tutelato. Di conseguenza la stessa solidarietà non riguarda solo gli esseri umani, ma l’intero ecosistema, anche perché, se non avessimo di mira la tutela di quest’ultimo, indirettamente, come ci viene sempre più spesso mostrato, i danni si ripercuoterebbero molto negativamente su noi stessi.
Esempi in tal senso sono numerosi, la tutela dell’ambiente, del paesaggio, della cultura, delle specie protette; questo fa si che l’obiettivo di questa norma, in questa parte, sia ampio e la sua portata ben possa adattarsi all’attuale evoluzione della società.
Fatta questa doverosa premessa interpretativa (certamente sintetica e sommaria, ma che delinea i confini dell’analisi) si deve ritenere che, in ultima istanza, non possano esistere “diritti senza doveri”, poiché diversamente si ricadrebbe nella costituzione di un'inaccettabile forma di schiavitù, negata dal diritto vigente. La conseguenza è che nel momento in cui si riconosce la qualifica di “essere senziente” ad una forma di vita animata e se ne dichiara la tutela del suo benessere, cioè il suo diritto a stare bene, questo soggetto diventa titolare del diritto di vedere rispettata la sua sensibilità, a fronte del nostro dovere di rispettare gli animali non umani nella loro etologia.
Mi fermo ora, e vi lascio immaginare alle conseguenze del ragionamento che abbiamo sviluppato: pensate a cosa può comportare avere l’obbligo di garantire il benessere degli “animali non umani”.