Il disastro ambientale, da delitto innominato a tipico: la qualificazione del delitto come eventualmente permanente e le “responsabilità patrimoniali”.
di Alessandro MILITA
Come troppo spesso accade l’approvazione della nuova normativa sui cd. Eco-reati di cui al ddl n. 1345-B, approvato il 19 maggio 2015, recante disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente, è passata relativamente inosservata, nonostante l’evidente impatto della stessa non solo su numerosi processi in corso ma, soprattutto, sul futuro delle generazioni a venire.
Singolarmente, pur al cospetto del clamore destato da alcune recenti decisioni1 e delle ripetute declamazioni di futuri intenti, il neonato disastro ambientale disciplinato dagli Artt. 452-quater e quinquies c.p. (rispettivamente nelle corrispondenti formulazioni dolose e colpose) è apparentemente privo di riferimenti utili a risolvere immediatamente il principale nodo interpretativo, quello legato alla natura del delitto: il dilemma se si tratti di reato permanente o possa essere qualificato istantaneo ad effetti permanenti2.
Sono note le rilevantissime conseguenze.
Nel caso in cui il delitto venga ritenuto permanente, in via tendenziale ogni caso di disastro ambientale - risalente nel tempo e accertato solo in tempi successivi rispetto alle condotte commissive ovvero alle omissioni rilevanti - risulterebbe comunque in concreto sanzionabile, con le ricadute in termini di approfondito accertamento dei fatti, individuazione dei responsabili, valutazione del danno, attivazione del sub-procedimento amministrativo di messa in sicurezza e bonifica dei siti e di confisca dei profitti.
Qualora invece il delitto venga interpretato come reato istantaneo ad effetti permanenti, difficilmente le relative condotte sfuggirebbero alla mannaia della prescrizione e ciò comporterebbe l’estrema difficoltà di una ricostruzione completa dei fatti – dunque, tendenzialmente, l’impossibilità di provare compiutamente il danno all’ambiente -, la conseguente estrema difficoltà di attivare una seria bonifica dei siti interessati e, certamente, l’impossibilità di disporre dei fondi necessari, sottraendoli all’autore dei delitti.
Le prospettive future passano dunque inevitabilmente sulla interpretazione della nuova disposizione: il grado di protezione delle nuove generazioni dipende – in via diretta e proporzionale - dall’interpretazione della norma 3.
Se un fatto di reato non è più perseguibile, perchè prescritto, sarà arduo individuare qualcuno in grado di indagare efficacemente e di accertare la permanenza del disastro; se nessuno sarà in grado di accertare tale permanenza, nessun Ente si interesserà delle bonifiche; se nessun Ente si interesserà delle bonifiche l’evento permarrà o, peggio, si aggraverà, nel silenzio generale.
Se poi si pensa al costo delle bonifiche per lo Stato, si comprende come la questione della natura giuridica sia una questione anche (e, per alcuni, solo) economica.
Il Legislatore ha dunque calato le nuove norme in una realtà estremamente complessa, giungendo per la prima volta a tratteggiare delle specifiche disposizioni di contrasto ai patrimoni accumulati dai soggetti responsabili o avvantaggiati, in relazione ad alcuni delitti (in realtà soltanto delitti dolosi, con esclusione di quelli colposi), al fine esplicitato di sostenere i costi della bonifica, introducendo un ciclo apparentemente virtuoso4, pronto però a trasformarsi in vizioso5.
Fino ad oggi era infatti impossibile o estremamente arduo giungere alla confisca dei profitti del disastro ambientale, ai sensi dell’art. 240 c.p.6, attuare la cd. confisca allargata ex art. 12 sexies D.L. 306/1992 7 o esercitare l’azione di prevenzione patrimoniale 8e, in ogni caso, era impedita la sistematica devoluzione di quanto confiscato alle esigenze di bonifica, ora invece in parte possibile9.
Il primo passo per l’interprete è dunque la verifica della natura giuridica del disastro ambientale, ora non più innominato ma tipizzato, poiché l’impatto e l’efficacia della norma è direttamente connessa alla soluzione del principale nodo interpretativo.
Posto che la norma, generale ed astratta, risente chiaramente della fattispecie concreta da tipizzare, per intuibili esigenze di comprensione si farà riferimento a generici casi di smaltimento, continuativo e pluriennale, di rifiuti pericolosi in discariche – abusive o “incontrollate” – con effetti dannosi, sulle matrici ambientali terra, aria e acqua (falda).
L’evento naturalistico di danno in questi casi di disastro ambientale si atteggia in modo del tutto diverso a seconda delle matrici ambientali colpite; infatti:
a)per la terra, il danno si consuma tendenzialmente con l’interramento (o la collocazione in sopra-elevazione), quanto al locus direttamente interessato dagli smaltimenti: in questo caso quando la condotta ha termine la porzione di terra è contaminata e gli effetti permangono; in tal caso ha senso affermare che si tratti di delitto istantaneo (a condotta prolungata o eventualmente abituale o comunque lo si voglia denominare) con effetti permanenti.
Se il percolato od il gas prodotto dal rifiuto si propaga invece, come spesso avviene, lateralmente, contaminando anche i terreni adiacenti e le relative colture, la situazione è diversa: in questo caso gli effetti sui terreni limitrofi risultano, in via tendenziale, temporalmente differiti, a seconda delle caratteristiche del sito, certamente sopravvenendo all’ultima condotta commissiva.
In quest’ultimo caso si tratterà di un evento parzialmente differito rispetto alla condotta, salva la verifica del momento della relativa ultima consumazione.
E’ impensabile che l’evento = danno ambientale, per la parte futura rispetto al momento finale della condotta, possa essere annullato giuridicamente per il solo supposto tributo ad un dogma apodittico.
b) per l’aria la questione è del tutto diversa: per effetto delle condotte di smaltimento di rifiuti l’aria può essere contaminata dalle emissioni di gas – direttamente sprigionate dal sito oppure dai terreni adiacenti per migrazione laterale – e conseguentemente danneggiare, in modo irreversibile o meno, le colture adiacenti e la salubrità dell’habitat degli esseri viventi stanziali, animali o uomini. Ciò può accadere e manifestarsi in modo ancor più dirompente nel corso degli anni, dunque successivamente alle condotte umane di smaltimento, a seconda delle caratteristiche del rifiuto : la contaminazione dell’aria anche in questo caso segue alla nascita della discarica e permane, spesso aggravandosi nel tempo.
Il fenomeno naturale è quello della permanenza del danno, da ritenersi potenzialmente anche differito nel tempo, dunque proiettato nel futuro. Qualificare il delitto, a questo punto, quale permanente (con ossequio dell’interprete al fenomeno naturalistico descritto) ovvero quale delitto istantaneo ad effetti permanenti (con ossequio ad un dogma, interpretazione pur astrattamente consentita dalla lettura della norma) rientra ovviamente nelle possibilità di umana interpretazione, scientificamente fondata la prima, illogica la seconda.
c) per l’acqua – di falda – il caso classico giudiziario appare emblematico per guidare l’interprete: la falda viene contaminata sempre dopo la condotta di interramento di rifiuti. Potrà essere contaminata o persino giungere ad essere avvelenata, nel qual caso il delitto contestabile unitamente al disastro ambientale (solo per quel che concerne l’acqua) sarà quello di cui all’art. 439 c.p.10.
In ogni caso è fisiologico che il tombamento preceda, spesso anche di molti anni, la contaminazione della falda : dipenderà dal franco tra fondo discarica e falda, dalle caratteristiche morfologiche del terreno, dalle caratteristiche chimiche delle sostanze interrate, dalla profondità degli smaltimenti dei rifiuti più pericolosi, dalla lentezza o meno della velocità della falda e così via.
E’ dunque fisiologico che ciò avvenga a distanza di tempo, spesso anni. Una volta poi che la falda verrà contaminata / avvelenata si dovrà attendere la propagazione delle sostanze chimiche per rendere percepibile il danno, per uomini, animali o colture. Ciò normalmente avviene nel corso di anni, persino di decenni.
L’evento – danno alla matrice acqua – è dunque naturalmente differito.
Non solo: per lo più il danno accresce con il passare del tempo ed è direttamente voluto dall’autore come differito : il tombamento descrive proprio l’intenzione dell’autore, occultare gli effetti che si verificheranno dilatandoli nei tempi futuri, anche per sfuggire all’individuazione ed alla sanzione.
Da un punto di vista naturalistico il disastro ambientale connotato dalla contaminazione della matrice acqua è permanente e la sua vocazione è la progressiva estensione: è dunque impossibile qualificarlo diversamente, trattandosi non solo di evento appunto differito nel futuro - insussistente al momento della conclusione della condotta – ma suscettibile di progressivo aggravamento con il passar del tempo.
Non è minimamente ipotizzabile dunque, in un caso siffatto, sostenere l’istantaneità del delitto e la mera permanenza degli effetti: l’effetto/evento non c’è, ma ci sarà (o si è manifestato) a distanza di anni rispetto alla condotta ed altresì con progressiva dilatazione spaziale.
In una caso del genere l’interprete deve contrapporsi alla natura se intende affermare il proprio dogma del delitto istantaneo, salvo pensare che sia l’interprete a dirigere la scienza e non viceversa.
La questione è poi ancora più evidente se si pensa al caso di disastro ambientale in cui – oltre alla terra ed all’aria – si accerti l’avvelenamento dell’acqua di falda: sarebbe estremamente arduo ipotizzare che il reato di avvelenamento di acque non abbia natura di delitto permanente (art. 439 c.p.)11.
Posta questa rapida pre-comprensione fattuale, il delitto di disastro ambientale è ora isolato dalla sua sede originaria (l’art. 434 c.p., norma che ora copre i disastri innominati, diversi da quello cd. ambientale) e collocato in un nuovo Titolo, il VI bis, denominato dei “delitti contro l’ambiente”.
Aldilà dell’uso dell’avverbio “abusivamente” e delle possibili interpretazioni del termine, la nuova disposizione di cui all’art. 452 quater c.p. prende sostanzialmente atto delle decisioni della Corte Costituzionale 12 e della Giurisprudenza della Corte di Cassazione quanto alla descrizione del tipo legale 13, giungendo a codificare il cd. “diritto vivente” e procedendo ad una esplicitazione delle condotte, significativamente individuate come tra loro alternative.
E’ importante osservare come non sia affatto irrilevante l’interpretazione della nuova norma del disastro ambientale nominato alla luce del precedente reato cd. “innominato”: vi sono in gioco le regole sulla successione delle leggi nel tempo, con le diverse possibili conseguenze.
L’avvenuta codificazione del diritto vivente, come agevolmente rilevabile dal confronto delle diverse interpretazioni preesistenti con il nuovo testo normativo, ha infatti rilevantissime ripercussioni – per quel che sarà più chiaro a seguire – anche per l’individuazione del tempus commissi delicti rispetto ai fatti preesistenti, sia che questi siano sottoposti al vaglio del Giudice, sia che vivano ancora nell’oscurità, a causa dell’occultamento, spesso addebitabile ai responsabili.
All’esito dell’ultima decisione della Corte di Cassazione per il caso del disastro “Eternit” , in relazione al punto della natura giuridica del capoverso di cui all’art. 434 c.p. 14 , la nuova disposizione risolve ogni possibile questione, delineando il delitto come reato di evento, essendo ora dunque configurabile, in astratto, il tentativo di disastro ambientale.
A questo punto la consumazione del delitto si lega al verificarsi dell’evento – il disastro ambientale – e la ricostruzione della natura del reato passa attraverso la disamina delle specificazioni normative (una sorta di vademecum o di “case law”), alla luce del sistema. Ossia si deve accertare :
1) l'alterazione irreversibile dell'equilibrio di un ecosistema;
2) l'alterazione dell'equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
3) l'offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l'estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Utile è anche l’esame dell’aggravante prevista dall’ultimo comma : “Quando il disastro è prodotto in un'area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata”.
Dal testo della previsione aggravata, si desume infatti che la lesione al paesaggio, all’ambiente, al patrimonio storico, artistico, architettonico o archeologico di un’area e il danno alla vegetazione ed alle specie animali, rilevino anche nello specificare l’evento: la previsione dell’aggravante per i casi di aree protette o sottoposte a vincolo, dimostra l’assunto. Potrà dunque trattarsi di un disastro ambientale provocato dalla costruzione di un “eco-mostro”, deturpante il paesaggio (perché, ad es., realizzato su una spiaggia), il patrimonio storico (perché, ad es., eretto davanti al Colosseo), archeologico (ad esempio, una nuova via dei Fori Imperiali) e così via.
Dunque il delitto si consuma non con la mera alterazione dell’equilibrio di un ecosistema, ma nel solo caso in cui tale alterazione divenga irreversibile (ovvero la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali): nella fase di possibile transizione tra l’alterazione e la sua irreversibilità ci si colloca all’interno del tentativo (compiuto) di disastro.
Analogamente l'offesa alla pubblica incolumità sussiste non quando siano semplicemente compromesse le matrici ambientali o sussistano effetti lesivi, ma quando tutto ciò si manifesti in modo esteso.
Così come deve essere esteso il numero delle persone esposto a pericolo o offese.
Anche in questo caso, nel caso di una limitata compromissione delle matrici ambientali che non sia ancora divenuta estesa, l’interprete dovrà optare per il delitto tentato.
E’ dunque chiaro che il delitto si consuma quando si giunga alla irreversibilità della alterazione dell’ecosistema o ad una estesa compromissione delle matrici ambientali ovvero quando, per la rilevanza del fatto, si verifichino effetti lesivi che comportino una estesa esposizione al pericolo, per numero di persone coinvolte.
E’ immediatamente comprensibile come l’estensione e l’irreversibilità siano fenomeni progressivi e scientificamente non comprimibili.
Se l’interprete vorrà dunque individuare uno specifico momento spazio/temporale in cui si osservi la traslazione da una situazione reversibile ad una irreversibile e, contemporaneamente, a partire dal quale la compromissione e/o esposizione a pericolo si trasformi da limitata ad estesa, ritenendo dunque quello il momento della consumazione del delitto ed ivi tracciando il confine con il post-factum non punibile, ciò si rivelerà impossibile, salvo costui si ritenga dotato di poteri divinatori.
Connettere effetti decisivi all’individuazione di tale momento appare logicamente insostenibile, salvo intendere ritornare al processo come ordalìa ovvero ad un supposto giudizio di un Dio.
Se poi ci si confronta con le molteplici matrici ambientali suscettibili di essere alterate in modo irreversibile dalle medesime condotte, è assolutamente chiara l’impossibilità di individuare il momento a partire dal quale il delitto, già perfezionato, giunga a consumazione ultima: basti pensare al nostro caso di disastro ambientale provocato dallo smaltimento di rifiuti interrati, in cui la matrice terra (relativa al sito) è alterata irreversibilmente all’esito dell’ultimo tombamento del rifiuto, la matrice terra (luoghi limitrofi allo specifico sito) è alterata irreversibilmente all’atto della trasmigrazione laterale del gas, del percolato e per gli effetti sull’aria; la vegetazione (se si tratta di terreno produttivo) è alterata irreversibilmente (?) in occasione del primo raccolto, laddove danneggiato, ripetendosi ciclicamente secondo stagione; la matrice aria lo sarà tendenzialmente a partire da un momento successivo al tombamento, quando il gas si sprigionerà; la matrice acqua sarà irreversibilmente contaminata all’atto della penetrazione del contaminante nella falda e vedrà la progressiva estensione della compromissione a distanza – spaziale e temporale – a seconda del cd. franco tra contaminante e falda, del carico dell’inquinante e della velocità della falda.
Il tutto tacendo le questioni rilevantissime comunque implicitamente trattate dalla Corte di Cassazione, nella decisione del 19 novembre 2014 imp. Schmidheiny, ovviamente da prendere in esame anche nell’interpretazione della nuova disposizione.
Ci si riferisce al tema, indicato dalla Corte come “oltremodo serio e meritevole di riflessioni approfondite” dell’”ipotesi dell'evento o del danno occulto, ovvero alla situazione in cui l'evento lesivo si è compiutamente già realizzato nella sua massima estensione ma è stato o è rimasto nascosto agli inquirenti: evenienza a sua volta sensibilmente differente sul piano fenomenologico e concettuale sia da quella dell'evento a distanza (pure evocata facendosi l'esempio di ordigno esplosivo seppellito che esplode dopo moltissimo tempo) sia da quella del danno così detto lungo-latente cui si riferiscono, in ambito civile e agli effetti del risarcimento, Corte EDU sentenza 11 marzo 2014, Howald Moor e altri c. Svizzera (relativa al caso di operaio, deceduto nel 2005, che nel maggio 2004 aveva appreso di essere affetto da un mesotelioma pleurico maligno per essere stato esposto all'amianto negli anni 1960-1970 in ambiente di lavoro) e la giurisprudenza civile di legittimità in tema di esordio della prescrizione ai sensi dell'art. 2947 cod. civ., ampiamente in linea con la posizione della Corte di Strasburgo in merito alla decorrenza del termine prescrizionale dalla manifestazione del danno in tutte le sue componenti nei casi in cui si riscontra un significativo scollamento temporale tra insorgenza del pregiudizio e condotta che lo cagiona (cfr., tra molte, Sez. U civ, n. 23763 del 14/11/2011, Rv. 619392, e n. 27337 del 18/11/2008, Rv. 605537)15”.
E’ infatti appena il caso di sottolineare che la ricorrenza dell'evento a distanza è, secondo la Corte di Cassazione, “sicuramente riconducibile alla nozione di consumazione rilevante ai sensi dell'art. 158 cod. pen.”.
Ossia l’evento verificatosi anche (o solo) a distanza, di tempo (evento temporalmente differito) e/o di luogo (evento spazialmente traslato ovvero, per esprimersi analogamente al legislatore, in estensione territoriale) , è sicuramente incluso nella consumazione; ciò non vuol dire altro che intendere il delitto, laddove a ciò si presti la singola fattispecie (come normalmente accade), come reato progressivo nell’evento16 o eventualmente permanente17(ossia tendenzialmente, salva eccezione, permanente) o reato a evento differito18.
Si tratta dell’unica soluzione possibile per l’interprete.
Se, dunque, l’interpretazione consente di tutelare al massimo le nuove generazioni e se tale scopo può dirsi, si ritiene, sposato dalla totalità dello Stato Comunità, si deve ora valutare l’impatto delle nuove norme che consentono l’aggressione ai patrimoni illeciti di coloro che abbiano cagionato un disastro ambientale, permanente all’attualità, anche agendo nel passato, più o meno remoto.
Qui il Legislatore non coglie la realtà del fenomeno, evidentemente ignaro della cd. pre-comprensione fattuale e giuridica.
La prima falla è aver legato la confisca, anche per equivalente, al solo profitto e non al danno ambientale provocato (rectius al costo della bonifica del sito).
La disposizione di cui all’Art. 452-undecies c.p. prevede esplicitamente la confisca del profitto, anche per equivalente.
E’ infatti noto che mentre il danno è, in via tendenziale, suscettibile di stima (il costo della bonifica), la quantificazione del profitto è impresa talora ardua e comunque la confisca non costituisce adeguata sanzione.
E’ infatti estremamente complesso giungere alla valutazione del profitto ai fini della confisca, anche per equivalente (e del relativo sequestro).
E’ la Corte Suprema di Cassazione – Penale, Sezioni Unite – con la Sentenza n. 26654/2008 19 ad illustrare infatti le linee guida, giungendo a definire il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca (nel caso disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d. lgs. n. 231/201, nei confronti dell'ente collettivo), come “il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente”.
Posto che il profitto è difficilmente quantificabile e non può essere individuato attraverso semplificazioni probatorie, quali accertamenti presuntivi20, è chiara la problematica: servendosi sempre dell’esempio di un disastro ambientale provocato dall’interramento di rifiuti pericolosi – difficilmente quantificabili e valorizzabili – è agevole comprendere come sia impossibile calcolare il profitto e, dunque, aggredire il patrimonio degli autori del crimine.
Qualora poi, per avventura, fosse possibile accertare il quantum, dovrebbe essere comunque scomputata l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato21, con esclusione però dei costi sostenuti per la commissione del reato, questi sicuramente “indeducibili”, salva la relativa individuazione 22.
Il tutto complicato, peraltro, dalla possibilità di confiscare anche le somme equivalenti al profitto indiretto, ossia, per esempio, “l'incremento del patrimonio dell'autore del reato reso possibile dall'investimento (in territorio estero) dei proventi del delitto consumato in territorio italiano” 23.
Ipotizzando l’applicazione dell’istituto per il caso giudiziario del disastro ambientale Eternit, appaiono lampanti le difficoltà valutative, il che stride al cospetto di una più agevole quantificazione laddove commisurata al danno24.
E’ noto che vi sia, infatti, una mostruosa sproporzione, proprio nel caso dei delitti ambientali, tra il profitto ottenuto dall’autore ed il danno arrecato dalla condotta.
Posto che il movente dell’azione è sempre quello patrimoniale, è noto che l’autore danneggi per 1.000, al fine di guadagnare per 10 25.
Il riferimento, poi, all’esclusione della confisca nel caso di messa in sicurezza efficace, consente una via di fuga, su cui ci si esprime a seguire.
Ancora, il fatto che la confisca del profitto sia esclusa nel caso di delitto colposo, crea sensibili conseguenze nel caso di de-rubricazione del delitto da doloso in colposo.
Alla previsione del sequestro del solo profitto (anche per equivalente) segue infatti la limitazione al solo caso di delitto doloso, con esclusione esplicita nel caso di delitto colposo : è appena il caso di sottolineare come spesso le condotte di disastro ambientale vivano nel limbo tra colpa cosciente e dolo eventuale (soprattutto riguardo ai concorrenti, non direttamente protagonisti del delitto), sicchè le valutazioni in un senso o nell’altro avranno un peso straordinario in ordine alle chance di confisca (vedi l’art. 452 undecies che esclude il 452 quinquies) e, dunque, di imputazione economica dei costi della bonifica (conseguentemente proprio della bonifica, che rischia – è un eufemismo – di restare inattuata).
Non è saggio consentire che ciò possa accadere, in una materia come questa. In sintesi si potrebbe sequestrare un patrimonio infinito che verrebbe restituito all’atto della de-rubricazione da doloso a colposo, pur in presenza – come spesso accade - di una danno ambientale immenso .
Pur essendo certamente importante l’innovazione normativa, non appare decisiva neppure la possibilità, ora prevista con la nuova Legge, di procedere alla confisca ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, consentita dalla norma in commento nel caso di statuita responsabilità per i reati 452-quater, 452-octies e 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
Si tratta della cd. confisca “allargata”, avente ad oggetto i beni e le altre utilità di cui il condannato (e l’indagato, in fase di indagini preliminari, attraverso il sequestro preventivo) non sia in grado di giustificare la provenienza, di cui risulti essere titolare, anche per interposta persona, ovvero avere la disponibilità a qualsiasi titolo di valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla propria attività economica.
E’ appena il caso di accennare al fatto che il profitto del reato è per definizione “ingiustificato” ai sensi della norma, sicchè, in linea teorica, il profitto – o il suo equivalente – potrebbe essere confiscato anche ai sensi dell’art. 12 sexies D.L. 306/1992, con le implicazioni che seguiranno.
E’ evidente che laddove non fosse possibile calcolare il profitto ricavato dal responsabile del delitto e costui avesse un patrimonio proporzionato al reddito dichiarato ed alla attività economica svolta, non sarà mai possibile finanziare la bonifica o messa in sicurezza con i fondi tratti dal patrimonio del reo, dovendosi necessariamente attendere l’esercizio dell’azione penale per procedere – solo nel caso vi siano i presupposti e nei limiti degli stessi – al sequestro conservativo dei beni, dunque congelati per il tempo che occorre all’irrevocabilità della sentenza, senza possibilità di utilizzarli per la bonifica.
Dove, invece, risultasse possibile giungere alla confisca del patrimonio del reo, agendo ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, i fondi non potrebbero comunque essere direttamente devoluti a sostegno della bonifica, in assenza di esplicito richiamo.
Il tutto accade, peraltro, in modo apparentemente incoerente rispetto alla previsione dell’Art. 452-duodecies. (Ripristino dello stato dei luoghi), per il quale - in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti previsti dal titolo -, il giudice ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, ponendone l'esecuzione a carico del condannato e dei soggetti di cui all'articolo 197 del presente codice.
E ancora accade con analoga apparente incoerenza rispetto all’obbligo di bonifica previsto ex art. 452-terdecies (Omessa bonifica) secondo cui “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000.
Posto che il Legislatore declama la necessità di ripristinare lo stato dei luoghi, recuperandoli (o meglio tentando di farlo) alla dimensione ante disastro, sanzionandone l’omissione, sarebbe stato logico che avesse creato i presupposti per consentire di disporre direttamente ed immediatamente del patrimonio del reo, commisurato al costo della bonifica, così da finanziare direttamente la stessa, limitando l’obbligo, in capo all’autore, a casi insignificanti.
Affidare al responsabile del disastro un’attività comunque impegnativa dal punto di vista economico, senza prevedere – in apparenza – un capillare controllo delle relative modalità esecutive, appare una opzione estremamente singolare: il fatto che si preferisca che il ripristino dei luoghi sia a carico economico dell’imputato, lasciando all’autorità il solo controllo delle modalità attuative, fa pensare che lo Stato possa avere interesse ad abbandonare il tutto ad una gestione meramente privatistica .
Chi abbia avuto esperienza delle bonifiche direttamente attuate da Enti Pubblici o Autorità commissariali, non fatica a comprenderne le ragioni.
Il concreto pericolo è che l’imputato condannato, per assolvere all’obbligo (cogente peraltro solo dopo l’irrevocabilità della sentenza), trasli altrove il disastro ovvero mascheri l’avvenuto ripristino ambientale con espedienti documentali.
Il riferimento normativo, attivato dall’Art. 452-duodecies., II comma, (Ripristino dello stato dei luoghi) è al titolo II della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (“Al ripristino dello stato dei luoghi di cui al comma precedente si applicano le disposizioni di cui al titolo II della parte sesta del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in materia di ripristino ambientale”), ossia agli artt. dal 304 a 310.
E’ qui che l’interprete dovrà sforzarsi di evitare soluzioni che rappresentino soltanto degli artifizi.
A fronte delle carenze sopra citate, il legislatore è invece direttamente intervenuto ad escludere - ex art. 452 undecies, ultimo comma - la confisca dei soli profitti, anche per equivalente26, qualora l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica o ripristino dello stato dei luoghi 27.
Si tratta di una conseguenza, in termini economici, del ravvedimento operoso indicato dalla disposizione di cui all’art. 452 decies, per cui è prevista una riduzione di pena per l’imputato che “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi”.
A ciò peraltro segue l’insidiosissima disposizione normativa secondo cui :
“Ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire le attività di cui al comma precedente in corso di esecuzione, il corso della prescrizione è sospeso”.
Dunque la messa in sicurezza dovrebbe essere necessariamente iniziata nel corso delle indagini, tendenzialmente dopo l’accertamento del reato, ed in corso di esecuzione alla data di apertura del dibattimento.
Nessuna norma stabilisce quali siano i poteri del Giudice e chi sia competente, ed in quali forme, nelle diverse fasi, quanto al controllo delle iniziative: il G.i.p., il P.M., il G.u.p. o il Tribunale.
Si ricorda, ad esempio, che la gestione dei beni sequestrati ex art. 12 sexies L. cit. permane in capo al Gip anche dopo la fase delle indagini preliminari (ed anche nei gradi successivi), diversamente dal caso di sequestro per equivalente, salvo che vi sia cumulo dei due titoli.
Le problematiche sono tali e tanto numerose da rendere qui impossibile una seppur rapida disamina.
La norma crea inoltre un possibile corto circuito: posto che nessuna disposizione chiarisce i poteri/doveri del Giudice ed i presupposti, è evidente la possibilità di strumentalizzazione (ossia certezza di strumentalizzazione) legata all’applicazione della stessa: si tratta di un vero e proprio tentativo di suicidio, previsto per Legge.
Premetto che è estremamente raro, salve ipotesi cd. bagatellari, il caso di una seria e sostenibile messa in sicurezza, bonifica e (ove possibile) ripristino dello stato dei luoghi provenienti dall’autore, e sono intuibili le ragioni, ovviamente legate al relativo costo.
Se l’imputato dispone di risorse per finanziare una seria bonifica, sarebbe certamente preferibile sequestrargliele e, con questo denaro, procedere affidandole all’Ente Pubblico incaricato – oppure ad un commissario ad acta - anche in considerazione del fatto che tali fondi potrebbero costituire parte del profitto non individuato.
Se invece si lascia l’iniziativa al privato, è evidente la necessità di un controllo capillare per evitare che l’imputato replichi la condotta di reato, si limiti a prendere tempo, a provveda ad una bonifica simulata (ovvero, che è lo stesso, trasli altrove il disastro).
Se l’imputato agisce in tal senso – posto che è la stessa persona che ha provocato il disastro – è logico che intenderà farlo (laddove non si limiti ad affermarlo, ma agisca) a basso costo : ciò peraltro lo aiuta anche a dimostrare la limitata gravità del delitto ovvero l’assenza del reato contestato, presupposto della condotta (ad esempio: ciò gli consente di sostenere che si tratta solo di un caso di inquinamento e non quello di disastro) .
Qualcuno suppone che esista, in natura, un imputato disinteressato dallo svilire la gravità della propria condotta, così da cumulare sia il risparmio del denaro che i giorni di carcere ?
Se poi, ovviamente, si intendesse verificare la disponibilità, in capo all’imputato, di somme auto-sufficienti per sostenere i costi della bonifica, ci si potrebbe trovare in una situazione paradossale : se i fondi provengono dall’imputato, in caso di delitto doloso, gli stessi sarebbero con elevata probabilità non giustificati (dunque suscettibili di sequestro ex art. 12 sexies L. cit.) ovvero riconducibili al profitto, anche per equivalente (e dunque analogamente da sequestrare).
L’ulteriore ipotesi è che l’autore del delitto sia una persona estremamente benestante, ossia che abbia presentato dichiarazioni dei redditi capaci di giustificare le proprie disponibilità, al netto del profitto.
Si manifesta dunque il fondato dubbio che il legislatore abbia ipotizzato, senza minimente scriverlo, che l’imputato possa ottenere la restituzione di quanto sequestrato – corrispondente al solo profitto - proprio per provvedere alla bonifica, prima della sentenza, persino nella fase delle indagini preliminari 28.
In questo caso sarebbe comunque necessario – salva la ricorrenza di un caso lampante di tentativo di truffa ai danni dello Stato – che l’imputato disponga di risorse ulteriori per procedere: si è già infatti descritta la notoria sproporzione tra profitto ricavabile e danno ambientale (equivalente al costo della bonifica/ripristino), il che rende altamente improbabile la possibilità di ripristinare, utilizzando il solo profitto.
Certo, qualcuno potrà astrattamente ipotizzare l’esistenza di un soggetto terzo che voglia finanziare l’imputato (nota bene, senza volere, invece finanziare lo Stato nelle medesime attività), garantendogli la bonifica, nella prospettiva di consentirgli sia un trattamento sanzionatorio più mite, sia di fruire della restituzione delle somme sequestrate : si tratterà, forse, in tal caso, di un complice non emerso nelle indagini oppure un intestatario fittizio dei suoi beni ?
Concludendo appare evidente che le nuove norme impongano una elevatissima specializzazione, una speciale sensibilità e la trasformazione del Giudice (e, prima ancora, del P.M.) non solo in un esperto di amministrazione dei patrimoni ma anche, in senso lato, di bonifiche, tutto ciò al fine di ridurre i rischi sottesi ad un ulteriore tombamento del disastro oppure ad una traslazione del medesimo in altro luogo, sostanzialmente un rinnovato disastro ambientale, questa volta attuato con il sigillo della “Repubblica Italiana” , “in nome del Popolo italiano” e per una Legge Uguale per Tutti.
Chissà se il contributo causale del Giudice ad un rinnovato disastro ambientale può comportare, nei casi previsti dal Legislatore, la responsabilità civile del Magistrato.
Forse l’interprete/operatore potrebbe essere attratto, a questo punto, da una diversa opzione interpretativa quanto alla consumazione del delitto, idonea ad abbattere sensibilmente la casistica.
L’alternativa è forse dunque quella di lasciar fare alla prescrizione e/o al responsabile oppure di tenere sempre bene a mente la salute della propria ed altrui prole.
Alessandro Milita
Procura della Repubblica di Napoli
1 Il riferimento è alla nota decisione della Corte Cass. pen., sez. I, 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny.
2 In questo momento si fa principale riferimento alle due macro-categorie, per esigenze di speditezza.
3 E’ sufficiente pensare al caso Eternit, collocare le condotte foriere del disastro ambientale ad oggi, osservare il tempo che trascorre tra l’accertamento ed il processo, e verificare se il reato di prescriverebbe lo stesso, o meno. Oppure basta pensare ad un classico caso di tombamento di rifiuti pericolosi, con effetti nocivi per lo più differiti, anche di molto, nel futuro (quanto alle matrici ambientali acqua ed aria), ovviamente scoperto molti anni dopo.
4Il riferimento è all’Art. 452-undecies. - (Confisca): “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per i delitti previsti dagli articoli 452-bis, 452-quater, 452-sexies, 452-septies e 452-octies del presente codice, è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca. I beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all'uso per la bonifica dei luoghi”.
5 Il riferimento è all’art. 452-undecies, ultimo comma, secondo cui: “L'istituto della confisca non trova applicazione nell'ipotesi in cui l'imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi”.
Analogamente è da osservare come non sia prevista la confisca dei profitti per i reati colposi, laddove gli stessi risultano invece analogamente generatori di danno ambientale e nonostante la difficoltà a determinare il discrimine tra la condotta caratterizzata da colpa cosciente e quella connotata da dolo eventuale. E’ il caso di sottolineare come sia estremamente pericoloso, per il parziale finanziamento di una bonifica con il patrimonio dei soggetti responsabili, legare la disponibilità dei fondi all’accertamento definitivo dell’elemento soggettivo.
6 Premesso che risulta ardua, per quel che si dirà, la relativa quantificazione, in ogni caso non era prevista la confisca per equivalente ex art. 322 ter c.p., sicchè l’operatività dello strumento risultava nei fatti inesistente: non è infatti noto alcun caso in cui il profitto di un delitto di disastro ambientale sia stato individuato e reperito ancora presente nel patrimonio dell’autore.
7 Il riferimento è, in particolare alla confisca ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, consentita dalla nuova disposizione in commento, previa integrazione dell’articolo 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e successive modificazioni, dopo la parola: «416-bis,» sono inserite le seguenti: «452-quater, 452-octies, primo comma,» e dopo le parole: «dalla legge 7 agosto 1992, n. 356,» sono inserite le seguenti: «o dall'articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni».
Prima del nuovo strumento normativo citato – dunque fino all’entrata in vigore della nuova norma – la confisca era impedita dal testo della disposizione di cui all’art. 12 sexies cit. che non prevedeva, quale delitto presupposto, né il richiamo esplicito alla norma di cui all’art. 260 TUA, né indiretto tramite il riferimento alla previsione generale di cui all’art. 51 co 3 bis c.p.p., riportando invece un lungo elenco, non del tutto omogeneo, di delitti.
Ovviamente nessun riferimento vi era al delitto di disastro ambientale di cui all’art. 434 c.p.
Il P.M. poteva agire soltanto facendo leva soltanto sul meccanismo dei richiami normativi alle norme di cui agli artt. 416 bis., 648 bis, 648 ter c.p., alla previsione normativa di cui all’art. 12 quinquies D.L. 306/1992 D.L. 306/1992 ovvero “attingere” alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. 203/1991, ossia analizzare il crimine ambientale attuato da e per un ente mafioso.
8 La normativa in tema di misura di prevenzione antimafia L. n. 575 del 1965 è stata caratterizzata da numerose innovazioni e, per effetto combinato delle Leggi n. 125 del 2008, L. n. 94 del 2009 e L. n. 136 del 2010, si sono allargate le chance di confisca dei cd. eco-criminali: la previsione, di cui all’art. 10 co. 1 lett. A) della L. n. 125 del 2008, dell’azione di prevenzione patrimoniale nei cfr. dei soggetti indiziati “di uno dei reati di cui all’art. 51 co 3 bis c.p.p.” e la successiva inclusione della norma di cui all’art. 260 TUA nel catalogo dei delitti di competenza della DDA, ha comportato l’astratta diretta applicazione della misura di prevenzione anche ai trafficanti “organizzati” di rifiuti, condotta spesso preesistente al delitto di disastro ambientale, trattandosi dell’evento dei traffici. Ancorché siano state estremamente rare le azione di prevenzione patrimoniale esercitate nei riguardi di persone, esponenti del crimine organizzato in materia ambientale, il richiamo normativo consente di giungere ad una conclusione positiva: seppure il crimine in materia ambientale risulta formalmente non riferibile al caso di cui all’art. 1 L. n. 575 del 1965, l’indicazione dei “traffici delittuosi” ed il richiamo al riciclaggio o re-impiego puòa ben essere valorizzato per attivare lo strumento della misura di prevenzione patrimoniale, individuando – quale requisito presupposto – ed esempio il ruolo di riciclatore (anche auto-riciclatore), mansione funzionale spesso presente nei traffici di rifiuti .
9 Vedi l’Art. 452-undecies. - (Confisca), III comma: “I beni confiscati ai sensi dei commi precedenti o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all'uso per la bonifica dei luoghi”. Si ricorda però che tale devoluzione è possibile, a stretto rigore, solo per il profitto del reato ovvero i beni confiscati per equivalenza: è dunque esclusa nel caso di confisca operata, ex art. 12 sexies D.L. 306/1992, nel caso di condanna dell’autore del delitto di disastro ambientale doloso.
10Quanto al delitto in questione si rileva che “per la configurabilità del reato di avvelenamento (ipotizzato, nella specie, come colposo) di acque o sostanze destinate all'alimentazione, pur dovendosi ritenere che trattasi di reato di pericolo presunto, è tuttavia necessario che un "avvelenamento", di per sé produttivo, come tale, di pericolo per la salute pubblica, vi sia comunque stato; il che richiede che vi sia stata immissione di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico- nocivi per la salute. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto fondata ed assorbente la censura con la quale, da parte dell'imputato, dichiarato responsabile del reato "de quo" a causa dello sversamento accidentale in un corso di acqua pubblica di un quantitativo di acido cromico, si era denunciato il mancato accertamento, in sede di merito, dell'effettiva pericolosità della concentrazione di detta sostanza in corrispondenza del punto d'ingresso delle acque nell'impianto di potabilizzazione, essendosi ritenuto sufficiente il mero superamento dei limiti tabellari)”(vedi Sez. 4, Sentenza n. 15216 del 13/02/2007 Ud. (dep. 17/04/2007 ) Rv. 236168 ; Ugualmente “Ai fini della configurabilità del delitto di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, l'avvelenamento delle acque destinate all'alimentazione non deve necessariamente avere potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia idoneità a nuocere alla salute. (Nella specie, concernente l'applicazione di una misura di cautela personale, si è ritenuta la sussistenza del reato nel versamento di vetriolo presso la sorgente di un fiume, finalizzato a raccogliere pesci da destinare all'alimentazione)”(Sez. 1, Sentenza n. 35456 del 26/09/2006 Cc. (dep. 23/10/2006 ) Rv. 234901)
Analizzando il testo della motivazione la Corte di Cassazione osserva che “In relazione alla configurabilità del reato contestato, questa Corte ha ritenuto che "L'avvelenamento delle acque destinate alla alimentazione non deve avere necessariamente potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia la potenzialità di nuocere alla salute". (Cass. Sez. 4^, 8 marzo 1984, ric. Bossi, RV. 169990). Nella specie non vi è dubbio, secondo la valutazione del Tribunale del Riesame, che la sostanza in sequestro sia nociva per l'alimentazione, in quanto riconosciuta di elevata tossicità e quindi dannosa per la salute non soltanto in caso di sua diluizione nelle acque di un fiume, ma anche se presente in organismi acquatici entrati in contatto con la stessa, da destinare all'alimentazione. Non assume quindi rilevanza il grado di concentrazione di detta sostanza, purché, come ha affermato la già citata giurisprudenza di legittimità, essa sia potenzialmente nociva per la salute. I rilievi formulati in relazione a tale aspetto dalla difesa non hanno quindi alcun pregio; gli altri profili dedotti, secondo i quali i pesci raccolti non sarebbero stati destinati al solo uso personale non valgono ad escludere la sussistenza del reato, poiché la norma in questione non richiede che l'avvelenamento delle acque o delle sostanze destinate all'alimentazione possa pregiudicare la salute di un numero indeterminato di soggetti, essendo sufficiente anche la possibilità di avvelenamento di un numero limitato di persone. Nè è richiesto che l'acqua o le sostanze destinate all'alimentazione siano poste in commercio”.
Quanto poi alla concreta possibilità di ritenere il delitto di avvelenamento tentato di acque di falda sul presupposto di uno smaltimento illecito di rifiuti pericolosi in grado di contaminare la falda si rileva che “occorre dare la dimostrazione non solo della univocità della azione ma anche della oggettiva idoneità degli atti a determinare l'avvelenamento delle acque destinate alla alimentazione. (Fattispecie nella quale era stata emessa misura cautelare personale in relazione allo smaltimento - mediante spandimento su terreni agricoli - di fanghi provenienti da un depuratore e contenenti sostanze pericolose in quantità superiori al consentito. Il Tribunale della libertà aveva rilevato la mancata dimostrazione, sia pure a livello indiziario, del fatto che nei fanghi vi fossero sostanze pericolose in quantità tali da dare luogo ad effettivo pericolo di contaminazione di acque di falda, pozzi e coltivazioni. La Corte ha ritenuto che tale assunto fosse corretto)” (vedi sentenza ez. 5, Sentenza n. 23465 del 26/04/2005 Cc. (dep. 22/06/2005 ) Rv. 231930 ).
Nessun dubbio poi che anche le acque di falda risultino contemplate dalla norma incriminatrice, ex art. 439 cod. pen., evidenziandosi che le acque contemplate dal legislatore “sono quelle destinate all'alimentazione umana, abbiano o non abbiano i caratteri biochimici della potabilità secondo la legge e la scienza. Pertanto è configurabile la fattispecie criminosa prevista dall'indicata norma anche se l'avvelenamento delle acque sia stato operato in acque batteriologicamente non pure dal punto di vista delle leggi sanitarie ma comunque idonee e potenzialmente destinabili all'uso alimentare. Fattispecie in cui, trattandosi di sversamento nel terreno di sostanze inquinanti di origine industriale penetranti in falde acquifere, con conseguente avvelenamento dell'acqua di vari pozzi della zona, è stata respinta la tesi difensiva secondo cui per acqua destinata all'alimentazione deve intendersi solo l'acqua "potabile" a norma dell'art. 249 T.U. Leggi sanitarie)”( Sez. 4, Sentenza n. 6651 del 08/03/1984 Ud. (dep. 29/06/1985 ) Rv. 169989).
Nessun dubbio poi che si tratti di delitto di evento, permanente, e che le condotte, anche risalenti nel tempo – come nel caso di massiccio sistematico smaltimenti di rifiuti pericolosi in luoghi inadeguati -, tipicamente dirette a produrre i loro effetti in periodi differiti, siano suscettibili di prensione punitiva a partire – nel caso di ipotesi consumata – dal momento di insorgenza dell’avvelenamento.
E’ sufficiente richiamare nel caso di specie, in considerazione dell’analogia tra organismo umano ed ambiente, seppur ricordando che l’avvelenamento è delitto permanente, la giurisprudenza in tema di lesioni derivanti da malattia professionale caratterizzata da evoluzione nel tempo, nel qual caso “il momento di consumazione del reato non è quello in cui sarebbe venuta meno la condotta del responsabile causativa dell'evento, bensì quello dell'insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, sicché ai fini della prescrizione il "dies commissi delicti" va retrodatato al momento in cui risulti la malattia "in fieri", anche se non stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente. (Fattispecie in tema di malattia professionale derivante da prolungata esposizione a polveri di amianto)( vedi Sez. 4, Sentenza n. 37432 del 09/05/2003 Ud. (dep. 02/10/2003 ) Rv. 225989).
Quanto alla prova, vedi Sez. 1, Sentenza n. 45001 del 19/09/2014 Cc. (dep. 29/10/2014 ) Rv. 261135 secondo cui “Ai fini della configurabilità del delitto di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari non è sufficiente, neppure ai limitati fini dell'apprezzamento del "fumus" del reato, l'esistenza di rilevamenti attestanti il superamento dei livelli di contaminazione CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) di cui all'art. 240, comma primo, lettera b) D.Lgs. n. 152 del 2006, trattandosi di indicazioni di carattere meramente precauzionale, il cui superamento non è sufficiente ad integrare nemmeno la fattispecie prevista dall'art. 257 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, la quale sanziona condotte di "inquinamento", ossia causative di un evento che costituisce evidentemente un "minus" rispetto all'ipotesi di "avvelenamento".
11 E’ evidente che non sarebbe logico sostenere che nel caso di falda contaminata (ma non avvelenata), ci si trovi innanzi ad un delitto istantaneo ad effetti permanenti mentre nel caso di falda avvelenata si tratterebbe di delitto permanente .
12 Vedi la Sentenza della Corte cost. n. 327 del 2008 che tratteggiava gli elementi costituenti il delitto di disastro ambientale cd. innominato, secondo diritto vivente: da un lato, secondo la Corte, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la "pubblica incolumità") - un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti.
13 Vedi, con le diverse sfumature legate ai singoli casi, Cass. Sez. III sent. n. 22539 del 10.06.02, rel. Fiale, imp. P.M. in proc. Kiss Gmunter in RV 221880 e Cass. Sez. III sent. 439 del 19.01.94, rel. Postiglione, imp. Mattiuzzi in RV 197044); Cass. Sez. III, n. 9837 del 19.11.1996, rel. Postiglione, imp. Locatelli, in RV 206473; (Cass. Sez. 1 sent. n. 30216 del 17.07.03 in RV 225504, imp. Barillà) secondo cui “(…) è necessario che (…) abbia assunto la fisionomia di un disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità e complessità da porre in concreto pericolo la vita e l’incolumità delle persone, indeterminatamente considerate (…)”; cfr. Cass. Sez. 1 sent. n. 226459 del 11.12.03, imp. Bottoli, in RV226459) secondo cui “(…) occorre che il fatto dia luogo a concreto pericolo da valutarsi ex ante per la vita o l’incolumità di un numero indeterminato di persone, anche se appartenenti tutte a determinate categorie, restando irrilevante il mancato verificarsi del danno (…)”; la Sez. 3, Sentenza n. 9418 del 16/01/2008 Cc. (dep. 29/02/2008 ) Rv. 239160, “Requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 cod. pen. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane. (Fattispecie di disastro ambientale caratterizzata da una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi)”. Secondo la Corte di Cass., Sez. 4, Sentenza n. 19342 del 20/02/2007 Ud. (dep. 18/05/2007 ) Rv. 236410, “Per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli articoli 449 e 434 cod. pen. è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione "ex ante", accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno.” Nella motivazione la Corte dettagliava che “il delitto di disastro colposo innominato - di cui agli artt. 449 e 434 c.p., contestati agli odierni ricorrenti al capo B) dell'imputazione - richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere, con valutatone ex ante, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato”.
E’ dunque sufficiente rilevare “la effettiva capacità diffusiva del pericolo per la pubblica incolumità, dalla quale l'evento, per assumere le dimensioni del disastro, deve essere caratterizzato”; nel procedere a tale valutazione è necessario procedere con “prospettiva ex ante dell'accertamento … al fine di verificare se un certo fatto abbia avuto attitudine a mettere in pericolo un numero non definito di persone e di cose… in quanto essa si pone in logica correlazione con la nozione di pericolo come realtà futura che si presente necessariamente incerta, anche se probabile”. E’ dunque “corretta la logica conclusione che la prova del pericolo non debba essere traslata da quella dell'avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa, in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del delitto di disastro innominato (alias, altro disastro) colposo, di cui all'art. 449 c.p., negandone l'appartenenza al genus dei delitti colposi di comune pericolo, il quale richiede - per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal capo 1^ del titolo 6^ del libro 2^ del codice di rito, del quale fa parte l'art. 434 c.p. - soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno”.
La sufficienza dell’esposizione al pericolo di un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti, è esplicitamente affermata dalla Corte di Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5820 del 03/03/2000 Ud. (dep. 19/05/2000 ) Rv. 216602 , secondo cui “Il delitto di disastro colposo di cui all'art. 449 cod. pen. richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l'evento dannoso non si è verificato”.
Soluzione coerente con la decisione della Corte di Cassazione Sezione 5 sentenza 11486/1989, secondo cui Quando la durata in termini temporali e l’ampiezza in termini spaziali delle attività di inquinamento (in specie gestione illecita di rifiuti), giustificano la sussunzione della fattispecie concreta nella contestata ipotesi di reato di disastro innominato; questo delitto comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di eccezionale gravità non necessariamente irreversibile, ma certamente non riparabile con le normali opere di bonifica.”
Secondo Cass. Sez. 3, Sentenza n. 46189 del 14/07/2011 Ud. (dep. 13/12/2011 ) Rv. 251592 infatti “Il delitto di disastro innominato (art. 434 cod. pen.), che è reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola "immutatio loci", purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità”. Dalla lettura della motivazione si rilevano spunti di rilievo: “Per quanto attiene al delitto di disastro di cui all'art. 434 c.p. (capo Y), la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che nell'ipotesi dolosa di cui al primo comma, la soglia per integrare il reato è anticipata - diversamente dall'ipotesi colposa per la quale è necessario che l'evento si verifichi - al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità, mentre qualora il disastro si verifichi risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso art. 434 c.p. (Cfr. Sez. 4, n. 4675 del 17/5/2006, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235668). Requisito del reato di disastro di cui all'art. 434 c.p. è "la potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane" (cfr. Sez. 3, n. 9418 del 16/1/2008, Agizza, Rv. 239160). È stato precisato (Sez. 5, n. 40330 dell'11/10/2006, Pellini, Rv.236295) che "è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo". Quindi il delitto di disastro innominato di cui all'art. 434 c.p., comma 1, quindi, è reato di pericolo a consumazione anticipata che si perfeziona con la condotta di "immutatio loci", purché questa si riveli idonea in concreto a mettere in pericolo l'ambiente; esso si realizza quando il pericolo concerne un danno ambientale di eccezionale gravità, seppure con effetti non necessariamente irreversibili qualora venga a verificarsi, in quanto il danno provocato potrebbe pur sempre essere riparabile con opere di bonifica.
5.4. Nel caso concreto, i giudici di appello, con ampia ed esaustiva motivazione (pagg. 33-37), hanno innanzitutto affermato quale necessaria premessa metodologica la verifica della sussistenza del pericolo per la salute pubblica, da accertare con un giudizio ex ante, dovendosi ritenere raggiunta la prova del pericolo a fronte della "elevata probabilità" della compromissione del bene ambiente, senza necessità di ricercare la prova dei verificarsi di tale compromissione. Hanno poi ripercorso le risultanze degli accertamenti svolti nel territorio di Acerra, Nola, compresi i dati delle analisi dell'ARPAC (che avevano ritenuto trattarsi di "rifiuti pericolosi costituiti da scorie di fonderia unite a polveri di abbattimento fumi misti al cd. "fluff", corrispondente alla parte leggera delle autovetture, cioè le spugne, i filtri, i tubi di frizione, tutto materiale non riciclabile", così come menzionato nella sentenza di primo grado a pag. 25) e quelli della disposta consulenza tecnica, la quale ha stabilito che le sostanze illecitamente smaltite erano rifiuti pericolosi provenienti dalla metallurgia termina dell'alluminio, con rischio R45 cancerogeno, sostanze che erano state sversate in territori particolarmente vulnerabili per le loro caratteristiche morfo-lito-idrogeologiche. In tale situazione i giudici di merito hanno ritenuto che l'imponente contaminazione di siti realizzata dagli indagati mediante le condotte ripetute di scarico di una quantità ingente di rifiuti ed il loro occultamento mediante sotterramento, qualifichi tali condotte, nel senso che le stesse sono state idonee in concreto ad incidere nell'ambiente con conseguenze gravi e potenzialità lesive nei confronti dell'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, sicché hanno causato un pericolo concreto ed effettivo, sia per la durata nel tempo del traffico illecito, sia per l'incidenza concreta dell'attività di interramento con inquinamento del terreno e contaminazione altamente probabile. Di conseguenza i giudici hanno concluso ritenendo la sussistenza dell'ipotesi delittuosa di disastro ambientale di cui al comma 1 dell'art. 434 c.p..
Quanto all'elemento psicologico, i giudici di appello hanno ritenuto, con motivazione immune da censure, che risultasse evidente, anche per lo specifico expertise degli imputati a ragione delle attività svolte, la piena consapevolezza in capo agli stessi della "qualità/pericolosità" dei rifiuti che venivano ad essere illecitamente smaltiti e quindi hanno ritenuto sussistente il dolo del delitto di disastro ambientale, reato che non richiede come obiettivo specifico la volontà di porre in pericolo l'incolumità pubblica, bastando la consapevolezza che le condotte poste in essere, magari per altri fini come quello di profitto, siano idonee a mettere a repentaglio il bene ambiente.
L'analisi e la valutazione degli elementi sulla cui base è stata affermata l'esistenza del pericolo di disastro ambientale (e la consapevolezza e volizione di tale pericolo in capo agli imputati) - pericolo ritenuto nel caso di specie più che concreto per la contaminazione del suolo, attese le connotazioni di durata, ampiezza e intensità delle condotte di traffico illecito di rifiuti - è stata espressa nella decisione impugnata con motivazione ampia, coerente, plausibile e rappresenta un giudizio sul fatto, giudizio di merito come tale insindacabile in questa sede.
Analogamente la Cass. Sez. 4, Sentenza n. 36626 del 05/05/2011 Cc. (dep. 11/10/2011 ) Rv. 251428 , secondo cui “Il disastro innominato di cui all'art. 434 cod. pen. è un delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell'evento funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale rispetto all'evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità. (Fattispecie di reiterata abusiva attività estrattiva da una cava con alterazione di corsi d'acqua, inondazioni, infiltrazioni, instabilità ambientale e pregiudizio per la dinamica costiera)”.
La sufficienza dell’esposizione al pericolo di un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti, è esplicitamente affermata dalla Corte di Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5820 del 03/03/2000 Ud. (dep. 19/05/2000 ) Rv. 216602 , secondo cui “Il delitto di disastro colposo di cui all'art. 449 cod. pen. richiede un avvenimento grave e complesso con conseguente pericolo per la vita o l'incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l'evento dannoso non si è verificato”.
La delimitazione dell’evento nella fattispecie incriminatrice è ben delineata dalla Sez. 5, Sentenza n. 40330 del 11/10/2006 Cc. (dep. 07/12/2006 ) Rv. 236295 , secondo cui “si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo”. Esaminando la motivazione della sentenza appaiono chiari i confini normativi, rilevando infatti la Corte, in via preliminare, che “i rifiuti si distinguono in rifiuti urbani (da insediamenti abitativi) e rifiuti speciali (da insediamenti produttivi) e, quindi, i rifiuti di ciascuna categoria in pericolosi e non pericolosi. I rifiuti speciali sono a loro volta classificabili come assimilabili o non assimilabili ai rifiuti urbani, e la normativa conosce anche rifiuti speciali classificati come tossici e rifiuti speciali nocivi, ma ne' la categoria dei rifiuti speciali assimilabili ne' quelle dei rifiuti speciali non tossici o non nocivi coincidono con i rifiuti urbani non pericolosi. Vigono perciò in materia, per effetto della normativa comunitaria direttamente applicabile e recepita nel nostro ordinamento, i principi di autosufficienza, prossimità (cioè della vicinanza) e di correttezza dello smaltimento. La Comunità Europea ha delegato gli Stati alla pianificazione dello smaltimento, in linea, quindi, con un'accezione ampia di autosufficienza. L'Italia ha delegato la pianificazione alle Regioni, nel rispetto dei principi prima richiamati (autosufficienza, prossimità, correttezza), costituiti a principi fondamentali dell'ordinamento. Nel bilanciamento, tuttavia, tra le esigenze di cui sono espressione, il principio di autosufficienza (che consente alle Regioni di vietare di convogliare nelle loro discariche rifiuti provenienti da altre Regioni) è vinto da quello della correttezza dello smaltimento, e cioè del "trattamento adeguato" dei rifiuti, che privilegiando le tecniche di smaltimento più corrette in relazione alle diverse tipologie dei rifiuti, impone di ritenere prevalente l'esigenza di specializzazione, anche a largo raggio, degli impianti. I cosiddetti rifiuti speciali, ancorché non tossici o non nocivi, potendo provenire dagli insediamenti produttivi più disparati, possono difatti richiedere i più disparati trattamenti. È su questa base che è stato affermata la possibilità di circolazione per il raggiungimento dello stabilimento adeguato più prossimo dei rifiuti che abbisognano di trattamenti particolari. Così, con la sentenza n. 505 del 2002, la Corte costituzionale ha ribadito che il principio dell'autosufficienza locale nello smaltimento dei rifiuti in ambiti territoriali ottimali vale, ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 5, comma 3, lettera a), per i soli rifiuti urbani non pericolosi (ai quali fa riferimento l'art. 7, commi 1 e 4, dello stesso decreto) e non anche per altri tipi di rifiuti, per i quali vige invece il diverso criterio della vicinanza di impianti di smaltimento "appropriati", per ridurre sì il movimento dei rifiuti stessi ma compatibilmente con la necessità di impianti specializzati per il loro smaltimento, ai sensi della lettera b) del medesimo comma 3: "a siffatto criterio sono stati ritenuti soggetti i rifiuti speciali (definiti dall'articolo 7, commi 3 e 4), sia pericolosi (sentenza n. 281 del 2000) che non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001)".Non solo, perciò, non esiste alcun "principio" di indistinta libera circolazione dei rifiuti: tanto più nei termini, assoluti, formulati dal ricorrente; ma vige, al contrario, un principio di trattamento adeguato - prossimità (dal quale discende altresì nei confronti della Comunità l'obbligo statuale di dare attuazione al principio di responsabilità di chi, eludendolo, "inquina"), che solo consente, in base al diritto positivo, il trasferimento nell'impianto extraregionale o extraterritoriale più vicino realmente adatto al rifiuto speciale, tanto più se pericoloso, da trattare: principio che risulta microscopicamente violato dalle condotte ritenute sussistenti.”. Quanto poi all’accezione di "disastro", questo “implica che sia cagionato un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità "straordinariamente grave e complesso", non nel senso, però, di "eccezionalmente immane", essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un "carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone" e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento abbia destato un esteso senso di allarme (Sez. 5, n. 11486 del 12/12/1989; Sez. 4, Sentenza n. 1686 del 20/12/1989; Sez. 4, Sentenza n. 1616 del 04/10/1983). Quel che caratterizza, insomma, la nozione di disastro è la diffusione del danno cui è connesso il pericolo per l'integrità alla salute, in guisa "da potersene dedurre l'attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità" (Rel. min. sul progetto del codice penale, 2^, p. 222). Sicché non è richiesto, per l'integrazione dell'illecito, che il fatto abbia direttamente prodotto, collettivamente, morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga una pencolo grave e per la salute collettiva (già avvisando che "Del danno o del pericolo alle cose si tiene conto solo in quanto da esso possa sorgere un pericolo per la vita o per l'integrità delle persone" la Rei. min. cit., p. 212). Se dunque il concetto di disastro sta nella "potenza espansiva del nocumento" (così il Guardasigilli nella Rel. al Re) alla integrità e alla sanità, ben si comprende come si profili in linea astratta esigua la linea di demarcazione tra disastro e il danno ambientale allorché questo sia costituito da una importante contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana, e come siffatta demarcazione si riveli inesistente allorché la attività di contaminazione diretta e indiretta (realizzata cioè mediante accumulo nei territori e versamento nelle acque di rifiuti speciali altamente pericolosi nonché mediante diffusione di prodotti di compostaggio destinati alla concimazione contenenti residui pericolosi) assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tali da risultare, in concreto, "straordinariamente grave e complessa", come è accaduto nella vicenda in esame secondo la ricostruzione dei giudici di merito. Mentre, occorre ribadirlo, la prova di immediati ed evidentemente "tragici" effetti sull'uomo prodotti dall'evento non può essere assunta a parametro o a misura esclusiva del "disastro" (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 20370 del 20.4.2006). (…) Rileva infatti il Tribunale, richiamando la ben più ampia motivazione della misura custodiale (nella quale risultavano meticolosamente riportate le sostanze nocive immesse nell'ambiente attraverso le procedure illecite di smaltimento di rifiuti pericolosi), e le diffuse conclusioni dei consulenti e dell'ARPAC, che il perito Dott. Auriemma aveva ampiamente dato conto del nocumento all'ambiente e alla salute prodotto dall'apparente trattamento e dallo smaltimento illecito di "migliaia di tonnellate" di rifiuti pericolosi mediante impianti illegali, inidonei al trattamento dei rifiuti che effettivamente loro pervenivano, situati su terreni agricoli; che l'immissione di ingenti quantità di percolato di discarica dall'impianto dei Pellini nei Regi Lagni e, poi, per tale via, direttamente in mare era dimostrata dalla ripresa video effettuata dagli inquirenti ("autobotti della società Pellini hanno immesso percolato di discarica direttamente nei Regi Lagni, senza passare per l'impianto di trattamento, tanto che il corso d'acqua ha improvvisamente cambiato colore assumendo quello tipico, del percolato di discarica") nonché dai dati relativi ai flussi di percolato conferiti agli impianti Pellini che, paragonati alla impossibilità di gestione alla luce delle effettive capacità dell'impianto di depurazione, ne confermavano l'illecita dispersione; che il fatto che il materiale prodotto dall'azienda e spacciato come compost di qualità costituisse in realtà un assemblaggio di rifiuti contenente residui non consentiti, contenenti pure diossine, risultava dimostrato dagli accertamenti tecnici, dall'esame anche visivo del prodotto, dal materiale destinato al compostaggio rinvenuto. Giova inoltre segnalare l’irrilevanza, per integrare il delitto in contestazione, dell’eventuale coesistenza di altri fattori inquinanti, insistenti nella medesima località, affermando esplicitamente la Corte come tale evenienza imponga una cautela maggiore della previsione: “A fronte di ciò il fatto, evidenziato in ricorso, che nella piana di Acerra insistessero "centinaia" di altre "industrie insalubri", non è argomento escludente ne' attenuante la responsabilità. Da tale circostanza assertivamente notoria sarebbe disceso, al contrario, in ragione del principio di precauzione, un obbligo d'ancora maggiore cautela e di più rigorosa osservanza in termini di legalità delle prescrizioni in materia di raccolta, trasporto, trattamento e smaltimento dei rifiuti”.
14 Vedi la Corte di Cass sez. I, 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny che concludeva, quanto al secondo comma dell’art. 434 c.p. (“la pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”), per la circostanza aggravante, conclusione peraltro esplicitamente ritenuta irrilevante quanto alla consumazione del delitto, avendo la Corte incluso tale momento – l’avvenuto disastro ambientale - all’interno della consumazione, con effetti sulla decorrenza della prescrizione; vedi espressamente la parte della relativa motivazione: “La consumazione del delitto aggravato. La considerazione della realizzazione del disastro alla stregua di aggravante non comporta tuttavia, ad avviso del Collegio, che, ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza quindi dei termini di prescrizione, l'evento non debba essere considerato. Secondo la definizione più comune, il reato è consumato allorché la fattispecie è compiutamente realizzata e si ha così piena corrispondenza tra modello legale e fatto concreto. Dottrina attenta e una parte considerevole della giurisprudenza distinguono però perfezione e consumazione, osservando che la realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie nel loro contenuto "minimo" coincide con la perfezione del reato, e segna così la linea di confine per la configurabilità del tentativo, ma non sempre e non necessariamente ne esaurisce la consumazione, da intendere quale momento in cui si chiude l'iter criminis e il reato perfetto raggiunge la massima gravità concreta riferibile alla fattispecie astratta e si apre la fase del posi factum. Con il corollario essenziale, dunque, che esaurimento della consumazione non significa esaurimento di tutti gli effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, giacché: o gli effetti dannosi coincidono con l'evento, ed allora l'esaurimento coincide con la consumazione; oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non incidono sul momento (consumativo) del reato. 6.2. La distinzione viene così sostanzialmente a coincidere con quella tra inizio e cessazione della consumazione ed assume rilevanza, ai fini del decorso del termine della prescrizione, nei reati a consumazione protratta per definizione normativa, quali sono i reati permanenti, in cui (come evidenziano Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, Rv. 221400, e Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola, Rv. 213932, citando Corte cost. n. 520 del 1987) la fattispecie è caratterizzata dal fatto che "la durata dell'offesa è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell'agente", o i reati necessariamente abituali; e può in concreto venire in rilievo nei reati eventualmente abituali e nei reati cosiddetti istantanei realizzati mediante una condotta prolungata, o frazionata, non richiesta dalla fattispecie astratta pur non essendo con essa incompatibile (si pensi all'omicidio realizzato mediante somministrazione di dosi via via più letali di un veleno, al crollo determinato mediante la provocazione di successive insistenti lesioni strutturali; all'estorsione con cui si richiedono pagamenti rateali). Ma non esplica alcuna funzione, come riconoscono dottrina e giurisprudenza consolidate, ai fini della individuazione del momento consumativo, e quindi anche del dies a quo della prescrizione, in riferimento agli effetti prolungati o permanenti dei reati istantanei o a condotta comunque esaurita (tra moltissime, oltre a Sez. U, Lauriola, citata, Sez. U, n. 3 del 22/03/1969, Brunetti, Rv. 111410, in tema di contraffazione di atto pubblico; Sez. U, n. 8 del 28/02/2001, Ferrarese, Rv. 218768, in tema di fraudolento trasferimento di valori; Sez. 6, n. 25976 del 04/05/2010 Silvestri, Rv. 247819, in tema di evasione; Sez. 3, n. 42343 del 09/07/2013, Pinto Vraca, Rv. 258313, in tema di abbandono di rifiuti). Ciò appunto perché nei cosiddetti reati ad effetti permanenti non si ha il protrarsi dell'offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, ma ciò che perdura nel tempo sono le sole conseguenze dannose del reato. E poiché quasi tutti i reati possono avere conseguenze più o meno irreparabili in relazione non solo alla loro intima struttura (si pensi all'omicidio) ma anche alle imponderabili variabili dei singoli casi concreti (si pensi all'evasione, al danneggiamento), in realtà quella dei reati ad effetti permanenti neppure può considerarsi categoria dotata di autonoma rilevanza, se non, forse, ai fini di precisarne la distinzione rispetto ai reati permanenti, abituali o a consumazione prolungata.
15 E’ fondamentale sottolineare che le questioni, indicate come estremamente rilevanti, non avevano accesso al caso Eternit per le peculiarità del caso di specie. Si riporta il passo della motivazione, sul punto, a seguire: “ Nessuna di dette evenienze, invero, assume rilievo nella fattispecie in esame. Non l'ipotesi dell'evento a distanza (sicuramente riconducibile alla nozione di consumazione rilevante ai sensi dell'art. 158 cod. pen.), perché nel caso in esame l'evento, consistendo nella immutatio loci, si è realizzato ed è venuto ad acquistare le connotazioni di straordinaria portata degenerativa dell'habitat naturale parallelamente e contestualmente alla prosecuzione dell'attività di lavorazione dell'amianto, e il momento di sua massima espansione sotto l'aspetto del fenomeno distruttivo naturalistico così innescato per fatto dell'imputato non può collegarsi a momenti successivi alla chiusura degli stabilimenti.
Non l'ipotesi del danno lungo-latente riferita alle patologie asbesto correlate, perché, a prescindere dal problema della possibile rilevanza anche in materia penale del momento della manifestazione piuttosto che della teorica insorgenza del male conseguente a condotta illecita, malattie e morti, come detto, non costituiscono l'evento del reato di disastro e potevano semmai venire presi in considerazione quali eventi individuali di reati di lesioni e omicidi, invece non contestati.
Non infine l'ipotesi dell'evento occulto, giacché - ripetuto che il danno rilevante ai fini della consumazione e del decorso della prescrizione è soltanto quello che coincide con l'evento tipizzato, e dunque con il disastro ambientale - l'impostazione accusatoria e le condanne pronunziate dai giudici di merito presuppongono che già quando l'odierno imputato aveva assunto la responsabilità della gestione del rischio di amianto per le aziende Eternit Italia, gli effetti "disastrosi" della lavorazione (almeno quella non adeguatamente controllata) dell'asbesto erano scientificamente noti. 8.3. D'altronde non può dimenticarsi che, come ricordano tra molte Corte cost. n. 434 del 2003 e n. 376 del 2008, il problema della efficacia morbigena delle polveri di amianto, ancorché non bene identificati i modi, i tempi e i livelli di concentrazione della esposizione produttiva delle patologie tumorali, venne posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni ottanta, e la lavorazione dell'amianto è stata oggetto di interventi dapprima limitativi poi inibitori che partono dalla direttiva CEE n. 477 del 19 settembre 1983.Nelle considerazioni premesse a tale direttiva già si dava atto della nocività dell'amianto e si rilevava che erano numerose le situazioni di lavoro in cui tale agente nocivo era presente, pur ammettendosi che le conoscenze scientifiche dell'epoca non consentivano di stabilire il livello al di sotto del quale non vi fossero più rischi per la salute. Sulla base di tali considerazioni, la direttiva dettava una serie di disposizioni volte, anzitutto, ad accertare, mediante le opportune notifiche da parte delle imprese, le lavorazioni comunque comportanti l'uso dell'amianto ed i livelli di concentrazione e ad ottenere la eliminazione di un certo tipo di lavorazione (applicazione dell'amianto a spruzzo: art. 5), l'adozione di misure concernenti le modalità di svolgimento delle lavorazioni, la protezione degli ambienti in cui si svolgevano, ed, infine, l'accertamento delle condizioni di salute dei lavoratori e la dotazione di idonei equipaggiamenti individuali, qualora non fosse stato possibile eliminare altrimenti i rischi. A tale direttiva gli Stati membri avrebbero dovuto dare attuazione entro il 1 gennaio 1987, ad esclusione che per le attività estrattive dell'amianto, per le quali era previsto un termine più lungo. L'Italia non adottò per tempo i provvedimenti dovuti, e la Corte di giustizia delle Comunità Europee, a seguito di procedura di infrazione promossa dalla Commissione, con sentenza 13 dicembre 1990, n. 240, la dichiarò inadempiente agli obblighi che le incombevano in forza del Trattato CEE.
Successivamente il Consiglio emise la direttiva n. 382 del 1991 con la quale, "considerando che, l'amianto è un agente particolarmente pericoloso che può provocare malattie gravi ed è presente in varie forme in numerose situazioni di lavoro", vietò, in aggiunta alla applicazione a spruzzo, altre forme d'impiego del materiale e indicò nuovi valori-limite, pur dando atto che non poteva ancora essere adottata una decisione che stabilisse "un unico metodo di misurazione del tenore di amianto nell'aria a livello comunitario". Per dare attuazione alla direttiva n. 477 del 1983 e alle altre concernenti la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, in esecuzione della delega di cui alla L. 30 luglio 1990, n. 212, art. 7 venne emanato il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, il quale, tra l'altro, all'art. 31 fissava valori-limite di esposizione alla polvere di amianto espressi come media ponderata in funzione del tempo di riferimento di otto ore. Con la L. 27 marzo 1992, n. 257, pubblicata un anno dopo, nella Gazzetta Ufficiale del 4 agosto 1993, vennero infine dettate "Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto". E in detto contesto normativo vale ricordare che l'art. 1, comma 1, individuava le finalità perseguite nella dismissione dell'amianto dalla produzione e dal commercio, nella cessazione dell'estrazione, dell'importazione, dell'esportazione, dell'utilizzazione di detto materiale e dei prodotti che lo contengono, nonché nella bonifica delle aree inquinate, nella ricerca di materiali sostitutivi e nella riconversione produttiva, mentre l'art. 10, comma 1, prevedeva che regioni e province autonome adottassero, entro centottanta giorni dalla data di emanazione del D.P.C.M. di cui all'art. 6, comma 5, piani di protezione dell'ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall'amianto. A tutto voler concedere, ed ammettendo in ipotesi che ai fini della nozione di evento "occulto" possa rilevare anche il ritardo nella informazione scientifica degli organi pubblici legato alla lentezza della risposta politica a problemi di tale fatta, almeno a far data dall'agosto dell'anno 1993 non poteva ignorarsi a livello comune l'effetto del rilascio incontrollato di polveri e scarti prodotti dalla lavorazione dell'amianto, definitivamente inibita, con comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti. E da tale data a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (del 13 febbraio 2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti, con eventuali atti interruttivi (12 anni più un quarto), per la maturazione della prescrizione in base alla L. n. 251 del 2005, per il reato in esame.
16 Per l’applicazione, in tema di lottizzazione abusiva del reato progressivo nell’evento, vedi Sez. 3, Sentenza n. 12772 del 28/02/2012 Cc. (dep. 04/04/2012 ) Rv.: “La contravvenzione di lottizzazione abusiva è reato progressivo nell' evento, che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o alle opere già eseguite, non esaurendo tali iniziali attività il percorso criminoso e protraendosi quest'ultimo attraverso gli interventi successivi incidenti sull'assetto urbanistico”(analogamente Sezione 3 n. 36940/2005 RV. 232190); in tema di riciclaggio, vedi Sez. 2, Sentenza n. 52645 del 20/11/2014 Ud. (dep. 18/12/2014 ) Rv. 261624 “In tema di riciclaggio, ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l'ultima delle operazioni poste in essere. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto realizzata la condotta consumativa del reato per l'intero arco temporale di operatività di una società costituita al fine di ripulire denaro, beni ed altre utilità, risultate in origine riconducibili ad esponenti di primo piano di "Cosa Nostra").
17 Queste le conclusioni della sentenza n. 4675 del 2007 (riguardante Porto Marghera), in cui il disastro innominato veniva indicato avente il carattere di reato eventualmente permanente, nel qual caso il reato si consuma in tale caso "sino a che perdura l'evento-disastro, ma ciò a condizione che l'evento-disastro perduri nel tempo per effetto di una persistente condotta del reo". La categoria è stata evocata in relazione a diverse norme, in tema di delitto di turbata liberta dell'industria o del commercio (vedi Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6251 del 22/12/2010 Ud. (dep. 21/02/2011 ) Rv. 249534 secondo cui “Il delitto di turbata liberta dell'industria o del commercio, ove la condotta fraudolenta si protragga nel tempo, ha natura di reato eventualmente permanente, identificandosi il momento di cessazione dell'antigiuridicità con l'ultimo atto illecito. (Fattispecie in tema di prescrizione, nella quale la Corte ha precisato che, in assenza di indicazioni circa l'epoca di ultimazione della condotta illecita, è legittimo computare il termine di decorrenza della prescrizione dalla data della querela)”), di riciclaggio (vedi Sez. 2, Sentenza n. 34511 del 29/04/2009 Ud. (dep. 07/09/2009 ) Rv. 246561 “il delitto di riciclaggio, pur essendo a consumazione istantanea, è a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente quando il suo autore lo progetti e lo esegua con modalità frammentarie e progressive.”) e di usura (Sez. 1, Sentenza n. 11055 del 19/10/1998 Ud. (dep. 22/10/1998 ) Rv. 211610: ” In tema di usura, qualora alla promessa segua - mediante la rateizzazione degli interessi convenuti - la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un "post factum" penalmente non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell'originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo "sostanziale" del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata. (Principio enunciato con riferimento a una fattispecie relativa all'incasso degli interessi usurari da parte di soggetti diversi da quelli partecipanti alla stipula del patto, dei quali la S.C. ha ritenuto la responsabilità a titolo di concorso nel reato)”.
18 Vedi la Corte di Cassazione, nella decisione del 19 novembre 2014 (dep. 23 febbraio 2015), n. 7941, Pres. Cortese, Est. Di Tomassi, imp. Schmidheiny, quanto all'ipotesi del “reato a evento differito”, nel quale si ha semplicemente un distacco temporale fra la condotta e l'evento tipico ad essa causalmente collegato”.
19 Principi ribaditi a seguire dalla Corte di cass. Sez. 6, Sentenza n. 17897 del 26/03/2009 Cc. (dep. 29/04/2009 ) Rv. 243319 , Sez. 6, Sentenza n. 26176 del 17/03/2009 Cc. (dep. 23/06/2009 ) Rv. 244522 , secondo cui “Ai fini del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente art. 322-ter cod. pen., il profitto confiscabile al corruttore va identificato nel solo incremento di valore che il bene abbia ricevuto per effetto dell'attività corruttiva. Ne consegue che il giudice deve prima stabilire il valore dell'incremento del bene e, successivamente, disporre il vincolo cautelare nei limiti del valore corrispondente all'incremento stesso. (Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto illegittimo il sequestro preventivo di terreni divenuti edificabili in conseguenza di una rimozione di vincoli disposta grazie all'ipotizzata stipula di un accordo corruttivo).
20 vedi Cass Sez. 6, Sentenza n. 42530 del 05/10/2012 Cc. (dep. 05/11/2012 ) Rv. 254482 secondo cui “Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 322 ter cod. pen., presuppone che sia precisamente determinato ed accertato in concreto il profitto del reato realmente lucrato. (Nella specie, la Corte ha annullato il decreto di sequestro preventivo, disposto nell'ambito di un procedimento per corruzione connessa all'aggiudicazione di pubblici appalti, di una somma di denaro, individuata come congrua in base ad un apprezzamento meramente presuntivo)”)
21 Vedi, sul punto, la Corte di Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8339 del 12/11/2013 Cc. (dep. 21/02/2014 ) Rv. 258787 secondo cui “In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 322 ter cod. pen., il profitto del reato è costituito dal vantaggio economico, già conseguito dall'imputato e di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, calcolato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato dal reato. (Fattispecie, nella quale la Corte ha annullato il provvedimento di sequestro preventivo - disposto nell'ambito di un procedimento per truffa aggravata e corruzione, connesse alla realizzazione di un parcheggio pubblico in "project financing" - che aveva considerato come profitto del reato anche utilità prospettiche e non ancora acquisite, determinate sulla base delle previsioni degli utili, che nell'arco temporale di oltre tre decenni sarebbero stati tratti dalla gestione economica del parcheggio medesimo)”; analogamente la Corte di Cass Sez. 5, Sentenza n. 25450 del 03/04/2014 Cc. (dep. 13/06/2014 ) Rv. 260750 secondo cui “In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il profitto derivante dal reato di manipolazione del mercato può consistere per l'azionista nella acquisizione della plusvalenza delle azioni ovvero nella evitata perdita di valore delle stesse, sempre che il vantaggio presenti i caratteri della immediata derivazione dell'illecito penale e della concreta effettività. (Nella specie, il profitto era stato individuato nella mancata perdita di valore delle azioni per effetto del reato di manipolazione di mercato, ma la Corte ha ritenuto non provata la realizzazione concreta del profitto e la sussistenza del nesso causale tra l'evitata perdita di valore delle azioni e il reato ipotizzato).
22 Vedi Cass. Sez. 6, Sentenza n. 24558 del 22/05/2013 Cc. (dep. 05/06/2013 ) Rv. 256812 secondo cui “Ai fini dell'adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la nozione di profitto del reato coincide con il complesso dei vantaggi economici tratti dall'illecito e a questi strettamente pertinenti, senza che possano essere sottratti i costi sostenuti per la commissione del reato. (In applicazione del principio, la Corte, in relazione ad una contestazione di abuso di informazioni privilegiate che aveva dato luogo ad un'operazione di compravendita di azioni da cui erano derivati ricavi di gran lunga superiori a quelli conseguibili attraverso una normale cessione, ha ritenuto legittimo il sequestro per equivalente anche con riferimento al valore corrispondente alle somme trattenute dalle società acquirenti a titolo di "retrocessione").
23 Vedi Cass. Sez. 5, Sentenza n. 40042 del 07/03/2014 Cc. (dep. 26/09/2014 ) Rv. 260546 secondo cui “In tema di reati transnazionali, è legittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, del profitto di un delitto che "sia commesso nello Stato ma abbia prodotto effetti sostanziali in un altro Stato", in virtù della previsione dell'art. 3 lett. d) della l. n. 146 del 2006 che, con tale dizione, si riferisce a tutti gli eventi che costituiscono una concreta e diretta conseguenza della commissione del delitto, ivi compreso l'incremento del patrimonio dell'autore del reato reso possibile dall'investimento in territorio estero dei proventi del delitto consumato in territorio italiano. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo "per equivalente" di alcuni cespiti appartenenti all'indagato, costituenti profitto derivante da un'associazione per delinquere operante in Italia e finalizzata alla commissione di furti nel territorio nazionale, i cui proventi erano stati reinvestiti all'estero).
24 E’ chiaro che una soluzione di questo tipo avrebbe comportato il dissolvimento per ablazione – in numerosi casi – dell’intero patrimonio dei responsabili.
25 Proprio in questa materia sarebbe stato certamente preferibile prevedere una confisca, anche per equivalente, commisurata al danno ovvero una peculiare forma di sequestro conservativo in fase d’indagine, sempre con destinazione dell’importo al ripristino ambientale/bonifica dei luoghi.
Né può ritenersi che possa trattarsi di una norma estranea al sistema: è appena il caso di osservare che il risarcimento, in caso di condanna, è commisurato al danno e non certo al profitto, sicchè si sarebbe potuto disporre di uno strumento normativo per finanziare interamente, nel caso di disponibilità di provviste finanziarie sufficienti in capo all’autore o agli autori, le bonifiche. Del resto la norma ART. 311 TUA (azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale) : 1. Il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l'azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto. 2. Chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, e' obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato. 3. Alla quantificazione del danno il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio provvede in applicazione dei criteri enunciati negli Allegati 3 e 4 della parte sesta del presente decreto. All'accertamento delle responsabilità risarcitorie ed alla riscossione delle somme dovute per equivalente patrimoniale il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio provvede con le procedure di cui al titolo III della parte sesta del presente decreto.
26 Il lato positivo è che risulta così esclusa in radice la possibilità di “neutralizzare” la confisca dei beni ex art. 12 sexies L. cit., simulando la bonifica.
27 Vedi il relativo comma: “L’istituto della confisca non trova applicazione nell’ipotesi in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica o ripristino dello stato dei luoghi”.
28 Potrebbe persino accadere l’assurdo: non viene calcolato il quantum del profitto (dunque non viene sequestrato alcunché) ma si procede a sequestrare beni dell’imputato ai sensi dell’art. 12 sexies L. Cit, risorse finanziarie che non potrebbero essere direttamente utilizzate per la bonifica (in assenza di richiamo normativo); in questo caso l’imputato potrebbe dichiarare il quantum del profitto, indicando alcuni o tutti i beni sequestrati ex art. 12 sexies L. Cit, per poi chiederne la restituzione al fine di procedere alla bonifica in modo dunque da recuperarli con questo espediente.