Cass. Sez. III n. 16346 del 29 aprile 2021 (UP 11 gen 2021)
Pres. Ramacci Est. Andronio Ric. Baldi
Rifiuti.Reato di combustione illecita

ll reato di combustione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, si configura con l’appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesti, per l’integrazione del reato, la dimostrazione del danno all’ambiente e il pericolo per la pubblica incolumità. A fronte di una disciplina originariamente incentrata su illeciti contravvenzionali, salva l’ipotesi del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, prevista dall’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, il “nuovo” art. 256-bis, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 136 del 2013, come convertito con modifiche nella legge n. 6 del 2014, nel medesimo d.lgs., ha previsto due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti al primo, al terzo e al quarto comma, un’ipotesi di confisca al quinto comma, ed un illecito amministrativo che costituisce un limite alla rilevanza penale delle condotte suindicate al sesto comma. Il primo comma così recita: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni». La circostanza che il legislatore abbia introdotto l’espressa clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato” e l’avere utilizzato per la la locuzione “appicca il fuoco”, senza ulteriori specificazioni, a differenza della previsione dell’art. 424 cod. pen. nella quale assume significato e rilevanza penale solo se da esso “sorge il pericolo di un incendio”, costituiscono elementi sulla base dei quali si deve ritenere la fattispecie quale reato di pericolo concreto per il quale non assume rilievo l’evento dannoso del danno all’ambiente


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 18 giugno 2020, la Corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Livorno del 9 marzo 2018, con la quale l’imputato era stato condannato, in ordine al reato di cui all’art. 256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, per aver appiccato il fuoco ad un cumulo di rifiuti, anche di tipo pericoloso – quali flaconi di plastica, contenitori di prodotti chimici ed altri residui di attività edilizia – depositati in maniera incontrollata sul fondo di sua proprietà.

2. Avverso la sentenza l’imputato, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si deduce il vizio di motivazione relativo all’assenza di una valutazione autonoma circa la credibilità soggettiva del testimone Perugi, sul rilievo che – posta la centralità delle sue dichiarazioni nella decisione di condanna – sarebbe stato opportuno un rinnovo dell’istruttoria dibattimentale affinché fosse vagliata, in modo rigoroso, la credibilità del dichiarante, soprattutto in virtù dei forti contrasti sorti negli anni con l’imputato, suscettibili di minare l’attendibilità della testimonianza.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano l’erronea applicazione della legge penale, nonché il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, nella parte in cui il giudice avrebbe pronunciato sentenza di condanna sulla base dell’unica deposizione del testimone, senza suffragare la responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, violando gli artt. 530, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen.
2.3. In terzo luogo, si deduce l’erronea applicazione dell’art. 256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, sul rilievo che il giudice avrebbe erroneamente qualificato la condotta dell’imputato, la quale non avrebbe integrato il delitto di combustione illecita di rifiuti, di cui alla citata disposizione, quanto invece il delitto di incendio, ex art. 423 cod. pen.; e ciò, perché non si sarebbe trattato di un abbruciamento di rifiuti pericolosi abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata, bensì di materiale prevalentemente legnoso, non nocivo per l’ambiente.
2.4. Con un quarto motivo di doglianza, si censurano l’inosservanza dell’art. 131-bis cod. proc. pen., ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte non avrebbe accolto la richiesta di applicazione della causa di non punibilità, nonostante il rispetto del limite massimo dei cinque anni previsto dalla norma in esame, la particolare tenuità del fatto – sul rilievo che il fuoco era di modeste dimensioni e riguardava prevalentemente materiale naturale – e l’incensuratezza dell’imputato.
2.5. Con un quinto motivo di ricorso, si lamenta l’erronea applicazione dell’art. 175 cod. pen., in relazione al diniego del beneficio della non menzione, poiché il giudice non avrebbe considerato tutti gli elementi necessari alla concessione dello stesso, ossia l’incensuratezza, l’età dell’imputato, la non abitualità e la particolare tenuità del fatto, giustificando il diniego esclusivamente in relazione alla rilevanza del bene tutelato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di doglianza – con cui si lamenta la mancanza di una autonoma valutazione della credibilità soggettiva del testimone – è inammissibile perché basato su una sostanziale riproposizione di rilievi di merito già esaminati e motivatamente disattesi dal giudice di secondo grado.
La sentenza impugnata risulta, sul punto, adeguatamente motivata, laddove la Corte ha specificato che la deposizione resa all’esito dell’accertamento della polizia giudiziaria – realizzatosi a seguito della segnalazione del testimone – ha ricevuto, in quella sede, una oggettiva conferma, tanto da non ritenere esistente alcuna ragione valida per procedere ad un nuovo esame, a fronte di una ricostruzione alternativa dei fatti del tutto congetturale e inverosimile da parte della difesa.
1.2. Il secondo motivo di ricorso – sostanzialmente riferito al mancato raggiungimento della prova della responsabilità penale dell’imputato – è inammissibile, perché articolato in fatto, attraverso la riproposizione degli stessi argomenti contenuti nell’atto di appello, in mancanza di critiche specifiche di legittimità alla decisione impugnata, richiedendosi alla Corte di cassazione una nuova valutazione del fatto.
Va ribadito, sul punto, che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex plurimis, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 11/02/2021, Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482). E nel ricorso per cassazione non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che riguardano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (ex plurimis, Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965).
Tanto premesso in termini generali, nel caso di specie la sentenza della Corte  d’appello è adeguatamente motivata relativamente all’affermazione di responsabilità dell’imputato, poiché basata, oltre che sulle dichiarazioni del testimone, anche su elementi palesati nel verbale di sopralluogo e nei rilievi fotografici, da cui si evincono con chiarezza le dimensioni del cumulo di rifiuti e la loro natura, trattandosi, oltre che di legna, anche di rifiuti pericolosi, quali materiali di plastica e cera.
1.3. Il terzo motivo – riferito essenzialmente all’erronea qualificazione della condotta dell’imputato che sarebbe da ritenersi integrativa, semmai, del delitto di incendio – è parimenti inammissibile, perché si fonda sulla mera riproposizione di doglianze di merito già esaminate e motivatamente disattese dal giudice di secondo grado.
Occorre, preliminarmente, richiamare l’indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, da cui il collegio non intende discostarsi, secondo il quale il reato di combustione illecita di rifiuti, di cui all’art. 256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, si configura con l’appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesti, per l’integrazione del reato, la dimostrazione del danno all’ambiente e il pericolo per la pubblica incolumità. A fronte di una disciplina originariamente incentrata su illeciti contravvenzionali, salva l’ipotesi del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, prevista dall’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, il “nuovo” art. 256-bis, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 136 del 2013, come convertito con modifiche nella legge n. 6 del 2014, nel medesimo d.lgs., ha previsto due delitti nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti al primo, al terzo e al quarto comma, un’ipotesi di confisca al quinto comma, ed un illecito amministrativo che costituisce un limite alla rilevanza penale delle condotte suindicate al sesto comma. Il primo comma così recita: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni». La circostanza che il legislatore abbia introdotto l’espressa clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato” e l’avere utilizzato per la la locuzione “appicca il fuoco”, senza ulteriori specificazioni, a differenza della previsione dell’art. 424 cod. pen. nella quale assume significato e rilevanza penale solo se da esso “sorge il pericolo di un incendio”, costituiscono elementi sulla base dei quali si deve ritenere la fattispecie quale reato di pericolo concreto per il quale non assume rilievo l’evento dannoso del danno all’ambiente (Sez. 3, n. 17069 del 24/01/2019, Rv. 275905; Sez. 3, n. 52610 del 04/10/2017, Rv. 271359). La soluzione interpretativa appena indicata, inoltre, appare in linea anche con le indicazioni esposte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del d.l. in esame, laddove si evidenzia che la previsione delle nuove fattispecie è stata determinata dall’inadeguatezza del (pre)vigente sistema sanzionatorio, e, in particolare, (anche) della fattispecie prevista dall’art. 423 cod. pen., ad assicurare una sufficiente tutela per l’ambiente e per la salute collettiva.
Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata ha dato atto che il ricorrente era stato sorpreso nell’appiccare il fuoco, nel fondo di sua proprietà, a diverso materiale (legno, falconi di plastica, contenitori di prodotti chimici, cera), oggetti certamente qualificabili in larga parte come rifiuti pericolosi ai sensi della normativa vigente; ha inoltre escluso la necessità di verifica del danno all’ambiente, sicché correttamente ha confermato l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato per il reato di combustione illecita di rifiuti ex art. 256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006, non essendo pertinente al caso in esame il richiamo difensivo alla diversa ipotesi di incendio ex art. 423 cod. pen.
1.4. Il quarto motivo di doglianza – con cui ci si duole della mancata applicazione della causa di non punibilità, di cui all’art. 131-bis cod. proc. pen. – è inammissibile, poiché anch’esso riproduttivo di rilievi di merito già esaminati e motivatamente disattesi dalla Corte territoriale. La sentenza impugnata ha correttamente motivato sul punto, non rinvenendo la particolare tenuità dell’offesa, trattandosi, anzi, di un abbruciamento di rifiuti di tipo anche pericoloso, a fronte di mere asserzioni difensive di segno contrario.
1.5. Il quinto motivo di ricorso – riferito al diniego del beneficio della non menzione – è inammissibile, per analoghe ragioni.
Il provvedimento impugnato risulta, in ogni caso, adeguatamente motivato sul punto: la Corte d’appello ritiene che «la natura particolarmente sensibile del bene tutelato, l’ambiente, precluda nella specie il riconoscimento di siffatto beneficio», riferendosi, evidentemente, alla specificità del fatto concreto per cui si procede, così come descritto nell’imputazione e nella sentenza, al quale è riconosciuta una certa gravità, essendo state coinvolte categorie di rifiuti eterogenee, anche di tipo pericoloso.

2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.

P.Q.M

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Si dà atto che, ai sensi dell’art. 546, comma 2, cod. proc. pen., conformemente alle indicazioni contenute nel decreto del Primo Presidente, n. 163/2020 del 23 novembre 2020 – recante “Integrazione linee guida sulla organizzazione della Corte di cassazione nella emergenza COVID-19 a seguito del d.l. n. 137 del 2020” – la presente ordinanza viene sottoscritta dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore.

Così deciso il 11/01/2021.