Corte costituzionale n. 121 del 15 giugno 2023
Oggetto: Animali - Sanzioni amministrative - Norme della Regione Siciliana - Norme per la tutela degli animali e la prevenzione del randagismo - Obblighi e divieti a carico dei proprietari e dei detentori - Divieti - Denunciata previsione di divieti [e di sanzioni amministrative in caso di violazione] per condotte corrispondenti a specifiche fattispecie di reato: art. 544-bis codice penale [uccisione di animali], art. 544-ter codice penale [maltrattamento di animali], art. 544-quinquies codice penale [divieto di combattimenti tra animali], art. 672 codice penale [omessa custodia e malgoverno di animali], art. 727 codice penale [abbandono di animali], art. 2 legge n. 189 del 2004 [divieto di utilizzo a fini commerciali di pelli e pellicce].
Sanzione amministrativa da euro 75 a euro 450 in caso di violazione delle disposizioni previste dalla legge regionale [nella specie, con riferimento ai divieti a carico dei proprietari e dei detentori] - Denunciata possibilità di una indebita commistione con la normativa statale per la potenziale sovrapposizione dei divieti introdotti dalla legge regionale rispetto a talune fattispecie di reato, in particolare per la fattispecie di omessa custodia e mal governo di animali di cui all'art. 672 codice penale e per quella di abbandono di animali di cui all'art. 727 codice penale.
Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza
SENTENZA N. 121
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 12, comma 5, e 34 della legge della Regione Siciliana 3 agosto 2022, n. 15 (Norme per la tutela degli animali e la prevenzione del randagismo), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 3 ottobre 2022, depositato in cancelleria il 7 ottobre 2022, iscritto al n. 71 del registro ricorsi 2022 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Udito nell’udienza pubblica del 24 maggio 2023 il Giudice relatore Francesco Viganò;
udito l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 24 maggio 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato il 7 ottobre 2022 (reg. ric. n. 71 del 2022), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 12, comma 5, e 34 della legge della Regione Siciliana 3 agosto 2022, n. 15 (Norme per la tutela degli animali e la prevenzione del randagismo), il primo in quanto invasivo della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento penale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, il secondo per contrasto con il medesimo parametro e con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
1.1.– Osserva preliminarmente il ricorrente che l’impugnato art. 12, comma 5, prevede una serie di divieti concernenti cani, gatti e altri animali domestici o di affezione, la cui sanzione è stabilita dall’art. 34 della medesima legge regionale. Tale ultima disposizione prevede, al comma 1, che «[f]atte salve le sanzioni previste dalla normativa nazionale, chiunque contravviene alle disposizioni previste dalla presente legge è punito con la sanzione amministrativa da euro 75 ad euro 450».
Ad avviso del ricorrente, varie condotte elencate nell’art. 12, comma 5, corrisponderebbero a specifiche fattispecie di reato previste dal codice penale, e in particolare a quelle di cui agli artt. 544-bis (Uccisione di animali), 544-ter (Maltrattamento di animali), 544-quinquies (Divieto di combattimenti tra animali), 672 (Omessa custodia e mal governo di animali), e 727 (Abbandono di animali), nonché dall’art. 2 (Divieto di utilizzo a fini commerciali di pelli e pellicce e disposizioni sanzionatorie sul commercio dei prodotti derivati dalla foca) della legge 20 luglio 2004, n. 189 (Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate).
Conseguentemente, la disposizione di cui all’art. 12, comma 5, determinerebbe uno «sconfinamento nel campo della disciplina penale», determinato dalla parziale sovrapposizione delle fattispecie da essa previste rispetto alle fattispecie incriminatrici previste dalla legislazione statale.
La clausola di salvezza contenuta nell’art. 34 non sarebbe d’altra parte sufficiente a evitare un simile esito, dal momento che essa parrebbe presupporre l’applicazione congiunta delle sanzioni penali e di quelle previste dalla legge regionale.
La disposizione di cui all’art. 12 dovrebbe pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale, «nella parte in cui, al comma 5, prevede divieti per condotte che corrispondono a specifiche fattispecie di reato previste dalla legislazione penale».
1.2.– Lo stesso art. 34 dovrebbe, inoltre, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, dal momento che tale disposizione – in combinato disposto con l’art. 12, comma 5 – determinerebbe «il rischio di una indebita commistione con la normativa statale, per la potenziale sovrapposizione dei divieti introdotti dalla legge regionale» rispetto alle fattispecie di reato sopra menzionate. Mancando, infatti, nell’art. 34 una clausola di salvezza che chiaramente affermi che le sanzioni previste dalla legge regionale non si applicano laddove un fatto sia già previsto come reato o come illecito amministrativo dalla legge statale, esso interferirebbe con la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento penale.
Inoltre, tale disposizione violerebbe anche l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, giacché «l’irrogazione della sanzione amministrativa regionale potrebbe comportare l’impossibilità di applicare legittimamente le norme penali statali, stante la natura sostanzialmente punitiva delle sanzioni amministrative, che si andrebbero a sommare alle pene già previste dal legislatore statale, così incontrando il noto limite del principio del ne bis in idem», come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e in particolare dalla sentenza della grande camera 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, «costituente “diritto vivente europeo” secondo la sentenza della Corte costituzionale 24.1.2018 n. 43», nonché della stessa giurisprudenza di questa Corte (è citata la sentenza n. 149 del 2022).
2.– La Regione Siciliana non si è costituita in giudizio.
Considerato in diritto
1.– Con il ricorso in epigrafe (reg. ric. n. 71 del 2022), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 12, comma 5, e 34 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2022, il primo in quanto invasivo della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento penale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., il secondo per contrasto con il medesimo parametro e con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU.
2.– Occorre preliminarmente dare atto che entrambe le disposizioni sono state modificate, dopo la proposizione del ricorso, per effetto dell’art. 45 della legge della Regione Siciliana 22 febbraio 2023, n. 2 (Legge di stabilità regionale 2023-2025), che ha da un lato soppresso l’art. 12, comma 5, della legge reg. Siciliana n. 15 del 2022, e dall’altro ha modificato l’art. 34 della medesima legge regionale, inserendovi il comma 2-bis, a tenore del quale le sanzioni ivi previste «non si applicano laddove un fatto sia già previsto come reato o come illecito amministrativo dalla normativa nazionale».
Le modifiche appaiono, invero, satisfattive delle doglianze fatte valere con il ricorso. Tuttavia, non avendo la Regione, non costituita in giudizio, fornito prova della mancata applicazione medio tempore della disciplina impugnata, la materia del contendere non può ritenersi cessata (in questo senso, ex multis, sentenze n. 90 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto; n. 80 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto; n. 79 del 2023, punto 8 del Considerato in diritto).
3.– Nel promuovere il ricorso ora all’esame, il Governo non ha dedotto che la Regione non abbia di per sé competenza legislativa ad apprestare tutela agli animali, dolendosi piuttosto – e in via esclusiva – dell’introduzione a questo fine di un apparato sanzionatorio sovrapposto a quello apprestato dalla legge penale: con conseguente lamentata invasione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento penale e violazione del principio del ne bis in idem.
A questi soli profili è, pertanto, confinato il vaglio che questa Corte è ora chiamata a svolgere, restando impregiudicata la questione se, ed eventualmente in che misura, la Regione Siciliana possa esercitare proprie competenze legislative in questa materia (sul punto, con riferimento a una regione a statuto ordinario, sentenza n. 277 del 2019, punto 5.2.2. del Considerato in diritto).
4.– L’art. 12, comma 5, impugnato testualmente prevedeva:
«[è] vietato:
a) l’abbandono dei cani, dei gatti e di qualsiasi altro animale domestico o di affezione custodito;
b) vendere o cedere, a qualsiasi titolo ed anche sul web, cani e gatti non identificati e non registrati in anagrafe;
c) vendere o cedere, a qualsiasi titolo, o separare dalla madre, per qualsiasi finalità, cani e gatti di età inferiore ai due mesi, fatti salvi i casi in cui i cuccioli devono essere allontanati dalla madre per motivi sanitari;
d) offrire, direttamente o indirettamente, animali d’affezione come premio, vincita, omaggio o regalo per giochi, sottoscrizioni o altre attività che si svolgono in occasione di qualsivoglia evento pubblico o privato e segnatamente di mostre, manifestazioni itineranti, feste, sagre, lotterie, fiere e mercati;
e) il commercio ambulante di cani e gatti;
f) esercitare la pratica dell’accattonaggio esibendo animali come oggetto delle richieste;
g) detenere gli animali in spazi inadeguati, in relazione a specie, razza, età e stato fisiologico, o in condizioni comunque non compatibili con il loro benessere psico-fisico;
h) lasciare stabilmente o incustoditi, senza possibilità di accedere all’abitazione, cani e gatti su terrazze e balconi privi di adeguata copertura da agenti atmosferici e protezione con ringhiere;
i) privare stabilmente gli animali della quotidiana attività motoria adeguata alla loro indole;
j) utilizzare apparecchiature chiuse per lavaggio e asciugatura di animali che non permettano all’animale di essere a contatto con il detentore;
k) vendere, esporre e commercializzare animali sottoposti a interventi chirurgici con finalità diverse da quelle sanitarie;
l) commercializzare animali in locali privi di idoneo luogo di detenzione degli stessi, anche durante l’orario di chiusura. È altresì vietata l’esposizione degli animali in vetrina o all’esterno del negozio».
Dal canto suo, l’art. 34, anche dopo la novella indicata, dispone, al comma 1:
«[f]atte salve le sanzioni previste dalla normativa nazionale, chiunque contravviene alle disposizioni previste dalla presente legge è punito con la sanzione amministrativa da euro 75 ad euro 450».
5.– Le censure che lo Stato rivolge nei confronti delle due disposizioni impugnate sono entrambe riconducibili a un denominatore comune: introducendo una serie di illeciti amministrativi variamente interferenti con la disciplina penale statale in materia di tutela degli animali e puniti con sanzione amministrativa destinata a cumularsi alla sanzione penale, la Regione Siciliana avrebbe invaso la competenza legislativa statale in materia di ordinamento penale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.; e assieme avrebbe creato le condizioni per una violazione del principio del ne bis in idem, costituzionalmente garantito dall’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU.
Le censure sono fondate, nei termini di seguito precisati, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
5.1.– Va, invero, preliminarmente rammentato – e ribadito – il costante orientamento di questa Corte, secondo cui la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma «accede alle materie sostanziali» (sentenza n. 12 del 2004) alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente «nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile (ex multis, sentenze n. 90 del 2013, n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004)» (sentenza n. 148 del 2018, punto 5.1. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 121 del 2018, punto 16.2. del Considerato in diritto).
D’altra parte, l’eventuale interferenza degli illeciti amministrativi regionali e delle relative sanzioni con i reati previsti dal legislatore statale non determina di per sé, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una violazione della competenza legislativa statale in materia di ordinamento penale. Di regola infatti, nel caso in cui uno stesso fatto sia punito tanto da una disposizione penale quanto da una disposizione amministrativa regionale, trova applicazione l’art. 9, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), a tenore del quale «quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest’ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali».
Tale disposizione fa sì che la sanzione amministrativa possa in concreto essere irrogata solo quando il fatto non integri, al tempo stesso, un reato: il che esclude che la disciplina regionale possa invadere o erodere «la sfera di operatività della norma penale, trovando applicazione soltanto in via residuale, in relazione a condotte non penalmente sanzionate» (sentenza n. 121 del 2018, punto 16.3. del Considerato in diritto, relativamente a una disposizione che sanzionava come illecito amministrativo una ipotesi di danneggiamento di segnaletica stradale, potenzialmente interferente con il delitto di danneggiamento previsto dal codice penale; nonché, nello stesso senso, sentenza n. 201 del 2021, punto 10.1. del Considerato in diritto).
5.2.– La peculiarità della disciplina regionale oggi impugnata consiste, però, nella previsione, all’art. 34, di una disposizione che sembra derogare al meccanismo di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 689 del 1981.
La clausola «[f]atte salve le sanzioni previste dalla normativa nazionale» con cui si apre il comma 1 dell’art. 34 risulta, in effetti, strettamente affine ad altre formule con le quali il legislatore statale è solito prevedere sanzioni amministrative destinate a cumularsi alle corrispondenti sanzioni penali previste per il medesimo fatto («[s]alve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato»: artt. 187-bis e 187-ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52»; «[f]erme le sanzioni penali applicabili»: art. 174-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, recante «Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio»).
Non a torto il ricorrente imputa, dunque, alla disciplina impugnata la volontà di introdurre anche rispetto alle sanzioni amministrative ivi previste un regime di “doppio binario” sanzionatorio rispetto al regime penale stabilito dalla legge dello Stato, applicabile ai medesimi fatti illeciti. Esito, questo, che sarebbe stato evitato ove la legge regionale non avesse invece dettato alcuna disposizione circa il possibile concorso tra illecito amministrativo e reato (applicandosi in tal caso la regola generale di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 689 del 1981), ovvero avesse espressamente disposto l’applicabilità della disciplina regionale con la formula «salvo che il fatto costituisca reato» o una equivalente, come quella ora introdotta dal legislatore regionale al nuovo comma 2-bis dell’art. 34 (supra, punto 2).
L’eccezione in tal modo introdotta al meccanismo della prevalenza, in ciascun caso concreto, della legge penale statale rispetto alla disciplina regionale si traduce in una deroga ad una disposizione – l’art. 9 della legge n. 689 del 1981 – che non può che essere considerata espressiva della competenza legislativa statale in materia di ordinamento penale. È proprio tale disposizione, infatti, che detta la regola fondamentale che stabilisce, in maniera uniforme per l’intero ordinamento giuridico nazionale, le condizioni di applicabilità della legge penale allorché il suo ambito si intersechi con quello coperto da leggi che prevedono illeciti amministrativi, configurati dalla stessa legge dello Stato (primo comma) o da leggi regionali (secondo comma).
E ciò a maggior ragione in un contesto ordinamentale come quello odierno, nel quale le esigenze di tutela del diritto al ne bis in idem di cui è titolare l’autore dell’illecito rischierebbero di paralizzare la stessa azione penale, nell’ipotesi in cui l’inflizione della sanzione amministrativa preceda lo stesso procedimento penale per un fatto previsto, assieme, quale illecito amministrativo dalla legge regionale e quale reato dalla legge statale.
Il vulnus alla competenza legislativa statale ora evidenziato in materia di ordinamento penale deve, pertanto, essere eliminato mediante l’ablazione, nell’art. 34, dell’inciso iniziale «[f]atte salve le sanzioni previste dalla normativa nazionale»: ablazione che determina, in via automatica, la riespansione della regola generale di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, con conseguente riconduzione della disciplina sanzionatoria regionale censurata ad uno schema di rapporto con la legge penale più volte riconosciuto costituzionalmente legittimo dalla giurisprudenza di questa Corte.
5.3.– Ristabilita così la regola della prevalenza della legge penale statale su quella amministrativa regionale, nell’ipotesi in cui entrambe convergano sul medesimo fatto storico, l’interferenza tra l’ambito applicativo degli illeciti previsti dall’art. 12, comma 5, impugnato – interferenza possibile, in particolare, con riferimento alle violazioni di cui alla lettera g) in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 727, secondo comma, cod. pen., e a quelle di cui alle lettere h), i) e j) in relazione al delitto di cui all’art. 544-ter cod. pen. – non genera di per sé risultati incompatibili con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
A fortiori si sottraggono poi a qualsiasi censura gli illeciti previsti dalle lettere b), c), d), e), f), k) e l), che concernono, all’evidenza, fatti diversi da quelli descritti dalle norme incriminatrici evocate nel ricorso statale, rispetto ai quali è quanto meno arduo ipotizzare una qualsivoglia forma di concorso tra le due categorie di illeciti.
A conclusioni diverse deve pervenirsi soltanto per la fattispecie prevista dalla lettera a), riferita all’«abbandono dei cani, dei gatti e di qualsiasi altro animale domestico o di affezione custodito». La fattispecie è nella sostanza coincidente con quella di cui all’art. 727, primo comma, cod. pen., che incrimina il fatto di chi «abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività».
La pressoché totale sovrapponibilità tra queste due fattispecie rende la disposizione regionale priva di qualsiasi ambito autonomo di applicazione, per effetto del meccanismo di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 689 del 1981. Non solo, allora, una tale disposizione risulta del tutto inutile rispetto alle finalità di tutela che il legislatore regionale si prefigge: essa rischia, altresì, di pregiudicare l’effettività della corrispondente disposizione penale, proprio per effetto del generale divieto di ne bis in idem, fondato sulla Costituzione così come sulle norme internazionali e del diritto dell’Unione europea vincolanti per il nostro Paese (da ultimo, sentenza n. 149 del 2022, punti 5.1. e seguenti del Considerato in diritto); e rischia così di frustrare – nel solo ambito regionale siciliano – le stesse finalità di politica criminale del legislatore statale, in particolare laddove le sanzioni amministrative vengano in ipotesi applicate dall’autorità amministrativa prima che possa svolgersi il processo penale.
Ne consegue l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 12, comma 5, limitatamente alla lettera a), della legge reg. Siciliana n. 15 del 2022, nel testo in vigore anteriormente alla sua soppressione a opera dell’art. 45, comma 1, lettera b), della legge reg. Siciliana n. 2 del 2023, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
6.– Una volta espunto, per effetto della presente pronuncia, l’inciso «[f]atte salve le sanzioni previste dalla normativa nazionale», la censura rivolta nei confronti dell’art. 34 in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU non è fondata, dal momento che il meccanismo di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 – destinato a riespandersi per effetto dell’ablazione dell’inciso – costituisce sufficiente garanzia contro il rischio di una duplicazione di procedimenti in relazione al medesimo fatto. Spetterà dunque all’autorità amministrativa sospendere il procedimento sanzionatorio e trasmettere gli atti al pubblico ministero ogniqualvolta un fatto, qualificabile come violazione dell’art. 12, comma 5, della legge regionale impugnata, appaia altresì integrare gli estremi di un reato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, della legge della Regione Siciliana 3 agosto 2022, n. 15 (Norme per la tutela degli animali e la prevenzione del randagismo), limitatamente alla lettera a), nel testo in vigore anteriormente alla sua soppressione a opera dell’art. 45, comma 1, lettera b), della legge della Regione Siciliana 22 febbraio 2023, n. 2 (Legge di stabilità regionale 2023-2025);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 15 del 2022, limitatamente all’inciso «Fatte salve le sanzioni previste dalla normativa nazionale,»;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2022, promossa, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Igor DI BERNARDINI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2023.