UTILIZZAZIONE DIRETTA DI SCARTI E RESIDUI: vera avventura in una strada tutta curve e salite! di Silvano Di Rosa SEZ

UTILIZZAZIONE DIRETTA DI SCARTI E RESIDUI:

vera avventura in una strada tutta curve e salite! *

di Silvano Di Rosa

Consulente Legale Ambientale – esperto A.N.E.A.

Sommario:

– 1. Nozione di rifiuto e concetto di disfarsi ; – 2. Primi dubbi su una utilizzazione diretta dei residui; – 3. Importanza della terminologia; – 4. Stratagemma terminologico; – 5. Interrogativi e prime soluzioni; – 6. Semplificazione o cautela ?; – 7. Si contano i favorevoli; – 8. La "soluzione" del D.M. 5 febbraio 1998; – 9. Limiti e dubbi sulla soluzione individuata; – 10. Elementi nettamente contrari; – 11. Due mondi diversi ed un terzo pianeta; – 12. Conclusioni e rinvii.

1 – Nozione di rifiuto e concetto di disfarsi

Elemento essenziale per un corretto approccio con la gestione rifiuti

(comprensiva del relativo recupero), determinante – fra l’altro – quell’alone di

incertezza che la caratterizza, è certamente la nozione di rifiuto. Già troppi sono i giuristi che si sono cimentati nel darvi "forma, colore e consistenza" – riversando barili di inchiostro su distese di carta – senza che ancora la "competizione" abbia trovato un legittimo vincitore, tanto è l’arrovellarsi necessario a trovare il "bandolo della matassa". Tutti noi, infatti, sappiamo molto bene come, accanto ad alcuni aspetti consolidati di tale nozione (pochi), ce ne siano altri che – ancora adesso – sono oggetto di prese di posizione, a dir poco, contrastanti. Scavando a fondo nello scibile di questa complessa materia chiunque è in grado di accaparrarsi alcune "certezze", di cui si ha, sempre più, un

esasperato (benedetto o maledetto) bisogno. Fra queste ci è data la possibilità

di ricordare quella secondo cui – oggi – si deve escludere che per rifiuto possa intendersi un qualcosa che necessariamente non abbia più valore economico e che quindi non possa più essere oggetto di una riutilizzazione economica da parte di altre persone (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 28 marzo 1990 – proc. 206 – 207 - 359); così come l’altra sulla cui scorta il mero fatto che una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale, non la esclude dalla nozione di rifiuto ai sensi dell’art. 1, lettera a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE …; potendo aggiungere, in ultimo, la dichiarata non conformità all’ordinamento comunitario di qualunque disciplina nazionale che "escluda a priori" uno scarto di produzione dalla nozione di rifiuto (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, V sezione, 15 giugno 2000 – proc. C-418/97 e C-419/97) (1) .

Non v’è dubbio che i rifiuti, pur restando tali, abbiano un proprio valore economico!! Non per niente il "vecchio" concetto di rifiuto, inteso come entità abbandonata o destinata all’abbandono, è stato correttamente rimpiazzato da quello – più consono con le disposizioni dell’ordinamento comunitario – individuato (all’art. 6, comma 1, lettera a, del D.Lgs. n. 22/1997) in: «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A (del predetto decreto) e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi». A tal riguardo siamo tentati di ricordare come sia necessario che vengano soddisfatte entrambe le condizioni sopra riportate; le quali, non a caso, appaiono legate dalla congiunzione "e". Per poter parlare di rifiuto, di conseguenza, bisogna che tale materiale o sostanza rientri nelle categorie riportate nell’allegato «A» al decreto legislativo sopra richiamato e che il detentore se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene. La questione maggiormente controversa nel contesto di tale nozione si focalizza, appunto, nel dare il giusto e/o opportuno significato alla locuzione "abbia deciso di disfarsi"(2). Ma non è certo nostra intenzione – come promesso – assumere le vesti di coloro che, per l’ennesima volta, si mettano ad argomentare sulla nozione di rifiuto. Sarà sufficiente, ai nostri fini, riportarne alcune di quelle che "nuotano" nel predetto mare di inchiostro:

Rifiuto: una sostanza, un materiale o – più in generale – un bene che rientra nelle categorie di cui all’allegato «A» del D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, sempre e solo se il comportamento che il soggetto detentore (tiene o è obbligato a tenere o) intende tenere sia quello di "disfarsene"; inteso nel senso di destinarlo alle operazioni di smaltimento o di recupero indicate (a titolo puramente esemplificativo in quanto individuate così come avvengono nella pratica) negli allegati «B» e «C» al predetto decreto (da considerare come operazioni finalizzate all'eliminazione definitiva di un rifiuto o come operazioni di trattamento necessarie per ottenere da questo una materia prima seconda, una materia prima o un prodotto). Quindi, in tal senso, sono rifiuti tutti i materiali, le sostanze o gli oggetti che – anche se ancora idonei alla loro funzione originaria o comunque utilizzabili direttamente in altri cicli di produzione o di consumo senza dover essere sottoposti ad alcun trattamento – diventano rifiuti per una precisa scelta (quella di disfarsene) del detentore (Circolare Ministero dell’Ambiente n. 3402/V/Min del 28 giugno 1999).

Rifiuto: come sostanza od oggetto che non può più apportare alcuna ulteriore utilità diretta al detentore, in relazione a quella che era la sua originaria funzione(3);

Rifiuto: come cosa di cui il detentore ne dismette il possesso in quanto da lui ritenuta inutilizzabile (4);

Rifiuto: come sostanza od oggetto che viene giudicato non più idoneo a soddisfare i bisogni cui esso era originariamente destinato, pur se non ancora privo di valore economico (Corte di Cassazione Penale, Sez. Unite, 29 maggio - 27 marzo 1992, n. 5 – Zucconi Galli Fonseca, Rel. Pilla) (5);

Rifiuto: come sostanza che è ottenuta da un processo di produzione il quale non è volto, in via principale o accessoria, alla produzione di tale sostanza, secondo l’opinione del produttore e l’uso corrente (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, V sezione, 15 giugno 2000 – proc. C-418/97 e C-419/97) (6);

Rifiuto: come ogni residuo, ceduto a qualsiasi titolo – gratuito o oneroso – ai fini di un processo di recupero o di smaltimento (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, VI sezione, 25 giugno 1997 – proc. C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95) (7);

Rifiuto: come oggetto nel quale non sussiste più la vitalità degli elementi commerciali originari del bene stesso (8).

Appare evidente come, in ragione di quale sia il concetto di "disfarsi" cui si decide di aderire, ben diversa sia la sorte e la disciplina giuridica che accompagneranno la gestione di un certo materiale: «rifiuto per qualcuno e merce per qualcun altro!».

2 – Primi dubbi su una utilizzazione diretta dei residui

Da qui – se mai ce ne fosse bisogno – si ha già una chiara prospettiva di quali e quante siano le problematiche, le incertezze ed i dubbi che risultano legati alla eventuale scelta, da parte di un imprenditore, di "tentare" la strada dell’oggettivo e concreto utilizzo diretto di certi materiali residuali di produzione o consumo, senza volerli considerare come rifiuti. Apparentemente, per l’uomo della strada – il così chiamato: "non addetto ai lavori" –, tale scelta potrebbe sembrare la cosa più naturale di questo mondo(9), ma, a conti fatti, non è così! Invero, non si ha neppure certezza che la posizione favorevole assunta al riguardo dal Ministero dell’Ambiente, con la circolare n. 3402/V/Min del 28 giugno 1999, sia sufficientemente cautelativa per l’imprenditore che si venga a trovare di fronte ai Giudici; i quali, legittimamente, volgono lo sguardo e tendono l’orecchio prevalentemente verso le interpretazioni della Suprema Corte di Cassazione, dell’ordinamento comunitario, della Corte di Giustizia Europea, ecc., impedendo di avere "sonni tranquilli" a colui che si sia incamminato su tale strada: tutta curve e salite. Basti pensare, al riguardo, che neppure un atto di natura negoziale può operare la necessaria "trasformazione giuridica" in virtù della quale un rifiuto diventi merce; tant’è che – per chi è solito girovagare negli ambiti di questa materia – non costituisce novità l’affermazione secondo cui «un materiale, avente ancora una riutilizzazione economica, possa o debba comunque essere considerato rifiuto, anche se sia stato oggetto di atto giuridico di natura negoziale (vendita, permuta, donazione) di acquisto o di quotazione in listini commerciali pubblici o privati» (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, VI sezione, 25 giugno 1997 – proc. C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95) (10). Tutto questo non fa altro che convalidare quanto sia problematico "svincolarsi" dal (o meglio "non essere risucchiati" nel) campo di applicazione della normativa sui rifiuti; soprattutto quando – rovistando fra le opinioni espresse da autorevoli commentatori nella letteratura specializzata – si leggono punti di vista (sicuramente legittimi e dotati di una propria logica) secondo cui qualsiasi genere di materiale residuale di produzione o consumo non può che essere rifiuto, stante la considerazione che: «…un bene non si può qualificare come rifiuto sol perché lo si destina ad essere sottoposto ad una certa operazione di recupero o di smaltimento (senza la quale – destinazione – non lo sarebbe), in quanto il consegnarlo ad un soggetto che effettua operazioni di recupero (o di smaltimento) può – forse – considerarsi come una testimonianza (indizio) della già verificatasi formazione del rifiuto, ma non può certo avere un valore costitutivo della qualificazione di rifiuto per quel dato bene. L’origine del rifiuto è (invece) a monte di una tale consegna (o dell’intenzione di effettuare tale consegna), in quanto esso si è già formato come rifiuto (indipendentemente dalla sua futura destinazione) dal momento in cui il detentore – giudicando che tale bene non avrebbe più potuto apportargli alcuna ulteriore utilità, secondo quella che era la sua originaria funzione – lo abbia considerato non più utile, oppure non più capace di soddisfare i bisogni che esso era, originariamente, capace di soddisfare (stante la propria primitiva funzione) e sia giunto (il detentore) alla motivata conclusione di volersene disfare» (11).

Quindi – nonostante da più parti si dica (rectius: non si escluda) che i materiali residuali di produzione o consumo, ove siano riutilizzati(12) direttamente e concretamente senza bisogno di "pretrattamenti" né di rischi per l’ambiente, possono essere considerati "non rifiuti"(13) – finché sarà possibile (e, per buona sorte, in democrazia lo è !!) sostenere simili, e legittime, interpretazioni della nozione di rifiuto, l’utilizzazione diretta dei materiali di scarto sarà sempre legata, quantomeno, a qualche perplessità ed al rischio di passare notti insonni sorreggendo in mano l’amletico teschio dell’essere o non essere (rifiuto ??!!). A dimostrazione di tale legittima "titubanza" è sufficiente rilevare che nel D.M. 5 febbraio 1998, ai primi punti dell’allegato 1 – suballegato 1 –, vengono riportati come attività di recupero: il riutilizzo diretto nell’industria cartaria (punto 1.1.3), il riutilizzo diretto in cartiere (punto 1.2.3), il recupero diretto(14) nell’industria vetraria (punto 2.1.3), ecc. ecc.; senza che risulti troppo condivisibile ricondurre al termine recupero anche i casi in cui – senza alcun trattamento preventivo(15) – il materiale, residuato da una lavorazione, sia, di per sé, "pronto" ad essere (nuovamente) utilizzato in un altro processo produttivo (salvo il sottoporlo ad elementari interventi di adattamento che anche le materie prime vergini subiscono prima dell’impiego).

3 – Importanza della terminologia

Questa promiscuità di termini diversi, cui riteniamo sia ragionevole non attribuire lo stesso significato, abbinata all’ambigua polifonia del significato di taluno di questi, rende assai dura l’esistenza di colui che intenda muovere i primi passi verso il riutilizzo diretto (o meglio l’utilizzazione diretta) di cui tanto ci affanniamo a parlare. Il "non addetto ai lavori" (che poc’anzi abbiamo riconosciuto come: uomo della strada) sarebbe portato a definire(16) riciclola reintroduzione dei residui nel ciclo produttivo di provenienza» (es.: rottame di vetro reintrodotto nel forno fusorio) oppure il «riutilizzare una parte della materia di lavorazione nel ciclo produttivo», od anche il «riutilizzare il materiale di scarto all’interno del ciclo produttivo». Sostando "ai piedi" del termine riutilizzo avrebbe la voglia di pensare a: «l’utilizzazione ripetuta di uno stesso prodotto, tal quale, per il medesimo scopo» (es.: bottiglie reimbottigliate), oppure a «la nuova utilizzazione di un oggetto per usi uguali, diversi, e più spesso secondari rispetto al precedente». Il, più volte nominato, recupero dovrebbe ragionevolmente fargli pensare a: «l’introduzione dei residui in cicli produttivi diversi da (oppure nuovamente in) quelli di provenienza, previa trattamento preparatorio» (es.: scarti di plastica pirolizzati ed utilizzati in petrolchimica). L’uso del condizionale, però, diventa un obbligo imprescindibile; dal momento in cui, secondo certa autorevole dottrina(17) si può parlare – forse a ragione – di recupero anche in termini di: reimpiego e riciclaggio (art. 4 D. Lgs. 22/97); dove nel reimpiego si ricomprendono: « le operazioni in virtù delle quali si può riutilizzare un rifiuto allo stesso scopo per cui il prodotto-base era stato originariamente concepito» e per riciclaggio si intende: «la trasformazione, mediante processo, dei materiali di rifiuto in materiali da riutilizzare per gli scopi originari o altri scopi, fuorchè come combustibili o altra fonte di energia».

Ma v’è di più!! Basti pensare, o meglio osservare, come nello stesso strumento contenente le linee guida per il "recupero semplificato" (il predetto D.M.) si mischiano terminologie, il cui diverso significato semantico, viceversa, avrebbe potuto aiutare la comprensione del come, quando e se sia possibile (ri)utilizzare direttamente degli scarti "ancora buoni". Non staremo a ricordare che con uno specifico disegno di legge si è cercato – per il momento invano – di risolvere la questione; ma visti gli esiti del tentativo, questa deve considerarsi ancora del tutto aperta.

4 – Stratagemma terminologico

In tutta sincerità lo sforzo e l’afflizione conseguenti – certamente a causa di un nostro limite – allo slalom mentale cui ci siamo costretti, passando dall’uno all’altro dei vari termini sopra riportati, impone la ricerca e l’impiego di uno "strumento di salvaguardia" (utile tanto per chi scrive, quanto fors’anche per chi legge) grazie al quale – in qualche modo – poter evitare di "impaniarsi" inutilmente in contorsionismi logico-mentali riguardanti la semantica delle parole sopra riportate (attività che lasciamo, di buon grado e molto volentieri, a chi più di noi ne ha titolo, capacità e, perché no, voglia) e – non ultimo – consenta di (cercare di) portare a lieto fine l’avventura de qua.

Come tutti strumenti efficaci e duraturi riteniamo che, anche questo, debba avere il carattere della semplicità. Stiamo pensando ad uno stratagemma – una "ciambella di salvataggio"– di facile uso, che sia alla portata di chiunque per non affogare in questo mare di incertezze. Si tratta di un espediente con cui vorremmo proporre l’attraversamento (anzi la circonvallazione) delle anziviste paludi terminologiche. I termini, le parole, le nozioni, i concetti, sono di importanza basilare(18), così come lo è un loro uso appropriato e corretto. Vorremmo quindi ricorrere proprio ad un escamotage terminologico – e quindi formale – che (ci auspichiamo) possa tradursi – in termini sostanziali – in una soluzione concreta del problema: «piuttosto che ostinarsi ad impiegare il termine riutilizzo, pensiamo sia preferibile e risolutivo parlare, da questo momento, di utilizzazione diretta dei materiali residuali di produzione o consumo». Lasciandoci alle spalle quel prefisso "ri–" (che avrebbe davvero potuto complicarci la vita) continuiamo il nostro cammino (forti di tale espediente) alla ricerca delle motivazioni necessarie e sufficienti a consolidare le fondamenta di tale scelta. Il tutto cominciando a riconoscere come, molto spesso, la logica spicciola dell’uomo semplice (la ragionevolezza delluomo della strada) debba cedere il passo all’esigenza di tutela – in senso lato – della comunità intera, che il legislatore (deve tradurre e) traduce in norme, le quali però – quasi per un gioco della sorte – non sempre si presentano come del tutto ragionevoli.

5 – Interrogativi e prime soluzioni

Coscienti, rispettosi, consapevoli e (perché no!) acquiescenti verso tutto ciò, ci sia concesso, quantomeno, di avere il recondito desiderio di esternare un "piccolo sfogo": lo sfogo tipico del detentore di materiali residuali di produzione o consumo, il quale – dal momento in cui non trovi più il modo per reimpiegarli direttamente nel proprio ciclo produttivo – sia invogliato dalle condizioni di mercato (quindi non necessariamente costretto!!!) a trovar loro una "destinazione(19) diversa". Cosa dovrebbe dire costui, quando – una volta cimentatosi, anche con successo, in tale ricerca – venga a trovarsi di fronte a qualcuno (e quindi chiunque) in grado di sostenere che l’individuazione di questa "nuova destinazione" dei residui (tanto per dirlo con un unico termine!!) debba, per forza, essere qualificata come un "volersene disfare" e che tali materiali erano, sono e restano dei rifiuti ? Evitando di riportare i "cattivi pensieri" che, in tal caso, potrebbero passare per la mente del nostro imprenditore, dobbiamo rilevare e confermare come nessuno voglia escludere a priori che questi (il detentore di tali residui) "possa" benissimo volersene disfare (nel senso di "toglierseli di fra i piedi", o quant’altro…). Con altrettanta determinazione, però, abbiamo l'obbligo morale di affermare come non sia giusto scartare, in maniera preconcetta (se non con una forzatura bella e buona), l’ipotesi che il nostro detentore "possa" anche scegliere(20) di destinarli semplicemente ad una utilizzazione(21) diretta e concreta, "cedendoli", dietro opportuna e satisfattiva remunerazione, a chi li possa e voglia impiegare senza doverli assoggettare ad alcun pretrattamento "vero e proprio" (come si farebbe con qualunque altra materia prima). Ci chiediamo, soprattutto per chiederlo a chi legge, perché mai questa "cessione" debba, per forza, essere considerata sempre e comunque un volersi disfare di tali materiali; quando invece potrebbe essere più logico – a certe condizioni – considerarla una comune operazione commerciale di compravendita. Senza volersi arroccare (da ambo le parti) su posizioni rigidamente precostituite, sembrerebbe piuttosto ragionevole ricorrere ad un distinguo – che non entri necessariamente nella valutazione della sussistenza, o meno, della vitalità degli elementi "originari" commerciali del bene stesso(22) – in base al quale si dovrebbero (finalmente) poter avere due effetti diversi sull’esito della conseguente qualificazione giuridica dei materiali in oggetto.

Nel caso in cui, prima della "utilizzazione" di tali materiali, si rendano indispensabili dei "veri e propri" trattamenti preliminari di recupero – per attribuir loro le debite caratteristiche od eliminare certe pericolosità –, non c’è dubbio che si debbano necessariamente qualificare(23) come un rifiuto!

Al contrario, però, se tali materiali – di per sé e quindi fin dall’iniziopossiedono già(24) tutte le caratteristiche merceologiche, di sicurezza, di tutela ambientale, e quant’altro richiesto, per essere utilizzati direttamente così come tali, senza il bisogno di preventivi trattamenti di recupero(25) o di procedimenti tecnologici di rilievo(26) (proprio come si farebbe con una qualsiasi materia prima vergine), perché mai dovremmo continuare, ostinatamente, a considerarli e qualificarli come rifiuto ?? Quale ne sarebbe il vantaggio reale per la comunità e per l’ambiente ?? (27)

L’uomo della strada (che ci perdonerà per questo rilevante impegno cui lo sottoponiamo), nel caso in cui gli venisse negata una tale facoltà, a ragion veduta potrebbe (ad es.) chiedersi: "chi estrae del marmo, in blocchi, da una cava e poi lo cede ad altri (28) se ne è voluto disfare, oppure ha semplicemente inteso venderlo ?". In maniera del tutto analoga, lo stesso imprenditore, potrebbe chiedersi se la società che provvede (vogliamo esagerare!!) alla lavorazione del petrolio greggio debba considerare come un "disfarsi" la cessione, ad altre società, dei "preziosi" sottoprodotti (scarti della prima lavorazione) a noi tutti ben noti !! Preferiamo non fornire risposte, anche perché – in tutta evidenza – si tratta di interrogativi volutamente provocatori; optando, piuttosto, per evidenziare quella che, di fatto, sembra essere una esigenza di libertà:

« Trovandoci di fronte ad un certo materiale che "viene alla luce" come residuo di una lavorazione, nel caso in cui – di fatto e di per sé – questo possieda già tutti gli elementi tipici ed idonei (nessuno escluso) per poter essere considerato una materia prima (o un prodotto, una merce, ecc.) nei confronti di un altro ciclo produttivo, dovrebbe poter essere più che lecita e universalmente riconosciuta – al detentore dello stesso – la facoltà, e quindi la libertà, di decidere di venderlo, senza alcuno "sconto" riguardo all’assoggettamento a momenti di sorveglianza e controllo, ma anche senza l’incombente timore di vedersi scambiare tale azione (o meglio: operazione commerciale) per un presunto intento di volersene disfare».

Purtroppo, come già detto, non sempre la logica dei fatti viene sufficientemente supportata da chiare regole, così che la nostra – per quanto ragionevole – rimane solo una opinione; e mentre molti (29) commentatori del giure (Pasquale Giampietro, Paola Ficco, Maurizio Santoloci, Gianfranco Amendola, Bernardino Albertazzi, M. Pernice, S. Beltrame, ecc.) sono d’accordo sul fatto che il "prodotto" derivante dalle attività di recupero(30) è una merce a tutti gli effetti (avendo acquistato le stesse caratteristiche merceologiche e di sicurezza tipiche di qualunque analoga materia prima vergine), sono pochi, viceversa, quelli che avvalorano – a spada tratta – la sussistenza di condizioni certe per poter considerare i materiali residuali di produzione o consumo direttamente come dei "non rifiuti".

E’ sicuramente giusta l’osservazione(31) secondo cui la discussione sull’utilizzazione diretta dei predetti residui è rilevante solo in relazione ad ipotesi "eccezionali"; quindi "minoritarie" rispetto ai casi "normali", in cui la qualificazione dei residui de quibus come rifiuti (recuperabili o meno) non genera nessun tipo di problema e non solleva alcuna eccezione. Ciò nonostante, una sorta di "tutela delle posizioni minoritarie"(32) ci assale e ci spinge a sottolineare il fatto che appena si tenta di intraprendere tale cammino(33), subito si denota una "levata di scudi" – a volte eccessiva – a tutela dell’ambiente e della salute; come se il reimpiego (che noi continuiamo a chiamare: utilizzazione) di una sostanza residuale – effettuato al di fuori dell’ambito della normativa dei rifiuti – fosse sistematicamente ed irrimediabilmente un modo per arrecare danno alla comunità ed all’ambiente!! E questo genere di reazione esasperata non ce la stiamo certo inventando!! D’altronde non è un mistero che :

la Corte di Giustizia Europea tenda ad estendere il più possibile la nozione di rifiuto ritenendolo, per sua natura, una merce che necessita di cautele particolari durante la sua gestione e che può creare danni alla salute pubblica ed all’ambiente(34);

lo scopo precipuo della "direttiva rifiuti" sia quello di garantire che il trattamento dei rifiuti persegua la tutela dell’ambiente, piuttosto che il fine di istituire una libera circolazione dei rifiuti…affinché i provvedimenti di sorveglianza e controllo possano essere applicati al più ampio gruppo possibile di sostanze, prodotti e materiali residui(35).

Allo stesso modo, però, non è certamente un segreto che qualsiasi genere di estremismo (a destra, a manca, sotto, sopra, di lato, di traverso, davanti, di dietro, e chi più ne ha ne metta) sia e resti una posizione alquanto discutibile ed irragionevole. Ad esempio (riguardo al sub – b –), a nostro sommesso avviso, il voler effettuare una utilizzazione diretta dei residui di cui trattasi non implica e non persegue affatto l’istituzione di una "libera circolazione di rifiuti"(36), bensì nasce dall’esigenza di salvaguardare, e si prefigge di evitare che si ostacoli, la continuazione di una "libera circolazione di merci"; che è cosa ben diversa e non certo qualificabile aprioristicamente come anti-ambientalista !!! Dobbiamo, in seconda istanza, riconoscere e rimarcare (sempre con riguardo al sub – b – ma con valenza estensibile anche al sub – a–) come tale presa di posizione sia del tutto "legittima" e condivisibile solo e soltanto quando ci siano effettivamente dei rifiuti da "trattare" (presupposto n° 1), o quando ci siano elementi che costituiscono valido fondamento per il ragionevole dubbio di un possibile nocumento all’ambiente e/o alla comunità dei consociati (presupposto n° 2) !! Non certamente, però, in assenza di questi presupposti; tanto necessari quanto indispensabili a giustificare una tale rigidità normativa, e senza i quali la legittimità poc’anzi dichiarata – sempre a nostro avviso – si trasforma in illegittimità o, quantomeno, in un illogico "eccesso di cautela", probabile conseguenza di un vero e proprio "retaggio" che ci trasciniamo dietro – a causa della scellerata condotta di qualcuno – per ragioni, purtroppo, affatto infondate (nessuno ha nostalgia di disastri ambientali!!).

Come ulteriore dato di fatto ci preme evidenziare che nella popolazione esiste una innata diffidenza verso chi recupera (smaltisce, o comunque "maneggia") rifiuti, in quanto al "rifiuto" si abbina un’immagine negativa(37), che risulta tanto "contagiosa" da trasmettersi dal materiale trattato o detenuto al detentore dello stesso; ancor più se questi maneggia rifiuti "per mestiere". Tutto ciò è un vero assurdo e, a nostro avviso, occorre valutare bene se la forzosa tendenza a dilatare sempre più la nozione di rifiuto(38) ed a ricorrere ad "eccessi di cautela" non comporti – oltre ed insieme alla tutela ambientale – anche qualche indesiderato effetto collaterale, consistente nel non riuscire a riguadagnare mai più la fiducia della comunità verso chi, in buona fede e seriamente (oltre che attentamente controllato !!!) voglia semplicemente "sprecare il meno possibile" di quel materiale che, se trattato nelle debite maniere, non è affatto scontato vada a costituire "per forza" una minaccia per l’ambiente e la salute dell’uomo.

Proprio in ragione della predetta situazione di sfiducia non ci sembra accettabile che un "retaggio" (pur se fondato su precedenti concreti disastrosi e notori) determini l’instaurarsi di una "regola generale", causata dalla spregiudicata condotta di "pochi" ma valevole sempre e comunque "per tutti"; regola che risulta, di fatto, ingiustamente ed eccessivamente punitiva(39) per coloro che hanno le migliori intenzioni di economizzare, in termini di tempo e materiali, rispettando contemporaneamente l’ambiente ed i propri consimili. Le situazioni in cui si possa avere effettivamente una utilizzazione diretta di residui, senza effetti deleteri, potranno anche essere rare, potranno essere una minoranza, ma esistono e non sembra corretto che vengano penalizzate da "eredità negative", le quali possono – in qualche modo – essere riscattate; possono, soprattutto, essere affrontate e non ineluttabilmente "subite". Oltre a ciò si deve rilevare come il lasciar consolidare in maniera "sproporzionata"(40) questa mentalità "eccessivamente cautelativa" (in ragione del fatto che – ribadiamo – un eccesso è sempre un eccesso, sia esso positivo che negativo) si traduce, di fatto, in un ostacolo allo snellimento ed alla razionalizzazione di certi sistemi di mercato. Ove non si provveda al riguardo corriamo il rischio (parallelo e coesistente a quello di un degrado ambientale) che tali iniziative di utilizzazione diretta di residui, nonostante siano funzionali a ridurre degli sprechi (anche di tempo), rimangano – molto spesso e purtroppo – imbrigliate in pastoie che, cautelativamente, vengono imposte come "ancore di salvaguardia" per la comunità; con l’effetto – tanto indesiderato quanto concreto e visibile – di rallentare e complicare tutto, in netta antitesi con l’evidenza di trovarsi in un mondo in cui i rifiuti (rectius: gli scarti) continuano ad aumentare, ed in cui il recupero – così come il riutilizzo diretto – degli stessi è perfettamente in linea con una strategia aziendale volta alla sostenibilità(41). Viceversa l’intervento auspicato dovrebbe portarci al punto in cui l’immagine legata ai rifiuti (e, noi aggiungiamo, dei residui in genere), oggi reputata negativa, divenga elemento di competitività per le imprese che, nel pieno rispetto della legittimità, intendano cimentarsi in questa attività.

Tutto questo a condizione che siano disponibili regole chiare ed una interpretazione univoca.al riguardo.

Concludendo questa sezione, con le parole di una autorevole ed attenta commentatrice(42), ripetiamo – condividendolo pienamente – che: "Non si può combattere il malaffare facendoci credere che tutto è rifiuto. Non è vero. Il rifiuto è una risorsa messa nel posto sbagliato. Diamogli la giusta collocazione, sfrondiamo il sistema da norme farraginose (che, come tali, non servono), andiamo al confronto politico con la UE e ne guadagnerà la salute e l’ambiente di tutti (avremo sicuramente meno rifiuti)".

6 – Semplificazione o cautela ?

Che dire, poi, del contrasto normativo determinato dalla rigidità sopra esposta ? In un ordinamento che impone la «semplificazione amministrativa», persegue una "selvaggia" «sburocratizzazione», scommette sullo «sportello unico per le attività produttive», tende a risolvere preventivamente i problemi dell’imprenditore, appare veramente strano che – nella realtà economica di tutti i giorni – si imponga a quest’ultimo(43) di seguire sempre e comunque l’iter burocratico tipico della normativa vigente in materia di gestione rifiuti (formulari, registri di carico e scarico, MUD, ecc.) anche se i materiali che questi detiene hanno le caratteristiche delle materie prime. Chiunque dovrebbe sentire… odor di contraddizione; ma, forse, nella "cucina" del legislatore i "sapori contrastanti" sono quelli che impreziosiscono i piatti migliori.

A tale illogicità consegue una "scarsa tranquillità" di chi, tentando l’utilizzazione diretta, si espone alle sanzioni previste dalla "disciplina rifiuti", tanto da far apparire enorme il rischio di tale cammino e condurre l’interessato ad adeguarsi, tanto pedissequamente quanto ingiustamente, ad una logica che di logico ha poco o nulla.

L’alternativa più cautelativa che residua, da quanto finora esposto, consiste nel permanere nella situazione di chi è "sempre un passo indietro" e che, nel dubbio di incorrere in una violazione di legge e nelle relative sanzioni, preferisce affidarsi a delle lungaggini meno economiche (sia in termini di tempo che di costo), ma più tranquillizzanti, che evitano di doversi rigirare nel letto con l’amletico dubbio anzidetto.

7 – Si contano i favorevoli

Nell’attuale realtà dei fatti, purtroppo, si contano e si rivelano "di più" quelli che avversano l’utilizzazione diretta dei residui (come merci e quindi al di fuori dell’ambito di applicazione della disciplina vigente in materia di rifiuti) rispetto a quelli che la incoraggiano (o perlomeno non la escludono !!!). Fra questi ultimi, come predetto, troviamo il Ministero dell’Ambiente (del precedente Governo) che con la Circolare del 28 giugno 1999 ha statuito:

i materiali, le sostanze e gli oggetti originati da cicli produttivi o di preconsumo, dei quali il detentore non si disfi, non abbia l'obbligo o l'intenzione di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta o trasporto dei rifiuti, di gestione di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, purché abbiano le caratteristiche delle materie prime secondarie indicate dal D.M. 5 febbraio 1998 e siano direttamente destinate in «modo oggettivo» ed effettivo all'impiego in un ciclo produttivo, sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti; questo a condizione che tale destinazione trovi espressione in fatti oggettivi che richiedono, caso per caso, una ragionevole valutazione – in applicazione della generale disciplina dei rifiuti e dei principi indicati dalle sentenze della Corte di Giustizia – soprattutto di quei comportamenti del detentore che risultino incompatibili con l’effettiva destinazione di un bene alla sua funzione originaria o all'impiego diretto senza alcuna attività di recupero dei rifiuti

non sono sottoposti altresì al regime dei rifiuti i beni di consumo dei quali il detentore non si disfi, non abbia l'obbligo o l'intenzione di disfarsi, in quanto possono essere utilizzati e siano effettivamente utilizzati per la loro funzione originaria.

Il Ministero, pertanto, precisa come occorra una verifica oggettiva del fatto che i materiali residuali – per non essere considerati rifiuti e poter, in tal modo, essere riutilizzati direttamente come merce – vengano destinati direttamente ed effettivamente ad un nuovo utilizzo in un ciclo produttivo (per noi una: prima utilizzazione). Un modo per dare attuazione o agevolare una tale verifica può consistere nel tenere in debito conto i criteri (interrogativi) che, in un documento OCSE(44), vengono indicati come utili al fine di individuare ed accertare, caso per caso, l’intenzione del detentore di destinare una determinata sostanza ad un certo impiego oppure di disfarsene :

Il materiale è prodotto intenzionalmente ?;

La produzione del materiale è soggetta a controllo di qualità?;

Il materiale è conforme alle specificazioni o norme riconosciute a livello nazionale e internazionale?;

Il materiale è fabbricato per venire incontro ad una domanda di mercato?;

Il valore economico complessivo del materiale è negativo?;

E’ richiesto un trattamento ulteriore prima che il materiale possa venire utilizzato direttamente in applicazioni manifatturiere commerciali?;

Questa lavorazione è limitata a riparazioni minori?;

Il materiale è ancora idoneo ad un uso a cui sia stato originariamente destinato?;

Il materiale può essere impiegato per un altro scopo come materiale sostitutivo?;

L’uso del materiale presenta una compatibilità ambientale analoga a quella di un prodotto primario?;

Il materiale verrà effettivamente impiegato in un processo di produzione?;

Il materiale ha un uso determinato?;

L’uso del materiale in un processo di produzione causa rischi maggiori per la salute umana o per l’ambiente rispetto all’uso della materia prima corrispondente?;

Il materiale è ormai estraneo ad un ciclo commerciale normale o non ha più un’utilizzazione normale?;

Il materiale può essere utilizzato nella sua forma attuale o allo stesso modo come materia prima senza essere soggetto ad operazioni di recupero?;

Il materiale può essere utilizzato solo dopo essere stato sottoposto ad un’operazione di recupero?

In alcuni casi – seguendo passo dopo passo questi criteri di individuazione ed attuando quanto stabilito con la citata circolare ministeriale – si potrebbero sicuramente individuare dei materiali residuali di produzione o consumo da considerare direttamente come merce.

Il citato Dicastero non è la sola fonte da cui emerge una tale lettura possibilista. Fra i giuristi anche Pasquale Giampietro sottolinea come il D.M. 5 febbraio 1998 riconduca nel campo di applicazione della normativa sui rifiuti alcuni residui che, invece, essendo "riutilizzabili tal quali" (senza alcuna operazione di cui all’allegato C del D.Lgs. n. 22/97) fuoriescono dalla definizione stessa di rifiuto(45) per l’assenza del requisito essenziale costituito dal "volersene disfare"; requisito che (per tale autore, ma non per altri!!!!!) deve essere inteso nel senso di affidamento del materiale ad una operazione di gestione rifiuti (considerata come smaltimento o recupero). In sintesi, il noto commentatore sostiene che "se non viene attuata alcuna operazione tecnica tipizzata di recupero sul rifiuto e questo – ciò nonostante – può essere riutilizzato tal quale in un ciclo produttivo, si tratta di una merce, ovvero di un non rifiuto"(46); tutto ciò in quanto: «…qualora il residuo venga riutilizzato senza operazioni di recupero ex allegato C) al D. Lgs. 22/97, viene a mancare la condizione costitutiva della categoria del rifiuto e pertanto esso va qualificato giuridicamente come merce, prodotto..», ed anche: «…se vi è riutilizzo senza recupero, in senso tecnico, per l’ordinamento comunitario non si ha "rifiuto" ma "merce"»(47).

Sempre in ambito dottrinario aderisce a questo filone – in maniera meno marcata ma comunque efficace – Bernardino Albertazzi(48), il quale precisa che le tipologie dei residui considerabili "non rifiuti" dovranno però essere individuate «caso per caso» e ci ricorda come nella prima versione(49) del (l’odierno) D.M. 5 febbraio 1998 fosse stata inserita la categoria delle "materie prime equivalenti"; le quali avevano (o meglio avrebbero avuto) come dato comune quello di essere ottenute da attività di "recupero diretto" (inserimento del rifiuto in un ciclo di produzione nuovo senza sottoporlo ad alcun tipo di modificazione chimica o fisica), oppure da "operazioni non comportanti l’utilizzo di procedimenti tecnologici di rilievo" (quali la separazione, il lavaggio, la riduzione volumetrica, la frantumazione, ecc., ), tanto da non essere qualificabili come rifiuti bensì come materie prime (equivalenti).

Premettendo tutte le nostre perplessità sul vantaggio e la sensatezza di utilizzare tale binomio, condividiamo, comunque, quanto riportato da questo giurista, nel contesto del lavoro richiamato in nota (da considerarsi ampiamente esaustivo in materia), riguardo all’attività di recupero diretto. Attività che – saggiamente – viene vista come nient’altro che un’operazione di utilizzo tal quale di un residuo generato da attività di produzione o di consumo, tanto che – aggiungiamo noi – vale la pena di qualificarlo direttamente con quest’ultimo trinomio in vece del (poco felice) binomio precedentemente indicato.

Pare giusto citare, in ultimo – ma non certo per importanza !! –, Gianfranco Amendola(50) il quale, dopo aver indicato "di regola" i residui derivanti da processo di produzione come rifiuti, "non esclude" – in via residuale – come sia corretto poter ritenere che non vi sia alcuna produzione di "rifiuti" (di cui, poi, ci si debba disfare) qualora venga previsto – senza alcuna operazione di trasformazione – un loro diretto utilizzo nello "stesso"(51) ciclo di produzione; in quanto ciò implica l’assenza di rischi di inquinamento esterno. Non possiamo non evidenziare come lo stesso autore esemplifichi tale fattispecie "residuale" ricorrendo al caso del Governo olandese – nel procedimento sfociato nella sentenza 25 giugno 1997 – secondo cui "sfugge alla nozione di rifiuto solo quel residuo ceduto direttamente, senza alcun pretrattamento, dal produttore alla persona che deve riutilizzarlo, a condizione che vi sia totale riutilizzo in un processo di produzione non qualificabile né come processo di recupero né come processo di smaltimento; portando come esempio: i gusci d’uovo macinati, riutilizzati tal quali come fertilizzanti". Queste considerazioni non possono che trovarci del tutto e perfettamente concordi, sia sulla ragionevolezza che sull’effetto benefico che, a tutti i livelli, ne scaturisce !!

8 – La "soluzione" del D.M. 5 febbraio 1998

E’ espressione di una nostra autonoma riflessione l’affermazione secondo cui sia lo stesso D.M. 5 febbraio 1998 a dimostrare (ovviamente in maniera implicita!!!) che certi residui, a determinate condizioni, non sono affatto rifiuti. Chiunque, d’altronde, può constatare – in tutta evidenza – come, in detto regolamento, venga esplicitamente previsto che le attività, i procedimenti ed i metodi (di riciclaggio e di recupero) di cui al proprio art. 3 debbano essere tali da "garantire" l’ottenimento di prodotti, materie prime, o materie prime secondarie(52), con "caratteristiche merceologiche conformi alla normativa tecnica di settore, o comunque, nelle forme usualmente commercializzate", e "senza che presentino caratteristiche di pericolo superiori a quelle dei prodotti e delle materie ottenute dalla lavorazione di materie prime vergini". Questi materiali, ottenuti dai procedimenti di recupero, sono quindi divenuti, in tal modo e per tali ragioni, dei "non rifiuti"(53); tanto da potersi considerare merce a tutti gli effetti. Ribadiamo che possono considerarsi merce in quanto sono stati sottoposti ad una operazione tecnica tipizzata di recupero(54) che ha conferito loro certe caratteristiche e garanzie, che prima (come scarti tal quali) non avevano !! E’ evidente che "a far la differenza" sono le acquisite caratteristiche merceologiche conformi… e anche le citate (chiamiamole) garanzie di sicurezza per l’ambiente e la salute; non certo il fatto che siano stati sottoposti a pretrattamenti, in quanto non ha pregio tale "sottoposizione" di per sé, bensì ciò che, tramite questa, si ottiene.

Ora vorremmo far notare che, se è corretto considerare come "non rifiuti" i prodotti che si originano dalle operazioni di recupero di rifiuti, sol perché hanno acquisito (e devono giustamente avere) caratteristiche merceologiche conformi alla normativa tecnica di settore, o comunque, si presentano nelle forme usualmente commercializzate, per quale recondita ragione o intrigo arcano non si potrebbe dire altrettanto di quei residui che (derivando ovviamente da un ciclo produttivo o da quant’altro…) si trovino già – tal quali e quindi senza bisogno di alcun trattamento di recupero – nelle condizioni di avere caratteristiche merceologiche equivalenti a quelle delle materie prime vergini ed offrano oltretutto le stesse garanzia di sicurezza e tutela ambientale ?

A nostro avviso non esiste alcuna motivata ragione – né tecnica, né giuridica – per continuare a sostenere che tali residui – direttamente utilizzabili, senza ulteriori operazioni di trattamento/recupero – debbano considerarsi dei rifiuti; in quanto è semplicemente incoerente che, a parità di caratteristiche merceologiche e di sicurezza, due tipologie di materiali – praticamente identiche – siano destinate a seguire due sorti distinte e ad essere assoggettate a due normative così diverse: una la legge del mercato, l’altra la legge sulla gestione rifiuti!!!

9 – Limiti e dubbi sulla soluzione individuata

A questo punto le condizioni per "dar seguito" alle predette conclusioni, all’apparenza, ci sono tutte (o quasi)!! Dottrina autorevole (per quanto non maggioritaria) ed indicazioni ministeriali contenute in una Circolare che, oltretutto, è già passata – con esito favorevole – al vaglio della Magistratura. Tutto ciò, in realtà, non è a ogni buon conto sufficiente ! Soffermiamoci un attimo, per rendersene conto, su due occasioni in cui "il Giudice italiano" non ha considerato come rifiuti degli scarti di lavorazione (1° caso– Sentenza del Tribunale di Verbania del 19 luglio 2000; 2° caso – Ordinanza di archiviazione del Giudice per la Indagini Preliminari del Tribunale di Perugia nel procedimento n. 4518/97 R.G., notizia di reato n. 14389/97 R.GIP) per vedere da vicino che cosa è realmente successo (prima, durante e dopo). Nel primo caso(55) il Tribunale ha riconosciuto il rottame di ottone derivante dalla tornitura di barre – quindi truciolo di ottone destinato e trasportato fin presso una fonderia per essere direttamente fuso per la formazione di nuove barre metalliche – come "non rifiuto" e quindi come "merce"(56). Nel secondo caso(57) il G.I.P. del Tribunale di Perugia ha disposto – per mancanza di chiarezza normativa in materia – l’archiviazione del procedimento avviatosi a carico di alcune industrie dolciarie che avevano conferito direttamente ad allevatori di bovini degli scarti alimentari (scarti di cioccolata, rottami di pasta alimentare, scarti di prodotti da forno, prodotti vicini alla scadenza…ecc.) considerandoli come "prodotti" per l’alimentazione del bestiame e non come "rifiuti"(58)

Tralasciando qualsiasi valutazione dell’esito di questo secondo caso (certamente non ideale come archetipo legittimo di utilizzazione diretta dei materiali di cui trattasi !!), potremmo avere l’impressione epidermica di trovarci di fronte ad un vero e proprio imprimatur della Magistratura; ma ciò rispecchia solo quanto è visibile su di una delle due facce della "medaglia" che stiamo esaminando. Guardando l’altra, occorre rilevare – per quanto riguarda il caso di Verbania – come lo stesso autore(59), che ha commentato la menzionata sentenza, condividendola nella sostanza, tragga le proprie conclusioni coniugandole al condizionale e sostenendo che la Circolare, ripresa dal Giudice di primo grado, "dovrebbe" portare – in combinato disposto con gli allegati al D.M. 5 febbraio 1998 – ad escludere tali materiali(60) dalla disciplina dei rifiuti; giungendo perfino ad esprimersi con un significativo: "…sempre che (la circolare) sia ritenuta coerente con il sistema legale che è volta ad interpretare…".

Sbirciando ancora nel "rovescio" della medaglia osserviamo che – per il secondo caso – l’autore(61) del commento a tale decisione del GIP di Perugia vi si rivolge, addirittura, in toni sostanzialmente rigorosi(62), elencando una serie di elementi (che indeboliscono fortemente, colpo dopo colpo, qualsiasi nostra eventuale certezza) e ricordando come:

· la Commissione Europea abbia:

a suo tempo avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per aver escluso gli scarti alimentari dalla normativa sui rifiuti (con dovuto ripensamento e rettifica italiana del D. Lgs. n. 22/97);

ricordato (rispondendo ad un quesito dell’Avv. Roberta Bianchi del Foro di Parma) come: «il fatto che un oggetto o una sostanza ricada nell’ambito di applicazione della direttiva 96/25/CE sulla circolazione dei mangimi (in cui certi scarti alimentari vengono considerati come materia prima per mangimi), non significa che la stessa sostanza o materiale non possa contemporaneamente ricadere nell’ambito di applicazione della direttiva 75/442/CEE sui rifiuti, qualora si verifichino le condizioni di cui all’art. 1 di tale direttiva… omissis…»

ribadito (nel contesto di cui alla lettera b) che il compito di dare una interpretazione autentica al diritto comunitario è prerogativa della Corte di Giustizia Europea;

adottato – in data 28 marzo 2001–(63)la decisione di inviare all’Italia un parere motivato in materia di scarti alimentari, con l’obbligo per il nostro Stato di conformarsi entro 60 giorni, pena la sanzione dell’inadempienza da parte della Corte di Giustizia Europea.

· la Corte di Giustizia Europea (V sezione, 15 giugno 2000 – proc. C-418/97 e C-419/970) abbia confermato:

che il termine "disfarsi" debba essere interpretato tenendo conto delle finalità proprie della direttiva 75/442/CEE, la quale mira ad un elevato livello di tutela ambientale ed è fondata, in particolare, sui principi della precauzione e dell’azione preventiva;

che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in modo restrittivo, perché la "direttiva rifiuti" prevede che ogni regolamento in materia di smaltimento rifiuti deve essenzialmente mirare alla protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti;

la non conformità di qualunque disciplina nazionale che "escluda a priori" uno scarto di produzione dalla nozione di rifiuto;

che anche nei casi in cui, con norme "severissime" si volesse escludere una sostanza dalla classificazione di rifiuto (perché, ad esempio, non subisce alcuna fase di trattamento) ciò non potrà impedire di ricondurre, successivamente, tale sostanza nell’ambito dei rifiuti qualora questa, di fatto, ne abbia tutte le caratteristiche;

l’identificazione – sulla base di indizi probatori – del potere di valutazione del giudice nazionale, da esercitare, caso per caso, sulla base di principi di diritto sostanziale, fissati dalle prescrizioni comunitarie

Quale (triste) conferma di queste ultime indicazioni (demolitorie di qualsiasi certezza) possiamo ricordare(64) che, dopo il rituale "parere motivato", la lettera di messa in mora inviata all’Italia l’11 aprile 2001, la Commissione UE – a fronte dell’assenza di risposte al riguardo – ha ufficialmente avviato, in data 26 luglio 2001, la procedura d’infrazione (prevista dall’articolo 228 del Trattato) che porterà l’Italia(65) davanti alla Corte di giustizia europea per non aver rispettato le disposizioni della direttiva-quadro sui rifiuti: la 75/442/CEE. In particolare i riflettori vengono puntati proprio sul D.M. 5.02.1998, il quale viene definito come "troppo vago", privo della necessaria precisione per quanto concerne le "quantità" di rifiuti al di sotto delle quali sia possibile ricorrere alle procedure semplificate, carente in termini di "chiara individuazione" dei tipi di rifiuti sottoponibili a tali procedure derogatorie, errato nel definire tra le "attività di recupero" alcune operazioni che non potrebbero essere considerate tali a pieno titolo (il che escluderebbe le sostanze derivanti da queste operazioni dal regime dei rifiuti).

Traendo le prime conclusioni da quanto finora detto è naturale che si riscontri una decisa carenza di entusiasmo nei riguardi dei succitati episodi di attuazione della circolare ministeriale di cui trattasi; d’altronde quest’ultima – così come la soluzione da noi prospettata – si fonda anche sul D.M. 5 febbraio 1998: decreto "messo sotto accusa" a livello europeo e quindi, al momento, piuttosto vacillante.

10 – Elementi nettamente contrari

Su tale scorta è evidente – dal momento che anche le posizioni favorevoli di certi "Giudici di primo grado" non sono esenti da critiche e risultano soggette ad interpretazioni diverse – che il problema, cui si trova di fronte chi voglia affrontare una utilizzazione diretta degli scarti, è veramente notevole; tanto da svogliare qualsiasi imprenditore. Se anche avessimo l’intenzione (ma così non è) di "vendere certezze", convinceremmo pochi "clienti", considerato quanto sia evidente il profilarsi di uno scenario talmente complesso da rendere arduo il compito di propagandista. La conseguenza logica è che tutto quanto sopra teorizzato, obiettivamente, non riesce a fornire – allo stato attuale della normativa vigente – delle garanzie "assolute" e, quindi, non è del tutto sufficiente ad invogliare alcuno ad intraprendere il cammino della utilizzazione diretta dei residui de quibus. D’altronde, accanto alle ragionevoli argomentazioni sopra addotte "in favore", non possiamo negare un’altra evidenza, altrettanto rilevante, costituita da elementi che si traducono in delle vere e proprie "fonti di dubbi":

la stessa normativa italiana: che, di fatto, non riconosce alcuno spazio giuridico al distinto fenomeno della utilizzazione diretta di un residuo – pur se senza operazioni di pretrattamento – in un processo produttivo; che, anzi, arriva – in alcuni casi – a qualificare (lo vogliamo ribadire tanto ci sembra assurdo!!!) il riutilizzo diretto come attività di recupero (ricordiamo ancora una volta, a titolo di esempio, il punto 1.1.3 lettera a – carta – del sub-allegato 1 dell’allegato 1 al D.M. 5.02.1998, ed i successivi punti 1.2.3; 4.2.3); per giungere, poi, a parlare di recupero diretto (a nostro avviso: vera e propria contraddizione di termini) nei punti 2.1.3, 2.2.3, 2.4.3 (vetro); 3.1.3 (metalli ferrosi), 3.2.3 (metalli non ferrosi e loro leghe, quale l’ottone) ecc. dello stesso D.M., senza escluderne altri;

l’interpretazione di diverse direttive comunitarie (come già visto);

la Corte di giustizia europea: che ha ribadito come «la nozione di rifiuto non deve intendersi nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, e che il mero fatto che una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale, non la esclude dalla nozione di rifiuto ai sensi dell’art. 1, lettera a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE …così come oggi vigente» (66)

le opinioni contrarie di alcuni commentatori sopra già visti, ecc.

il parere motivato e la procedura d’infrazione in atto a livello europeo;

l’ulteriore elemento di incertezza apportato dal Ddl "Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive" (AS374) (67), con cui, fra l’altro, dovrebbe essere modificata la definizione di produttore di rifiuti.

Viceversa è scontato ed appurato come non ci sia nessuno che neghi la qualificazione di merce o prodotto al materiale derivante dall’attività tipizzata di recupero rifiuti! Soprattutto quando si origina da un recupero completo. Per questa diversa realtà ci sono (e potremmo vendere) "certezze"!!! Il problema, purtroppo, rimane nelle situazioni dislocate "a monte": è prima del recupero che appare alquanto complesso avere la certezza di poter