Pres. De Maio Est. Franco Ric. Orlandi
Rifiuti. Demolizione nave
Con decreto del 23 marzo 2007 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di La Spezia dispose il sequestro preventivo del relitto di una motonave arenata in località Cadimare e del retrostante cantiere recintato, in considerazione del fatto che, essendo in corso lo smantellamento del relitto, veniva effettuata una attività non autorizzata di smaltimento di rifiuti non pericolosi ed era quindi ipotizzabile il reato di cui all’art. 256, commi 1 e 2, d.lgs. 152 del 2006.
Il tribunale del riesame, con l’ordinanza in epigrafe, confermò il decreto di sequestro, osservando tra l’altro: - che l’imbarcazione era destinata alla demolizione, perché economicamente più conveniente rispetto alla sua rimozione; - che l’autorità portuale aveva a tal fine stipulato con la soc. Adriatic Sub un contratto di appalto, il quale prevedeva che la demolizione avrebbe comportato la produzione di rifiuti e quindi l’obbligo della società appaltatrice di provvedere al successivo smaltimento degli stessi a norma di legge; - che non risultava che la Adriatic Sub fosse in possesso della relativa autorizzazione allo smaltimento; - che il periculum in mora era ravvisabile nella necessità di non aggravare le conseguenze del reato o nel non agevolare la realizzazione di altri reati; - che invero il subappalto conferito dalla Adriatic Sub alla ditta Serlenga per lo smaltimento dei rifiuti avrebbe potuto essere in violazione dell’ art. 21 della legge n. 646/1982 in quanto non previamente autorizzato dall’ente pubblico e concesso in favore di un soggetto che risulterebbe indagato per associazione per delinquere; - che il periculum era anche ravvisabile nella necessità di evitare una situazione di illiceità circa la prevenzione degli incendi a bordo; - che nel cantiere erano stati depositati circa 30 mc di rifiuti, e quindi una quantità che superava il limite fissato dalla legge.
L’indagato propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione degli artt. 256, comma 1, lett. a), e 183, comma 1, lett. a), d), e) g), li), d.lgs. 152/2006. Osserva che il fatto che il contratto di appalto per la demolizione della nave prevedesse che l’impresa appaltatrice dovesse provvedere allo smaltimento dei rifiuti, non significa affatto che tale impresa dovesse anche essere in possesso della relativa autorizzazione, potendo subdelegare le attività di smaltimento e recupero dei rifiuti a soggetto autorizzato. La ditta appaltatrice, invero, si stava occupando solo dell’attività di demolizione in senso stretto, attività che non può certo ricondursi alla raccolta o smaltimento dei rifiuti, attività successive che dovevano essere realizzate da soggetto autorizzato. E’ evidente che la demolizione del relitto costituisce attività che, per sua natura, produce rifiuti, che hanno poi necessità di essere gestiti, ma l’attività di demolizione in sé non richiede alcuna autorizzazione. Ed infatti, il relitto della nave non può di per sé essere considerato un rifiuto e quindi assoggettato alla disciplina del d.lgs. 152/2006, non essendo tra l’altro riconducibile ad alcuna delle categorie di rifiuti indicate nell’allegato A. Pertanto, non la nave oggetto di eventuale demolizione può essere configurata come rifiuto, bensì quelle parti della stessa che, non oggetto di recupero, siano destinate allo smaltimento. Diversamente, ogni cantiere ed ogni attività di demolizione, anche edile, dovrebbero considerarsi come attività di trattamento di rifiuti. Quindi, la demolizione della nave non può essere ricondotta ad una attività di gestione di rifiuti e pertanto nessuna attività di recupero, raccolta o smaltimento di rifiuti era posta in essere. Conseguentemente deve escludersi ilfutnus del reato ipotizzato.
Osserva poi che, per quanto concerne il periculum in mora, il tribunale lo ha individuato nel fatto che il subappalto alla ditta Serlenga potrebbe essere in violazione dell’art. 21 della l. 646/1982, perché non previamente autorizzato dall’ente pubblico e concesso a soggetto che risulterebbe indagato per associazione per delinquere. Si tratta di una motivazione erronea perché il pericolo viene ritenuto in relazione ad ipotesi di reato nemmeno contestate e meramente ipotetiche. Le stesse considerazioni valgono per la presunta necessità di evitare il pericolo di incendi a bordo della nave, anche perché le ditte operanti nel cantiere erano in possesso delle autorizzazioni necessarie a tal fine.
2) violazione dell’art. 183, comma I, lett. m), d.lgs. 152/2006. Lamenta che erroneamente il tribunale ha escluso che i rifiuti prodotti dalla demolizione ed accumulati nell’area del cantiere potessero essere ricondotti alla figura del deposito temporaneo, esclusivamente in considerazione del fatto che raggiungevano i 30 mc e quindi superavano il limite di legge. Invero, sempre che siano rispettate le altre condizioni previste dalla disposizione citata in tema di qualità, di tempo, di quantità, di organizzazione tipologica e di rispetto delle norme tecniche, è consentito al produttore di scegliere, in alternativa, di contenere il quantitativo dei rifiuti in 20 mc (per i rifiuti non pericolosi) ed in tal caso il deposito non può avere durata superiore ad un anno, oppure di effettuare lo smaltimento o il recupero, indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, ossia quando i rifiuti superano i 20 mc., con cadenza bimestrale (per i rifiuti pericolosi) o trimestrale (per quelli non pericolosi). In altri termini, il produttore, ferme le altre condizioni, può decidere di conservare i rifiuti in deposito per tre mesi in qualsiasi quantità prima di inviarli allo smaltimento o al recupero, oppure dì conservare i rifiuti in deposito per un anno, purché la loro quantità non raggiunga i 20 mc. L’ordinanza impugnata si è limitata a rilevare il solo dato quantitativo senza accertare il superamento del limite trimestrale del termine di giacenza. Nella specie poi tale accertamento aveva un particolare rilievo perché risultava dagli atti che l’attività di demolizione della nave era iniziata di fatto solo alla fine del mese di gennaio del 2007, e che quindi il termine trimestrale non era stato superato. Anche sotto questo profilo, quindi, non era ravvisabile il fumus del reato, perché non era stata realizzata alcuna attività di gestione di rifiuti non autorizzata, ricorrendo invece tutti i requisiti per la configurabilità del deposito temporaneo.
Motivi della decisione
Va preliminarmente rilevato che il tribunale del riesame è partito dal presupposto che il suo sindacato non può investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma deve limitarsi alla verifica della astratta possibilità di ricondurre il fatto contestato alla fattispecie di reato ipotizzata dall’organo dell’accusa, accertando la sussistenza del fumus solo sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non potrebbero essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che andrebbero valutati così come proposti dal pubblico ministero. Questo principio, che pure a volte è stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, appare però contrario ad una corretta interpretazione condotta alla stregua dei principi costituzionali ed è stato disatteso innumerevoli volte dalla giurisprudenza più recente, alla quale questo Collegio aderisce, secondo cui il tribunale del riesame, per espletare il molo di garanzia che la legge gli demanda, non può avere riguardo solo la astratta configurabilità del reato, ma deve prendere in considerazione e valutare, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali, e quindi non solo gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, ma anche le confutazioni e gli elementi offerti dagli Indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del fumus del reato contestato (cfr., Sez. 1, 9 dicembre 2003, n. 1885/04, Cantoni, m. 227.498, e da ultimo, Sez. III, 16 marzo 2006 n. 17751; Sez. III, 8 novembre 2006, Pulcini; Sez. III, 9 gennaio 2007, Sgadari).
Ciò posto, non è chiaro dall’ordinanza impugnata se il tribunale del riesame abbia ritenuto che la società Adriatic Sub (che aveva avuto in appalto dalla autorità portuale l’attività di demolizione della nave arenatasi in località Cadimare e non più rimovibile) avesse bisogno della autorizzazione per la gestione dei rifiuti già per questa attività di smantellamento e di demolizione (dovendosi considerare la nave arenata di per sé come un rifiuto e quindi come gestione di rifiuti la sua demolizione) ovvero avesse bisogno della detta autorizzazione solo per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalla attività di demolizione.
Il tribunale del riesame ha desunto la sussistenza dell’obbligo di munirsi della autorizzazione dal fatto che la nave era destinata alla demolizione e che nel contratto di appalto stipulato dalla autorità portuale con la società Adriatic Sub era previsto che la demolizione avrebbe comportato la produzione di rifiuti e quindi lo specifico obbligo per la società appaltatrice di provvedere al successivo recupero, trasporto e vendita del ferro e lo smaltimento a norma dì legge del materiale di risulta.
Senonché, il fatto che il contratto di appalto contenesse questa clausola non significa che l’impresa appaltatrice dovesse essere anche in possesso della autorizzazione alla gestione dei rifiuti, dal momento che ben poteva subdelegare a soggetto autorizzato le attività di smaltimento e di recupero dei rifiuti.
Se poi il tribunale del riesame ha ritenuto che la Adriatic Sub avesse bisogno della autorizzazione già solo per la attività di smantellamento della nave (considerata di per sé quale rifiuto) si tratterebbe di una erronea interpretazione della normativa sui rifiuti, che non può essere condivisa. Invero, l’attività di demolizione in senso stretto non può ricondursi ad una raccolta o smaltimento di rifiuti, attività queste successive che debbono essere realizzate da soggetto autorizzato. Nella nozione di gestione di rifiuti non può rientrare l’attività di demolizione di una nave, così come non vi rientrano, di per sé, le attività di demolizione di un edificio o di strutture presso cantieri mobili e temporanei quali quello in questione. E’ evidente che la demolizione del delitto costituisca una attività che, per sua natura, produce rifiuti di diverse tipologie, che hanno necessità, una volta prodotti, di essere gestiti in conformità alle prescrizioni della normativa sui rifiuti, ma l’attività di demolizione in sé non costituisce attività di gestione di rifiuti e non richiede quindi il possesso della relativa autorizzazione. Del resto, l’ordinanza impugnata nulla dice in ordine alla qualificazione giuridica della nave in sé e della attività posta in essere all’interno del cantiere, e tanto meno indica in quale delle categorie riportate nell’allegato A del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, rientrerebbe il relitto della nave. Ed in effetti, il Collegio condivide l’assunto della difesa, secondo cui la nave non potrebbe rientrare né nella voce Q4 (sostanze accidentalmente riversate, perdute o aventi subito qualunque altro incidente, compresi tutti i materiali, le attrezzature ecc. contaminati in seguito all’incidente in questione), né nella voce Ql4 (prodotti di cui il detentore non si serve più), né infine nella voce residuale Q16 (qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle altre categorie e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi), non potendo una nave essere definita come sostanza, materia o prodotto.
D’altra parte, diversamente ritenendo, ogni cantiere di demolizione ed ogni attività di demolizione, anche edile, dovrebbero essere considerati come attività di trattamento di rifiuti e dovrebbero essere qualificati come impianti per la gestione di rifiuti tutti i cantieri di demolizione navali o edili.
E’ perciò chiaro che non la nave, oggetto di eventuale demolizione, sia configurabile come rifiuto, bensì quelle parti della stessa (sostanze, prodotti, materie) che sono prodotte dalla demolizione e siano destinate al recupero o allo smaltimento.
Né potrebbe assimilarsi il relitto della nave ai veicoli fuori uso, sia in considerazione del fatto che per questi esiste una specifica disciplina in materia (d.lgs. 24 giugno 2003, n. 209), la cui applicabilità non può essere estesa al caso di specie, sia del fatto che per essi è previsto l’inserimento nel Catalogo europeo dei rifiuti, che n è invece previsto per le navi.
Pertanto, stante l’impossibilità di qualificare giuridicamente la nave arenata in questione come un rifiuto, la sua demolizione non poteva essere ricondotta ad una attività di gestione di rifiuti, ma a quella di un cantiere di demolizione. La demolizione della nave, dunque, non integrava di per sé alcuna attività di recupero, raccolta o smaltimento di rifiuti, sicché sotto questo aspetto non sussiste il fumus del reato di cui all’art. 256, primo comma, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. E’ invero evidente che all’interno del cantiere è stata realizzata una attività produttiva di rifiuti, ma non una attività di raccolta, smaltimento o recupero degli stessi.
Tali attività, come già rilevato, sono concettualmente successive a quella di demolizione e dovevano, esse sì, essere realizzate da soggetto debitamente autorizzato. Solo che la Adriatic Sub non aveva l’obbligo di munirsi essa stessa della autorizzazione alla gestione dei rifiuti in quanto ben avrebbe potuto - come sostiene la difesa - subappaltare questa attività a soggetto debitamente autorizzato.
Va in secondo luogo rilevato che, dalla ordinanza impugnata, nemmeno emerge che nella specie fosse effettivamente iniziata, da parte della Adriatica Sub o della subappaltante ditta Serlenga, una attività di recupero e smaltimento di rifiuti, ossia una attività per la quale era necessario il possesso della relativa autorizzazione.
Dal provvedimento impugnato emerge infatti esclusivamente che i rifiuti prodotti dalla attività di demolizione erano accumulati nella stessa area di cantiere. Il tribunale del riesame ha ritenuto che non ricorresse l’ipotesi di un deposito temporaneo ai sensi dell’art. 183, lett. m), del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per il motivo che erano stati individuati circa 30 mc. di rifiuti, e cioè una quantità che superava il limite fissato dalla norma. Si tratta però di una interpretazione chiaramente erronea.
Ed invero, ai sensi del citato art. 183, lett. m), del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, si intende per deposito temporaneo il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti, quando siano rispettate precise condizioni di qualità, di tempo, di quantità, di organizzazione tipologica e di rispetto delle norme tecniche, elencate nella disposizione.
Il deposito temporaneo, a differenza del deposito preliminare o stoccaggio (che è incluso nelle operazioni di smaltimento dei rifiuti e, come tale, è soggetto ad autorizzazione o a comunicazione in procedura semplificata) esula dalle operazioni di smaltimento e, in genere, da tutta l’attività di gestione dei rifiuti, costituendo una operazione preliminare o preparatoria alla gestione e, come tale, è libero anche se pur sempre soggetto al rispetto delle condizioni dettagliatamente specificate. In particolare, affinché i requisiti di ammissibilità del deposito temporaneo siano rispettati, è necessario che il raggruppamento dei rifiuti avvenga nel luogo di produzione degli stessi, i rifiuti non debbono contenere quantitativi di determinate sostanze al di sopra di un certo limite, il deposito deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle norme tecniche, debbono inoltre essere rispettati i previsti limiti quantitativi e temporali entro i quali i rifiuti debbono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero e smaltimento.
Nel caso di specie risulta che i rifiuti depositati nell’area del cantiere non erano rifiuti pericolosi. Ora, l’art. 183, lett. m), cit. consente di scegliere, in alternativa, di contenere il quantitativo di rifiuti entro un certo volume (20 mc. per i rifiuti non pericolosi), superato il quale occorre recuperarli o smaltirli, oppure di effettuare tali operazioni, indipendentemente dal quantitativo dei rifiuti, con cadenza bimestrale (per i rifiuti pericolosi) o trimestrale (per i rifiuti non pericolosi). In ogni caso, pur rispettando il dato quantitativo, il deposito non può avere durata superiore ad un anno. Il produttore dei rifiuti, quindi, può alternativamente e facoltativamente scegliere di adeguarsi al criterio quantitativo o a quello temporale per ottemperare alle condizioni del deposito temporaneo. Dunque, ferme le altre condizioni qualitative, il produttore dei rifiuti - qualora si tratti di rifiuti non pericolosi - può decidere di conservare i rifiuti in deposito per tre mesi in qualsiasi quantità, prima di avviarli allo smaltimento o al recupero (privilegiando così il limite temporale), oppure può scegliere di conservare i rifiuti in deposito per un anno, purché la loro quantità non raggiunga i venti metri cubi (privilegiando così i limite quantitativo) (cfr. Sez. III, 11 ottobre 2006, n. 39544, Tresolat, m. 235705).
Il tribunale del riesame ha dunque escluso il deposito temporaneo ed ha ritenuto sussistente il fumus del reato contestato sulla base di una errata interpretazione della nozione di deposito temporaneo, essendosi invero limitato a considerare il mero dato quantitativo dei rifiuti ed omettendo qualsiasi tipo di accertamento e di valutazione in merito al requisito temporale, che non è stato preso in considerazione.
Invece, per esulare dai confini del deposito temporaneo, non era sufficiente affermare che il quantitativo dei rifiuti depositati nel luogo di produzione superasse i 20 mc., ma occorreva contemporaneamente accertare il superamento del limite trimestrale del tempo di giacenza, atteso che il produttore può scegliere di conservare qualsiasi quantitativo di rifiuti in deposito temporaneo, prima di avviarli allo smaltimento o al recupero, per un tempo di tre mesi, purché osservi le altre condizioni prescritte riguardo alla qualità dei rifiuti, al rispetto delle norme tecniche e al raggruppamento per tipi omogenei.
L’ordinanza impugnata è quindi affetta da erronea interpretazione di legge e da mancanza di motivazione, non essendo stata accertata e valutata la sussistenza nella specie delle condizioni per configurarsi un deposito temporaneo, e ciò tanto più che la difesa aveva eccepito che risultava dagli stessi atti che la attività di demolizione della nave era iniziata solo alla fine del mese di gennaio del 2007 e che quindi alla data del sequestro da parte dei carabinieri (13 marzo 2007) non era ancora scaduto il termine trimestrale e non era pertanto ancora iniziata alcuna attività di gestione dei rifiuti non autorizzata.
Va altresì rilevato che la motivazione dell’ordinanza impugnata è erronea e mancante anche in ordine al periculum in mora, che è stato individuato nel fatto che il subappalto conferito dalla Adriatic Sub alla ditta Serlenga potrebbe essere in violazione della legge 13 settembre 1992, n. 646, in quanto non previamente autorizzato dall’ente pubblico e concesso a favore di un soggetto che risulterebbe indagato per associazione per delinquere nonché nella necessità di evitare il protrarsi di una situazione di illiceità circa la prevenzione degli incendi a bordo, connessa al mancato rispetto della normativa di settore.
E’ di tutta evidenza come si tratti di una motivazione inconferente ed inidonea a giustificare il permanere del disposto sequestro preventivo, perché il periculum è individuato in relazione ad ipotesi di reato neppure contestate e meramente ipotetiche.
L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio al tribunale del riesame per nuovo giudizio.