“FREGATURE” PUBBLICHE (A SE’ STESSO), NELLA GESTIONE DI UNA DISCARICA: RINVIO.
di Alberto PIEROBON
(pubblicato in Gazzetta Enti Locali, Maggioli, 20/02/2012)
Per una ricostruzione della definizione e del concetto di discarica di rifiuti urbani, nonché della normativa applicabile per la gestione (che comprende anche la costruzione) si rinvia ad un nostro precedente scritto1.
Qui ci limitiamo (rinviando per i dettagli e la ricostruzione giuridica, anche relativamente alla normativa d’appalto, ad un lavoro in via di pubblicazione) ad affermare come, perlopiù, ovvero, in via generale (e generica), nella gestione di una discarica di rifiuti urbani, i servizi sono prevalenti rispetto ai lavori donde la qualificazione dell’appalto misto e relativa applicazione di disciplina.
Peraltro va ribadito come la gestione di una discarica è da considerarsi un tutt’uno, inscindibile nei suoi aspetti (servizi e lavori), stante la evidente interdipendenza spaziale, temporale, logistica,organizzativa, eccetera.
Il tutto obiettivamente è funzionalizzato alla realizzazione di un sistema integrato di smaltimento (ove non si ricorra ad altre scelte – talvolta espedienti - quali la riqualificazione ambientale, laddove si realizzi la creazione di nuovi volumi disponibili, con la tecnica del landfill mining)2.
Qui però si assiste, invero non raramente, a comportamenti alquanto censurabili da parte di soggetti gestori (anche pubblici al 100%, ovvero società totalitare).
Essi gestori, soprattutto quando abbiano avuto in affidamento (dall’ATO, dai Comuni, etc.) la gestione del sistema integrato, con il modello dello in house3, spessissimo ricorrono al subappalto di molte fasi e/o parti della gestione della discarica (per esempio quelle riguardanti l’analisi rifiuti, lo smaltimento del percolato, la sorveglianza, eccetera) e pure di altri servizi (ma qui ci limitiamo alle questioni riguardanti la discarica).
Altrettanto spesso il medesimo gestore si limita a svolgere un ruolo di “regia” e di controllo che però non “pareggia”, richiedendo un surplus ai costi effettivamente da lui sostenuti, in effetti i costi reclamati ai Comuni o agli utenti, ovvero derivantegli dagli introiti della tariffa di smaltimento, sembrano essere sempre superiori (mai pari).
Sarebbe interessante (e si rinvia, nuovamente, allo scritto in pubblicazione) denudare (se non denunciare) la inconsistenza dell’in house che viene meno di sostanza, essendo solo un “trucco” per portare a casa una gestione (con una interessantissima leva finanziaria) che viene perlopiù esternalizzata a terzi, però applicando, ci si consenta, la “cresta” di almeno un 10% ai costi (oltre ai propri costi di struttura del gestore).
Quando non si applica il predetto surplus, si gonfiano proporzionalmente i costi della struttura, confidando nelle asimmetrie conoscitive dei Comuni ( e altri controllori) che poco riescono a capire di gestione e dei suoi costi e ricavi (soprattutto se torturati in senso contabile e fiscale).
Inoltre, ove si guardi in senso professionale (e indipendente) ai costi e ai ricavi della discarica gestita da un soggetto pubblico, cioè se si guarda al p.e.f. spesso si trova conferma di questa che si potrebbe chiamare una truffa.
Si gioca molto sulla densità del rifiuto, sui volumi, sul tonnellaggio, sugli ammortamenti (non sul valore di vita e di utilizzo del bene dopo l’ammortamento che si cerca di consumare prima possibile per lucrare, appunto, sulle utilità dei beni o sulle sopravvenienze o altro ancora) sulla spalmatura dei costi nel periodo temporale che si usa come una fisarmonica grazie alle scelte sulla densità del rifiuto conferito.
Su questi aspetti quello che sconcerta è che gli autorizzatori quando hanno di fronte soggetti pubblici per motivi inconfessabili (che però i dipendenti conoscono bene) danno tutto per “il migliore dei mondi possibili”……
Ne consegue, per effetto di queste tattiche, una tariffa più alta di quello che fisiologicamente dovrebbe essere, ne consegue altresì uno spostamento in avanti della gestione con ulteriori proventi traibili da varianti, dalla diversa compattazione, dall’assestamento, o, addirittura da vere e proprie, per così dire, “sorprese” (in realtà calcolate ex ante) di maggiori volumi e, quindi, di maggiore capacità ricettiva della discarica e così via.
Sappiamo tutti che esistono molte variabili che determinano la gestione di una discarica e la durata del piano economico-finanziario, ma qui - per chi ha esperienza – le sorprese non sono mai finite.
Talvolta la gestione quando viene frammentata viene convertita e spacciata quale ricadente sotto la disciplina dei lavori pubblici, anziché dei servizi.
In questo, le scelte della stazione appaltante vengono sorrette (ma non giustificate) da relazioni e progetti ingegneristici redatte dal soggetto gestore (dai suoi tecnici).
In questo modo, i medesimi dipendenti - responsabili del procedimento, incaricati della redazione progettuale, del piano di sicurezza, della direzione lavori e del collaudo, nonché collaboratori – reclamano il riconoscimento dell’incentivo per la progettazione interna (ex art.92, comma 5 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n.163).
Ma questo incentivo va riconosciuto solo per le opere pubbliche (i lavori), non per i servizi ( è l’art.128 del D.Lgs. 163/2006 che indica questo presupposto e così l’art.92, comma 5 del medesimo Codice dei contratti pubblici), previa regolamentazione assunta da parte dell’ente (dopo l’avvenuta contrattazione decentrata) che ne stabilisce le modalità e i criteri.
Peraltro, l’incentivo va graduato in funzione dell’entità dell’opera della complessità e delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, mentre le prestazioni affidate a personale esterno all’organico dell’ente determinano economie di bilancio4.
Si dovrebbe, come avviene per i contratti misti, applicare il criterio di prevalenza-accessorietà5 o, al massimo, scorporando la parte prestazionale da quella dei lavori6, poiché le prestazioni in parola, ove non riguardino i lavori pubblici7, rientrano nella attività lavorativa ordinaria e ricompresa nei compiti e doveri di ufficio (art. 53 D.Lgs. 65/2001)8.
Tralasciamo, infine, altre questioni connesse al vantaggio di procedere agli affidamenti con la disciplina lavori pubblici, anziché dei servizi.
Com’è noto, questa ultima disciplina ha una soglia più bassa per effettuare le procedure c.d. negoziate, diversamente dai lavori pubblici dove si prevedono soglie più alte (cfr. artt. 63-67 e artt. 122-124 del D.Lgs. n.163/2096 ss.mm.ii.), inoltre, il regime di pubblicità, delle qualificazioni, dei requisiti e capacità sono diversi o diversamente articolabili.
Anche qui lasciamo al paziente lettore di trarre, da solo, le proprie conclusioni: queste scelte (che avvengono da parte di persone che masticano la materia degli appalti e dei servizi pubblici) sono dettate (invero censurabilmente) dalla solo bramosia degli emolumenti incentivanti, o, (il che sarebbe ben più grave e illecito) per altro ancora? Inoltre, perché se il Comune (o chi per esso) affida ad un soggetto l’in house deve poi vedersi aumentare i costi che un privato applicherebbe per il medesimo servizio (normalizzati tutti i dati relativi alla gestione necessaria, che però dovrebbe essere più economica e razionalizzata da parte del gestore rispetto al Comune)? Insomma, cominciamo a ragionare al di là delle etichette e delle consorterie. Possiamo ancora permetterci di guardare alle cose per come sono e cercare di riportarle a ragionevolezza, nel solo interesse pubblico?
Certo che, alla fine, quelli che subiscono queste alchimie sono sempre i Comuni (cittadini-utenti) e i consumatori.
8 Si veda il parere della Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, 18 ottobre 2011, n.213 ove si afferma che l’art.90 del D.Lgs. 163/2006 sia alla rubrica che al comma 1 fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici (cfr. anche l’art.92, comma 1) donde l’ascrivibilità dell’incentivazione ai soli lavori pubblici (il caso riguardava la redazione di un atto di regolazione in materia di aree naturali protette da interesse locale di cui all’art.19, lett.”b” della L.R. 11 aprile 1995, n.49).