Cass. Sez. III n. 33887 del 9
ottobre 2006 (ud. 7 apr. 2006)
Pres. Postiglione Est. Onorato
Ric. Strizzolo
Danno ambientale. Legittimazione
associazioni ambientaliste
Le associazioni ambientaliste
sono legittimate in via autonoma e principale al’azione di
risarcimento per
danno ambientale quando siano statutariamente portatrici di interessi
ambientali territorialmente determinati concretamente lesi da
attività
illecita.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 19 gennaio 2005 la corte d’appello di
Trieste, in parziale riforma di quella resa il 13 maggio 2003 dal
tribunale monocratico di Udine, ha dichiarato non doversi procedere
contro Andrea Strizzolo per il reato dì cui
all’art. 51, commi 1 e 4, D.Lgs. 22/1997, perché
estinto per prescrizione; ai sensi dell’art. 578 c.p.p. ha
però confermato la condanna dello Strizzolo al risarcimento
del danno a favore delle parti civili Legambiente Circolo di Udine,
Lorenzo Greatti, Ennio Tamburlini e Daniela Zorzini, liquidato in
€ 5.000 per ciascuna, oltre interessi legali; ha infine
condannato l’imputato alla rifusione delle spese processuali
a favore delle stesse parti civili.
Allo Strizzolo era stato contestato il reato suddetto perché
quale legale rappresentante della Ecoplan s.r.l. aveva esercitato
attività di recupero di rifiuti non pericolosi senza
osservare i requisiti e le condizioni richieste dalla comunicazione
presentata alla Provincia di Udine ai sensi dell’art. 33
D).Lgs. 22/1997, in particolare violando le prescrizioni contenute
nella relazione tecnica allegata alla comunicazione di inizio
attività (non veniva attivato alcun sistema di pesatura; non
esistevano contenitori ermetici idonei alla raccolta delle polveri; si
verificava dispersione delle polveri nell’aria per la
inidoneità dei sistemi di carico e scarico; non era
operativo un sistema pneumatico di caricamento): in Udine, sino al
febbraio 2000.
2 - L’imputato ha proposto ricorso per cassazione contro la
sentenza d’appello, sia nella parte in cui ha confermato
l’ordinanza 10 ottobre 2002 con cui il tribunale monocratico
di Udine aveva rigettato le istanze di esclusione delle parti civili
suddette, sia nella parte in cui, dopo aver dichiarato estinto il reato
per prescrizione, ha confermato le statuizioni civili della sentenza di
primo grado.
In particolare il ricorrente deduce violazione di legge
perché:
2.1 - il circolo locale dell’associazione ecologica
Legambiente non era legittimato a costituirsi parte civile iure
proprio, potendo solo intervenire nel processo cx artt. 91-93 c.p.p.
per esercitare i diritti e le facoltà attribuiti alla
persona offesa, subordinatamente al consenso di questa (che nel caso di
specie mancava);
2.2 - ai sensi dell’art. 4 legge 3 agosto 1999 n. 265 il
circolo anzidetto poteva chiedere il risarcimento del danno ambientale
solo in sostituzione degli enti territoriali (comune e provincia) con
la conseguenza che il risarcimento doveva essere liquidato a favore
dell’ente sostituito;
2.3 - essendo inammissibile la costituzione di parte civile del circolo
udinese di Legambiente, l’imputato non poteva essere
condannato a rimborsare al medesimo le spese processuali;
2.4 - mancando la prova del danno, era erronea la liquidazione di
€ 5.000 a titolo di risarcimento a favore di tutte le parti
civili costituite (Legambiente, Greatti, Tamburlini e Zorzini);
2.5 infine non sussistevano gli estremi del contestato reato di cui ai
commi 1 e 4 dell’art. 51 D.Lgs. 22/1997. Infatti - secondo il
ricorso - la norma incrimina soltanto l’inosservanza dei
requisiti e delle condizioni previste nella comunicazione, e non
già l’inosservanza delle previsioni di
funzionamento dell’impianto illustrate nella relazione
tecnica allegata alla comunicazione stessa.
In data 27 marzo 2006 i difensori dell’imputato hanno
depositato memoria scritta, nella quale ribadiscono i primi quattro
motivi di ricorso con richiami di giurisprudenza e di dottrina.
Motivi della decisione
3 - Va anzitutto disatteso il quinto motivo di ricorso (n. 2.5)
relativo alla sussistenza del reato contestato.
Essendo intervenuta declaratoria di estinzione del reato per
prescrizione, la censura potrebbe essere accolta solo ove dagli atti
risultasse “evidente” ai sensi dell’art.
129, comma 2. c.p.p. che il reato non sussisteva.
Al contrario, non solo non risulta questa evidenza negativa, ma esiste
la evidenza positiva della sussistenza del reato.
Infatti, a norma del primo e quarto comma dell’art. 51 D.Lgs.
22/1997 è punito – fra l’altro
– chiunque non osserva i requisiti o le condizioni
indicati nella comunicazione presentata a norma dell’art. 33
per essere abilitato all’attività di recupero di
rifiuti. L’abilitazione con procedura semplificata per
l’esercizio dell’attività dì
recupero, insomma, è condizionata al rispetto delle norme
tecniche prescritte dall’art. 33 e/o indicate nella
comunicazione stessa, tanto che l’autorità
provinciale competente, ove ne accerti l’inosservanza,
può vietare l’inizio o la prosecuzione
dell’attività medesima. Per conseguenza chi
esercita il recupero dei rifiuti senza l’osservanza di queste
norme tecniche di garanzia non può dirsi abilitato, anche se
ha presentato la comunicazione alta provincia competente e anche se
questa non è ancora intervenuta con uno specifico divieto.
Nel caso di specie, la Ecoplan s.r.l. esercitava il recupero di rifiuti
speciali, provenienti dal trattamento dei fumi di industrie
siderurgiche, ammessi al recupero con destinazione a cementifici e a
industrie di prodotti per l’edilizia.
Orbene, è indubbio che la comunicazione presentata dalla
società ai sensi del citato art. 33 prevedeva, attraverso la
relazione tecnica allegata, una serie di misure di protezione
ecologica, per evitare la dispersione di polveri
nell’ambiente. Si trattava di misure di garanzia a cui era
subordinata l’abilitazione richiesta, e non di mere
previsioni di funzionamento dell’impianto di recupero - come
sostiene il ricorrente. E’ altrettanto pacifico in atti che
poi queste misure non sono state rispettate nell’esercizio
concreto dell’attività di recupero. In
particolare, i rifiuti non venivano immessi nella stazione di
miscelazione mediante estrazione pneumatica da containers ermetici, ma
erano invece scaricati da autotreni in un capannone adibito a deposito
e chiuso in maniera inadeguata: con la conseguenza che una notevole
quantità di polveri fini di colore scuro veniva dispersa
nell’ambiente circostante, costringendo addirittura i vicini
abitanti a tenere chiuse porte e finestre.
4 - Così accertata la sussistenza del reato, ne consegue a
norma dell’art. 578 c.p.p. la condanna al risarcimento dei
danni e alla rifusione delle spese processuali a favore delle parti
civili costituite.
Infatti, entrambi i giudici di merito hanno accertato, con motivazione
incensurabile in sede di legittimità, il rilevante
inquinamento ambientale provocato dall’attività
antigiuridica della società Ecoplan, attraverso la
immissione nell’aria di polveri sottili, durata alcuni mesi,
e il conseguente danno morale derivante ai vicini abitanti (tra i quali
Greatti, Tamburlini e Zorzini), in termini di pregiudizio arrecato alla
vita quotidiana delle persone e di turbamento psicologico risentito in
relazione alle possibili conseguenze nocive alla salute.
Così provato l’an del diritto risarcitorio,
mancando la prova del quantum, correttamente i giudici di merito hanno
liquidato il danno in via equitativa, motivatamente quantificandolo in
5.000 euro a testa. Questa liquidazione equitativa non solo
è consentita, ma è addirittura imposta sia in via
generale dagli artt. 2056 e 1226 cod. civ., sia in via specifica
dall’art. 18, comma 6, della legge 8 luglio 1986 n. 349, in
tema di danno ambientale, ogni volta che non risulti possibile una
precisa quantificazione del danno.
Va perciò disatteso anche il quarto motivo di ricorso (n.
2.4).
5 - Restano ora da esaminare i primi tre motivi di ricorso (nn. 2.1,
2.2 e 2.3), tutti volti a contestare la legittimazione del circolo
udinese di Legambiente a costituirsi parte civile iure proprio, sul
rilievo che detto circolo era solo abilitato a intervenire nel processo
cx artt. 91-93 c.p.p. subordinatamente al consenso delle persone offese
(nella specie mancante), ovvero a chiedere il risarcimento del danno a
norma dell’art. 4 legge 3 agosto 1999 n. 265 solo in
sostituzione degli enti territoriali (comune e provincia), con la
conseguenza che il risarcimento doveva essere liquidato a favore
dell’ente sostituito.
Al riguardo l’orientamento della giurisprudenza di
legittimità non è sempre univoco, anche
perché riflette - spesso senza tematizzarla - la
complessità della normativa che si è succeduta
nella soggetta materia.
Punto di partenza è in genere l’art 18 della legge
n. 349 dell’8 luglio 1986, che - com’è
noto - ha imposto l’obbligo del risarcimento del danno a
favore dello Stato a carico di chiunque commetta un fatto doloso o
colposo in violazione di legge che cagioni un danno ambientale; ha
precisato che l’azione di risarcimento del danno ambientale,
anche se esercitata in sede penale, spetta allo Stato nonché
agli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto
lesivo; e ha aggiunto che le associazioni di protezione ambientale
riconosciute dal Ministero dell’ambiente ai sensi
dell’art. 13 della stessa legge possono denunciare i danni
ambientali e possono intervenire nei giudizi relativi al danno
ambientale.
La norma, pur costituendo un progresso nella tutela
dell’ambiente, non è priva di rilevanti carenze e
ambiguità, che hanno finito per influire negativamente sulla
chiarezza della sua interpretazione e applicazione.
Sul tema si possono schematizzare i seguenti filoni interpretativi, che
hanno valorizzato ora il medesimo art. 18, ora altre norme che si sono
succedute nella specifica materia:
a) le associazioni ambientaliste hanno solo una facoltà di
intervenire nel giudizio di danno, identica per fìctio iuris
a quella della persona offesa, ai sensi dell’art. 91 e ss.
c.p.p., subordinata perciò al consenso di
quest’ultima (ex plurirnis Cass. Sez. III, n. 7275 del 23
giugno 1994, Galletti, rv. 198194);
b) le associazioni ambientaliste sono titolari di un’azione
civile atipica, nel senso che non possono ottenere il risarcimento del
danno, ma solo la rifusione delle spese processuali (Cass. Sez. III. n.
2603 del 26 febbraio 1991, Contento, rv. 186487; Cass. Scz. III, n.
4487 dell’11 aprile 1992, Ginatta, rv. 189845; Cass. Sez.
III, n. 439 del 10 novembre 1993, Mattiuzzi, rv. 197043);
c) le associazioni ambientaliste individuate dal Ministero per
l’ambiente ai sensi dell’art. 13 della legge
349/1986, a norma dell’art. 4, comma 3, legge 3 agosto 1999
n. 265 (disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti
locali) poi trasfuso ncll’art. 9, comma 3, del D.Lgs. 18
agosto 2000 n. 267 (testo unico sull’ordinamento degli enti
locali), possono proporre le azioni risarcitorie per danno ambientale
spettanti al comune e alla provincia, ma l’eventuale
risarcimento è liquidato in favore dell’ente
sostituito, mentre le spese processuali sono liquidate nei confronti
delle associazioni (Cass. Sez. III, n. 43238 del 3 dicembre 2002,
Veronese, rv. 223039);
d) le associazioni ambientaliste, anche se non riconosciute ai sensi
del citato art. 13 legge 349/1986, sono legittimate
all’azione risarcitoria vera e propria, anche in sede penale
mediante la costituzione di parte civile, solo nella misura in cui sono
portatrici non di interessi diffusi e astratti, ma di interessi
ambientali concretamente individualizzati.
Secondo quest’ultima tesi le associazioni ambientaliste in
quanto tali hanno diritto al risarcimento del danno ambientale quando
questo offende un diritto patrimoniale oppure un diritto morale del
sodalizio, identificato quest’ultimo in un interesse
ambientale storicamente e geograficamente circostanziato che il
sodalizio ha assunto come proprio scopo statutario (in questa linea si
iscrivono Cass. Sez. III, n. 59 del 10 gennaio 1990, Ponticclli, rv.
182947-182949, Cass. Sez. III, n. 8699 del 26 settembre 1996, Perotti,
rv. 209096 e Cass. Scz. III n. 46746 del 2 dicembre 2004, P.C. e Rcsp.
civ. in proc. Morra, rv. 231306, che hanno specificamente configurato
la risarcibilità della lesione che il danno ambientale
apporta allo scopo istituzionale dell’associazione;
nonché Cass. Sez. III, n. 9837 dell’1 ottobre
1996, Locatelli, rv. 206473; Cass. Sez. III, n. 3503 del
febbraio 1996, Russo, rv. 205780: Cass. Scz. III, n. 22539 del 10
giugno 2002, P.M. in proc. Kiss Gmunter 1-1 e altri, rv. 221 881).
6 - A commento di questi orientamenti ermeneutici si deve osservare che
la tesi sub a) esclude in capo alle associazioni ambientaliste ogni
legittimazione all’azione civile, riconoscendo loro solo una
legittimazione all’intervento processuale, accessorio
all’azione penale, ad adiuvandum del pubblico ministero,
limitato alla facoltà di presentare memorie e indicare
elementi di prova ex art. 90 c.p.p..
Un argomento testuale a favore di questa opzione interpretativa si
può rinvenire nell’art. 212 disp. coord. c.p.p.,
secondo il quale, quando leggi e decreti consentono la costituzione di
parte civile o l’intervento nel processo penale al di fuori
delle ipotesi indicate nell’art. 74 c.p.p. (cioè
al di fuori della legittimazione all’azione risarcitoria o
restitutoria del danneggiato da reato), è consentito solo
l’intervento nei limiti e alle condizioni previsti dagli
articoli 91, 92, 93 e 94 c.p.p. (cioè l’intervento
come persona offesa o come associazione rappresentativa di interessi
lesi dal reato).
A ben vedere, l’argomento porterebbe a disattendere la tesi
sub c), la quale presuppone necessariamente l’inesistenza
della qualità di danneggiato in capo alle associazioni
ambientaliste, che altrimenti sarebbero titolari di un’azione
civile a titolo autonomo e pieno e non soltanto a titolo simbolico o
sostitutivo degli enti territoriali. E invero, associazioni
ambientaliste inidonee a essere soggetti passivi del danno ambientale,
a mente della succitata disposizione di coordinamento potrebbero
soltanto intervenire nel processo con le sole facoltà
spettanti alle persone offese, le quali - a meno che non siano anche
danneggiate dal reato ex art. 74 c.p.p. - possono svolgere solo un
ruolo accessorio e complementare rispetto all’azione penale,
ma non possono esercitare l’azione civile neppure in via
sostitutiva, come invece sostiene la tesi sub c).
Quanto alla tesi sub b), essa presenta una evidente forzatura esegetica
del testo dell’art. 18 legge 349/1986, e incorre in una
indubbia aporia dommatica laddove configura una costituzione di parte
civile che non ha per oggetto il risarcimento del danno.
A sua volta la tesi sub c) si fonda sulla formulazione letterale del
citato art. 9, comma 3, del D.Lgs. 267/2000, che presuppone - come
già rilevato - l’inesistenza della
qualità di danneggiato in capo alle associazioni
ambientaliste, e configura a favore di queste la legittimazione a una
sorta di azione popolare per conto degli enti locali, che non va esente
da complicazioni processuali.
Si tratta indubbiamente di una legittimazione di tipo sostitutivo o
suppletivo rispetto a quella dei comuni e delle province
(inspiegabilmente la norma non considera la posizione delle regioni),
che pone anzitutto il problema se l’ente territoriale,
intervenendo nel processo, possa ottenere la estromissione
dell’associazione che aveva intrapreso l’azione,
secondo il principio generale che connette al meccanismo della
sostituzione processuale la possibilità del soggetto
sostituito di estromettere dal processo il soggetto sostituto.
Tutti questi problemi sono peraltro superati dalla impostazione
dommatica sub d), che abbandona l’esegesi delle menzionate
disposizioni processuali e delle normative speciali di cui alla legge
349/1986 e al D.Lgs. 267/2000, per utilizzare lo schema generale
dell’azione aquiliana di cui all’art. 2043 cod.
civ., configurando in capo alle associazioni ambientaliste in quanto
tali un interesse legittimo alla tutela dell’ambiente, idoneo
a essere leso dal danno ambientale.
7 - A tale scopo questa impostazione si avvale in modo più o
meno articolato della sistemazione teorica elaborata dalla dottrina e
dalla giurisprudenza amministrativa in tema di interessi diffusi e di
interessi collettivi.
Secondo questa elaborazione sistematica, gli interessi diffusi, che
sono in genere comuni a tutti gli individui di una formazione sociale o
addirittura della comunità nazionale o internazionale, sono
privi di tutela giurisdizionale. Si tratta infatti di interessi che
riguardano beni insuscettibili di appropriazione individuale e quindi
anche di gestione processuale. Perciò sono stati
opportunamente definiti come “adespoti”,
cioè senza portatori, privi di titolari.
Da un processo di soggettivizzazione o corporativizzazione degli
interessi diffusi nascono gli interessi collettivi, che sono comuni a
più soggetti che si associano come categoria o gruppo
omogeneo per realizzare i fini del gruppo stesso. A differenza degli
interessi diffusi, gli interessi collettivi sono suscettibili di tutela
giurisdizionale, perché trovano una titolarità in
enti esponenziali capaci di agire, che si distinguono tanto dalla
comunità generale quanto dai singoli associati
nell’organizzazione. Si tratta perciò di interessi
legittimi.
Secondo la dottrina arnministrativistica per consentire il passaggio da
interessi diffusi nella comunità, privi di tutela, a
interessi collettivi legittimi, dotati di tutela davanti al giudice
amministrativo, occorre che i primi siano non solo differenziati ma
anche qualificati.
Come ha precisato la giurisprudenza amministrativa, i fattori
essenziali di tale qualificazione giuridica sono:
aa) il collegamento territoriale, in forza del quale la legittimazione
ad agire contro la Pubblica Amministrazione deve essere riconosciuta
esclusivamente ai soggetti e alle organizzazioni degli interessi
diffusi che siano radicate nell’ambito territoriale in cui ha
effetto il provvedimento amministrativo da impugnare (v. Cons. Stato,
Sez. IV, n. 24 del 19 ottobre 1979, che ha escluso la legittimazione
dell’Associazione Italia Nostra proprio perché i
suoi fini statutari avevano per oggetto interessi non localizzabili in
un ambiente circoscritto, ma estesi a una dimensione nazionale).
bb) la partecipazione procedimentale, in forza della quale la
legittimazione ad agire davanti al giudice amministrativo spetta a
tutte le organizzazioni che siano ammesse a partecipare al procedimento
amministrativo finalizzato all’emanazione del provvedimento
impugnando (v. Cons. Stato, Sez. VI, n. 407 del 27 agosto 1982, che ha
riconosciuto la legittimazione dell’Associazione Italiana per
il World Wildlife Fund a impugnare un provvedimento in materia
venatoria, in considerazione del fatto che essa era chiamata a
designare un proprio rappresentante in seno al Comitato tecnico
venatorio nazionale). Questo criterio ha poi trovato una consacrazione
legislativa nell’art. 9 della legge 7 agosto 1990 n. 241 in
materia di procedimento amministrativo, secondo il quale
“qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o
privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti
in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel
procedimento”.
Si deve quindi riconoscere che, per effetto di una lunga evoluzione
giurisprudcnziale e normativa, nello spirito dell’art. 113
Cost., è stata estesa agli enti esponenziali di interessi
collettivi la possibilità di accedere alla tutela
giurisdizionale amministrativa, in quanto enti portatori di un
interesse legittimo alla legalità
dell’attività amministrativa. Unico requisito
richiesto è che l’ente esponenziale sia titolare
di interessi territorialmente determinati, tali da poter essere
concretamente lesi dal provvedimento amministrativo.
8 - Acquisito questo risultato, il passo successivo è
consequenziale, perché la titolarità di un
interesse legittimo in capo agli enti collettivi diventa il presupposto
per la loro legittimazione all’azione di risarcimento in sede
civile e in sede penale.
Infatti, la fondamentale pronuncia di Cass. Scz. Un Civ. n. 500 del 22
luglio 1999, Com. Fiesole c. Vitali, rv. 530533, ha statuito che anche
la lesione di un interesse legittimo può essere fonte di
responsabilità aquiliana, giacché il danno
ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
è quello che si risolve nella lesione di un interesse
rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua
qualificazione formale, e in particolare senza che assuma rilievo la
qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo.
Ne deriva che gli enti esponenziali di interessi collettivi possono
essere danneggiati (in senso proprio) da attività lesive
degli interessi di cui sono portatori.
Risulta così dimostrata, in base allo schema aquiliano e
agli approdi dommatici in tema di interessi collettivi,
l’assoluta correttezza della tesi sub d), secondo la quale le
associazioni ambientaliste sono legittimate in via autonoma e
principale all’azione di risarcimento per danno ambientale,
quando siano statutariamente portatrici di interessi ambientali
territorialmente determinati, concretamente lesi da
un’attività illecita.
Seppure con una formulazione negativa, riflette chiaramente questa
impostazione Cass. Sez. III, n. 9727 del 28 ottobre 1993, Benericetti,
rv. 196167, laddove afferma che “non sono legittimati a
costituirsi parte civile gli enti e le associazioni,
ancorché abbiano ottenuto il riconoscimento governativo ex
art. 13 legge 349/1986, quando l’interesse perseguito sia
quello ambientale genericamente inteso o comunque un interesse che, per
essere caratterizzato da un mero collegamento ideologico con
l’interesse pubblico, resta un interesse diffuso, come tale
non proprio del sodalizio e perciò anche non
risarcibile”.
9 - L’unica seria obiezione a questa conclusione è
quella (sollevata anche nel ricorso) che paventa, come conseguenza
della legittimazione delle associazioni ambientaliste, una patologica
moltiplicazione dei risarcimenti, che verrebbe a gravare ingiustamente
sul responsabile del danno ambientale.
Ma a ben vedere si tratta di una obiezione che si attaglia propriamente
a ogni possibile concorso di azioni risarcitorie per danno ambientale,
come ad esempio al concorso tra azioni di privati e azioni di enti
pubblici, oppure a quello tra azioni dello Stato e azioni di enti
locali, senza per questo che si possa mettere in dubbio la
legittimazione di questi enti pubblici a esercitare l’azione
per il risarcimento del danno ambientale.
Invero, il problema (reale) della proliferazione dei risarcimenti
attiene propriamente al profilo della liquidazione del danno, ma non
può interferire col profilo della legittimazione soggettiva
all’azione risarcitoria.
Quando poi il danno ha natura ambientale, il profilo della liquidazione
non può non riflettere il carattere indubbiamente complesso
del “bene ambiente”, in relazione al quale -
com’è noto - si configurano interessi individuali,
interessi collettivi e interessi pubblici. E’ proprio questa
complessità del bene e degli interessi ambientali che da una
parte spiega la pluralità dei soggetti legittimati
all’azione di risarcimento del danno, e dall’altra
offre il criterio per una corretta liquidazione del danno, che eviti
patologiche duplicazioni. In altri termini, sia che si tratti di
risarcimento in forma specifica, sia che si tratti di risarcimento per
equivalente, il giudice dovrà commisurarlo in relazione ai
profili di danno pertinenti a ogni danneggiato.
E’ evidente, per esempio, che quando il danno ambientale
consista nella contaminazione del terreno, solo l’ente
territoriale potrà pretendere un risarcimento rapportato
alle operazioni di decontaminazione e di ripristino che
istituzionalmente competono all’ente territoriale medesimo
solo i privati proprietari dei terreni contaminati potranno pretendere
il risarcimento dei danni subiti per il mancato godimento delle risorse
naturali del terreno (es. per mancanza o per
inutilizzabilità dei raccolti); mentre i danni alla salute
conseguenti alla contaminazione potranno essere richiesti solo dalle
persone fisiche concretamente danneggiate nella loro
integrità fisica o psichica. Su questa linea, nella misura
in cui il danno alla proprietà o alla salute colpisca
interessi collettivi, oltre che individuali, saranno le associazioni
rappresentative degli interessi collettivi a poter richiedere un
risarcimento commisurato alla specifica lesione di questi interessi.
Spetterà quindi alla prudente valutazione del giudice
identificare i profili di danno deducibili dai singoli attori della
pretesa risarcitoria, al fine di quantificare il risarcimento ad essi
spettante secondo i criteri di cui all’art. 2056, in
relazione agli artt. 1223, 1226 e 1227 eod. civ., in modo da evitare
doppi risarcimenti per gli stessi danni. E’ evidente che in
tale valutazione si rifletterà tutta la
complessità oggettiva e soggettiva del bene ambiente, che
non può che ridondare in una complessità dei
profili risarcitori.
10 - Per le considerazioni sopra esposte, quindi, vanno disattesi anche
i primi tre motivi di ricorso (nn. 2.1, 2.2 e 2.3).
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che il circolo
udinese di Legambiente era statutariamente portatore degli interessi
collettivi alla tutela ambientale del luogo, e come tale era
legittimato a costituirsi parte civile per il danno ambientale
provocato dalla massiccia emissione di polveri sottili provenienti
dalla illecita e irregolare attività di recupero di rifiuti
svolta dalla società Ecoplan, gestita
dall’imputato. Per conseguenza è del tutto
legittima la condanna di quest’ultimo al risarcimento del
danno e alla rifusione delle spese processuali anche nei confronti
dell’associazione ambientalista.
Quanto alla liquidazione (equitativa) del danno, essa non configura in
concreto alcuna impropria duplicazione del risarcimento.
Il ricorso va pertanto rigettato. Consegue ex art. 616 c.p.p. la
condanna del ricorrente alle spese processuali. Considerato il
contenuto dell’impugnazione, non si ritiene di comminare
anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende.
In base al principio di soccombenza, l’imputato va
altresì condannato alla rifusione delle spese processuali
delle parti civili, rappresentate da difensore comune.
Danno Ambientale. Legittimazione associazioni ambientaliste
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