IL TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI E LA GIURISPRUDENZA
a cura di Giuseppe De Falco

Pubblicato su IndustrieAmbiente.it (si ringrazia il dott. Roberto Mastracci per averne consentito la pubblicazione)


1. Una recente sentenza della Cassazione (sezione IV, 16.7.2007 – ud. 2.7.2007 – n.28158, PM in proc. Costa) è l’occasione per fare il punto sugli orientamenti giurisprudenziali maturati circa la fattispecie delittuosa del traffico illecito di rifiuti (art.53 bis del d.lgs. n.22/97; ora art. 260 d.lgs. n.152/06) e quindi per verificare come la giurisprudenza sia sempre più propensa ad un’applicazione assai estesa della fattispecie stessa.

Va, innanzi tutto, ricordato che con l’art.22 della legge 23 marzo 2001 n.93 è stato introdotto nel d.lgs. 5.2.97 n.22 l’art.53 bis, che sotto la rubrica “attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti” contempla uno specifico e grave delitto, differenziando così tale fattispecie dalle altre ipotesi criminose contemplate nel decreto n.22/97, ed in genere nella legislazione in materia ambientale, che hanno, infatti, natura contravvenzionale. Tra l’art. 53 bis citato e l’attuale art. 260 del d.lgs. n.152/06 vi è assoluta continuità normativa, posto che la nuova norma rispecchia integralmente la precedente. La norma punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti”.

L’importanza, in concreto, della configurazione di un’ipotesi di delitto nella materia ambientale è evidente, innanzi tutto con riguardo alla previsione di una pena elevata ed alla maggiore durata del termine di prescrizione del reato; per altro verso, inoltre, è rilevante la circostanza che, a differenza delle contravvenzioni, i delitti puniti, come avviene per quello in commento, con pena elevata, consentono l’utilizzo di più incisive misure nel corso delle indagini, come le intercettazioni telefoniche ed eventualmente la custodia cautelare e dunque permettono all’autorità giudiziaria inquirente di operare quel salto di qualità nella organizzazione delle indagini che si dimostra essenziale per il conseguimento di risultati efficaci nell’accertamento di condotte illecite di vasta portata, che sono spesso frutto del disegno di organizzazioni criminali stabilmente presenti sul territorio.



2. Prima di illustrare i diversi elementi richiesti per l’integrazione del reato e quindi i principi che la giurisprudenza ha delineato a proposito di ciascun elemento, vale la pena ricordare che la recente sentenza ha riguardo alla gestione di una discarica da parte di un’azienda municipalizzata. L’imputato, soggetto in posizione apicale, aveva, secondo l’accusa, organizzato reiterate operazioni di smaltimento del percolato prodotto in discarica (in particolare, stoccandolo mediante rete di drenaggio e raccolta in apposite vasche e silos, facendolo ricircolare nella discarica mediante rilancio sui rifiuti o mediante introduzione nel pozzo della vasca in esercizio, disperdendolo con la contaminazione del sottosuolo e della falde acquifere) omettendo il conferimento del rifiuto nei siti autorizzati, come era invece previsto nell’autorizzazione; ciò al fine di ridurre i costi della gestione della discarica.

La Corte ha osservato che poiché l’autorizzazione concerneva esclusivamente la messa in riserva del percolato, l’attività di smaltimento del percolato doveva qualificarsi non già come inosservante delle prescrizioni dell’autorizzazione, ma come integralmente abusiva. Ha poi osservato che tale attività non integrava semplicemente la contravvenzione di cui all’art. 51, comma 1, del d.lgs. n.22/97 (attività di smaltimento non autorizzata) ma aveva caratteristiche fattuali tali da imporne la riconduzione alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 53 bis. Infatti, oltre alla mancanza di autorizzazione, si trattava di condotta plurisussistente e non episodica, che aveva ad oggetto ingenti quantità di rifiuti e che era posta in essere allo scopo di ridurre i costi di gestione, ed era quindi supportata dal dolo specifico di conseguire un ingiusto profitto.La sentenza assume dunque rilievo anche per rilevare che il delitto in questione non è applicabile solo ai casi di gestione illecita dei rifiuti da parte di strutture criminali, ma anche nei casi di attività organizzate poste in essere abusivamente da soggetti privati o addirittura nell’ambito di enti pubblici che nulla hanno a vedere con le organizzazioni criminali: questa è, del resto, una conclusione alla quale la giurisprudenza cui tra breve si farà cenno è ormai pervenuta in maniera stabile.



3. Le osservazioni della sentenza in commento conducono ad analizzare quelli che sono gli elementi costitutivi del delitto di che trattasi, nonché l’interpretazione che di tali elementi è stata fornita dalla giurisprudenza.

Va dunque segnalato, innanzi tutto, che il delitto in questione è ascrivibile alla categoria dei cd. “reati comuni”, che possono essere commessi da “chiunque” e non solo da coloro che possiedano particolari qualifiche soggettive, come ad esempio i “titolari di enti od imprese”, spesso menzionati nella legislazione penale ambientale. La valutazione circa l’identificazione del soggetto responsabile andrà perciò, nei congrui casi, condotta tenendo presente la necessità di individuare il soggetto, o i soggetti, cui siano concretamente riconducibili le decisioni circa l’organizzazione delle attività nei termini indicati dalla norma e circa l’esercizio delle attività stesse, nonché le scelte in proposito attuate nella finalità di conseguire un profitto non legalmente consentito.

Quanto all’elemento oggettivo nel quale si sostanzia la condotta sanzionata va osservato che la norma richiama in parte attività già specificamente disciplinate dal d.lgs. n.22/97 ed ora dal d.lgs. n.152/06 (come il trasporto, l’esportazione, l’importazione e la gestione dei rifiuti) ed in parte menziona attività più generiche (la cessione e la ricezione) che sono di solito prodromiche ad altre attività tipizzate dalla normativa di settore. In particolare, la rilevanza, ai fini dell’integrazione del delitto, anche dell’attività di intermediazione e commercio, che sia svolta in violazione della normativa speciale disciplinante la materia, è sottolineata da Cass., III, 18.12.06, n. 41310, Pecoraro, da Cass., III, 9.8.06, n. 28685, Buttone e da Cass., III, 10.11.05, n. 40827, Carretta.



Altro connotato della condotta è quello per cui la stessa deve svolgersi “abusivamente”, e cioè al di fuori di qualsiasi autorizzazione o comunque di qualsiasi provvedimento che legittimi l’attività, alla luce della normativa vigente. A questo proposito va richiamato quanto affermato da Cass., III, 10.11.05, n. 40828, PM in proc. Fradella ed altri, secondo la quale la nozione giuridica di condotta abusiva di cui all’art. 53 bis del d.lgs. n.22/97 comprende, come attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, oltre quella effettuata senza alcuna autorizzazione e quella avente ad oggetto tipologie di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui si esplicano, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dall’autorità amministrativa. Anche la sentenza in commento ha sottolineato che la mancanza del titolo abilitativo è certamente uno degli elementi essenziali della fattispecie delittuosa. Cass., III, 18.5.06, n. 17076, Toninelli afferma che sussistono i presupposti del reato di cui all’art.53 bis del d.lgs. n.22/97 allorquando, al fine di conseguire un profitto ingiusto, gli impianti di compostaggio di talune società vengano stabilmente utilizzati per accogliere abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade, rifiuti solo cartolarmente e mendacemente indicati come trattati (ossia trasformati) ma in realtà privi dei requisiti richiesti dall’autorizzazione abilitativa inerente gli impianti, al fine della ricezione dei rifiuti medesimi.



Ciò che, sotto il profilo oggettivo, ulteriormente caratterizza il delitto in questione è che la condotta deve inserirsi nel quadro di un’attività organizzata di stampo imprenditoriale, che si svolga con l’impiego di mezzi stabilmente predisposti. Inoltre la condotta stessa deve articolarsi in “più operazioni” e non quindi in un unico atto, circostanza, questa, che fa assumere al delitto la natura di reato a condotta abituale. Cass., III, 9.8.06, n. 28685, Buttone, ha osservato che il delitto previsto dall’art.53 bis del d.lgs. n.22/97 si configura allorquando un qualsiasi soggetto, al fine di conseguire un profitto ingiusto, abbia allestito una vera e propria organizzazione professionale, con cui gestire continuativamente, in modo illegale, ingenti quantitativi di rifiuti. Rileva al riguardo qualsiasi gestione dei rifiuti, anche quella che avvenga attraverso attività di intermediazione e commercio, che sia svolta in violazione della normativa speciale disciplinante la materia e che si concretizzi in più operazioni attraverso una stabile organizzazione di mezzi. Cass., III, 28.11.05, n. 42961, Ventrone sottolinea che i mezzi di trasporto impiegati per il traffico illecito di rifiuti costituiscono non già lo strumento contingentemente usato per la commissione del reato, ma lo strumento essenziale che integra gli estremi della fattispecie astratta di reato, atteso che l’art. 53 bis del d.lgs. n.22/97 punisce una serie di condotte (cessione, ricezione, trasporto, ecc. di rifiuti) che devono essere realizzate attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, concetto nel quale rientra anche l’approntamento stabile di autocarri.



Da segnalare anche Cass., III, 18.4.07, n. 15560, Andreani, che ha specifico riguardo alla fattispecie di cui all’art. 260 del d.lgs. n.152/06 e che ritiene integrato il reato dall’attività di un impianto di trattamento di rifiuti liquidi che riceve in modo sistematico ingenti quantitativi di rifiuti speciali pericolosi per cui non ha autorizzazione e che hanno un carico inquinante incompatibile con l’impianto, all’uopo impiegando fraudolentemente un codice CER diverso da quello di pertinenza, e che contestualmente viola in maniera sistematica le prescrizioni dell’autorizzazione, omettendo di effettuare i controlli imposti dal provvedimento amministrativo.



Altro elemento essenziale per l’integrazione del delitto è quello per cui l’attività abusiva deve avere ad oggetto “ingenti quantitativi di rifiuti”, dato in relazione al quale la norma non fissa soglie di punibilità, ma che va ovviamente riguardato con equilibrio, tenendo presente il quantitativo complessivo dei rifiuti e non quello oggetto delle singole operazioni.

La giurisprudenza sul punto è assai chiara: Cass., III, 18.12.06, n. 41310, Pecoraro rileva che il quantitativo ingente di rifiuti deve essere valutato con riferimento al quantitativo complessivamente gestito attraverso una pluralità di operazioni, le quali, considerate singolarmente, potrebbero anche essere qualificate come modeste.Sotto il profilo soggettivo il delitto è punibile solo a titolo di dolo e presuppone il dolo specifico, costituito dalla finalizzazione della condotta al conseguimento di un profitto ingiusto, riferibile anche a vantaggio di natura non strettamente patrimoniale che sia comunque contrario a quanto consentito dalla legge. Cass., III, 18.12.06, n. 41310, Pecoraio segnala che il profitto ingiusto non deve necessariamente assumere natura di ricavo patrimoniale, potendo integrarsi anche con la finalità di conseguire un mero risparmio dei costi dello smaltimento o con il perseguimento di vantaggi di altra natura. Nello stesso senso anche Cass., III, 9.8.06, n. 28685, Buttone, Cass., III, 10.11.05, n. 40828, PM in proc. Fradella ed altri (che osservano come sia pertinente anche il vantaggio consistente nel rilevante risparmio dei costi di produzione dell’azienda) e Cass., III, 10.11.05, n. 40827, Carretta, la quale ultima precisa che non è necessario, al fine del perfezionamento del reato, l’effettivo conseguimento di un vantaggio siffatto.

I requisiti di integrazione del reato sono comunque efficacemente delineati, in via generale, da Cass., III, 3.2.06, n. 4503, Samarati, che afferma che per la sussistenza del reato in questione la norma individua i seguenti presupposti: l’autore del reato può essere “chiunque”, senza che sia necessaria una pluralità di agenti; il dolo specifico, volto al conseguimento di un ingiusto profitto; un’attività imprenditoriale di gestione dei rifiuti, che riguardi una o più delle diverse fasi in cui si concreta ordinariamente la gestione dei rifiuti; un’attività caratterizzata da pluralità di operazioni e dalla continuità in senso temporale; il quantitativo dei rifiuti deve essere “ingente”; l’attività di gestione deve essere abusiva; l’offensività della condotta non riguarda la messa in pericolo della incolumità pubblica, ma attiene al bene giuridico dell’ambiente, pur non essendo necessaria la determinazione di un danno o di un pericolo concreto. Nella fattispecie esaminata da tale ultima sentenza si era verificata una gestione illecita di rifiuti costituiti da “terre di spazzamento stradale”, rifiuti che venivano ricevuti abitualmente con falsi codici CER in impianti di compostaggio.

La Corte sottolinea come si tratti in pratica del primo delitto ambientale previsto nel nostro ordinamento, che riproduce, con alcune modifiche, la fattispecie delineata in un progetto di legge governativo, che prevedeva l’introduzione nel codice penale dell’art. 452 quater; ciò a seguito delle indicazioni della Commissione Ecomafia presso il Ministero dell’Ambiente, che aveva ritenuto inefficaci le ipotesi contravvenzionali per contrastare fenomeni notevolmente gravi di gestione abusiva, organizzata ed altamente lucrosa di grandi quantitativi di rifiuti.

Conclusivamente va osservato che, una volta accertata la sussistenza dei requisiti di cui si è detto, sembra preferibile ritenere che il delitto assorba le contravvenzioni di cui all’art.51 del d.lgs. n.22/97 (ora art. 256 del d.lgs. n.152/06) posto che la norma in parola può essere qualificata, in ragione dei presupposti peculiari che la stessa contempla, come norma speciale rispetto a quelle che puniscono la mera realizzazione di attività riconducibili alla gestione dei rifiuti e non autorizzate. Cass., III, 18.4.07, n. 15560, Andreani sostiene, invece, che il reato di cui all’art. 260 del d.lgs. n.152/06 (già previsto dall’art. 53 bis del d.lgs. n.22/97) può concorrere con i reati che attengono alla mancanza dell’autorizzazione e alla violazione delle prescrizioni dell’autorizzazione, violazione che si configura,ad esempio, in caso di mancata effettuazione dei prescritti controlli in ingresso dei carichi, con conseguente rilascio dall’impianto di odori sgradevoli e di sostanze irritanti per l’uomo.

Appare, invece, innegabile la possibilità di concorso del delitto di cui all’art.53 bis con altri delitti eventualmente individuabili con riferimento alle concrete forme di manifestazione dell’attività illecita, come ad esempio il delitto di truffa (art.640 c.p.) o di danneggiamento (art.635 c.p.) o di estorsione (art.629 c.p.) o di associazione a delinquere (art.416 c.p.) o anche, ovviamente, lo stesso delitto di cui all’art.416 bis c.p., qualora l’attività sia da ricondurre all’operato di una associazione malavitosa di stampo mafioso.



4. Per completare l’analisi della norma va rilevato che il secondo comma della norma stessa contempla un’aggravante (reclusione da tre a otto anni) per il caso in cui l’attività abbia ad oggetto rifiuti ad alta radioattività; per il resto la tipologia dei rifiuti (pericolosi o non pericolosi) non muta la sanzione applicabile, pur essendo certamente rilevante al momento della quantificazione della pena da infliggere a seguito di accertata responsabilità.



Il terzo comma stabilisce che alla condanna per il delitto in questione conseguano le pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici (art.28 c.p.), dell’interdizione da una professione o da un’arte (art.30 c.p.), dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art.32 bis c.p.) e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art.32 ter c.p.).



A mente del quarto comma, con la sentenza di condanna o di patteggiamento il giudice deve obbligatoriamente ordinare il ripristino dello stato dell'ambiente. Tale ultima espressione, diversa e più generica rispetto a quelle, più tecniche, indicate nelle norme in tema di bonifica dei siti inquinati, sembra configurare, sotto il profilo giuridico, un’ulteriore sanzione accessoria e presuppone ovviamente, sotto il profilo pratico, che vi sia stata in concreto una compromissione ambientale. Va però osservato che tale evenienza viene a verificarsi con estrema frequenza nei casi di integrazione della fattispecie delittuosa in parola, posto che qualsiasi eliminazione dei rifiuti che venga attuata in modo non autorizzato e dunque non controllato ha, per ciò solo, una ripercussione illecita sulla situazione ambientale.



La genericità dell’espressione “ripristino dello stato dell’ambiente” consente poi di ritenere possibile qualsiasi attività che valga, di fatto, ad eliminare i mutamenti arrecati alla situazione ambientale precedente alla condotta illecita, anche se l’attività non si perfezioni secondo le complesse procedure richiamate dalla regolamentazione in tema di bonifica dei siti inquinati.

Infine l’ultima parte del comma 4 della norma dispone che il giudice possa subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena, in caso di condanna o di patteggiamento, all’eliminazione del danno o del pericolo arrecati all’ambiente dalla condotta delittuosa, qualora ciò sia concretamente possibile. E’ auspicabile un frequente utilizzo di tale facoltà da parte dell’autorità giudiziaria, dal momento che i danni che possono conseguire da condotte criminose quali quelle sanzionate dalla norma in parola sono talvolta davvero imponenti. L’irreversibilità del danno arrecato all’ambiente costituisce un concreto limite all’applicabilità della disposizione, ma allo scopo di non precludere l’impiego di un efficace strumento persuasivo per la tutela ambientale sembra opportuno ritenere che la disposizione in parola possa trovare applicazione anche quando, pur essendo impossibile l’integrale eliminazione del danno arrecato all’ambiente, sia nondimeno possibile un’attenuazione delle conseguenze dannose, ovvero un’eliminazione parziale.