Le modifiche in materia di reati connessi alle illegalità nel settore dei rifiuti servono veramente a tutelare l’ambiente?

di Vincenzo PAONE

1. Con il pomposo titolo “Disposizioni urgenti per il contrasto alle attività illecite in materia di rifiuti, per la bonifica dell'area denominata Terra dei fuochi, nonché in materia di assistenza alla popolazione colpita da eventi calamitosi”, il Governo ha emanato il decreto legge n. 116/2025 entrato in vigore il 9 agosto e attualmente all’esame del Senato per la conversione in legge.

Lo scopo del provvedimento è potenziare il contrasto alle attività illecite in materia di rifiuti dopo la sentenza dello scorso 30 gennaio ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo che si è pronunciata sul grave inquinamento ambientale della cd. “Terra dei fuochi” segnalando i ritardi e le carenze dello Stato in relazione al citato fenomeno.

Con queste note non abbiamo la finalità di analizzare in modo organico il decreto [1], ma soltanto evidenziarne le più eclatanti criticità.

Cominciamo dal richiamo alla evocata sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo: invero, questa decisione potrebbe giustificare l’allarmante situazione di emergenza [2] delle zone campane cui si riferiva la sentenza, ma la nuova normativa si applica in tutto il territorio nazionale e nutriamo non pochi dubbi circa il fatto che lo stesso grave stato di inquinamento, che sta alla base del ricorso all’estremo rimedio del decreto legge, sia presente in tutta Italia. Non vi era perciò l’ineludibile, necessità di stravolgere un apparato repressivo che, con tutti i suoi limiti, ha comunque dato buona prova di sé.

Infatti, l’aver trasformato in fattispecie delittuose di natura dolosa [3] buona parte degli illeciti in tema di rifiuti costruiti, fin dal 1982, come classiche contravvenzioni, solo in minima parte potrà costituire un rafforzamento della repressione penale nel settore di cui trattasi. E’ sufficiente scorrere un qualsiasi repertorio di giurisprudenza per avvedersi che le fattispecie solitamente affrontate nelle aule di Tribunale sono, ad esempio, il trasporto e l’abbandono di rifiuti, l’attuazione di depositi incontrollati, la realizzazione di discariche di non grandi dimensioni, la violazione delle prescrizioni autorizzative. Insomma, una gamma di infrazioni, il più delle volte di natura colposa, caratterizzate dalla lesione minimale del bene giuridico [4] , per il cui perseguimento gli strumenti messi a disposizione dal nuovo decreto – come la possibilità di procedere all’intercettazione delle conversazioni; di effettuare l’arresto in flagranza differito; di applicare severe misure cautelari; di compiere operazioni di polizia giudiziaria sotto copertura [5] – appaiono del tutto incongrui e sproporzionati perché prevedibilmente destinati ad essere utilizzati in pochissimi casi. A questo riguardo, va infatti tenuto conto che per i fatti più gravi, ancorchè puniti in forma contravvenzionale, in passato un ottimo strumento processuale per interrompere l’attività criminosa in atto era il sequestro preventivo; inoltre, si deve ricordare che, accanto alle blande contravvenzioni, era applicabile sia il delitto di inquinamento ambientale o di disastro, sia la straordinaria ed efficace fattispecie incriminatrice costituita dal delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 452 quaterdecies, cod.pen.). Ne deriva che non era affatto necessario introdurre nuove norme incriminatrici, con la comminatoria di pesanti sanzioni, e più incisivi mezzi processuali e investigativi bastando l’armamentario già presente nel nostro ordinamento per contrastare efficacemente la gestione illegale dei rifiuti. Caso mai, occorreva intervenire in altra direzione, predisponendo cioè adeguate risorse finanziarie per potenziare i sistemi di controllo e rendere più efficiente l’intervento giudiziario.

Quest’ultimo profilo ci offre il destro per mettere in risalto il rischio di una gravissima perdita di efficacia dell’intervento giudiziario nel reprimere l’illegalità ambientale quale conseguenza della nuova normativa.

Infatti, con il passaggio della configurazione dei reati come delitti (dolosi o colposi, ora non rileva), vi sarà un inevitabile aumento dei carichi giudiziari [6] con l’ingolfamento (definitivo) delle Corti di Appello, già oggi spesso operanti in condizioni tali da non poter garantire lo svolgimento del secondo grado del processo con i tempi compatibili con la prescrizione del reato.

E’ vero che tali termini sono aumentati stante la qualificazione degli illeciti come delitti anziché come contravvenzioni, ma è anche vero che, mentre in passato l’impugnazione davanti al giudice d’appello era prevista dal codice di procedura penale solo in alcuni, residuali, casi (v., ad esempio, il reato di discarica abusiva [7] ), un domani il secondo grado di giudizio sarà la regola e si può anche ragionevolmente immaginare che la difesa degli imputati non rinuncerà certo a questo mezzo di impugnazione, se non altro per sperare di arrivare, prima o poi, alla prescrizione del reato quale effetto prevedibile dell’aumentato congestionamento degli uffici.

In secondo luogo, va posta la massima attenzione sul venir meno di collaudati strumenti deflattivi fin qui sperimentati e valevoli soltanto per le contravvenzioni: l’oblazione comune e speciale prevista dagli artt. 162 e 162 bis cod. pen. e il meccanismo premiale previsto dagli artt. 318 bis ss. D.Lgs. n. 152/2006.

A questo proposito, ci pare opportuno aprire una parentesi. L’impossibilità di utilizzare lo strumento dell’eliminazione del reato commesso (o delle sue conseguenze ancora persistenti) mediante l’adempimento di una specifica prescrizione [8] , cui segue, a favore del contravventore, la possibilità di estinguere il reato mediante il pagamento di una sanzione in forma ridotta, provocherà un sicuro affaticamento dei Tribunali costretti a trattare anche fattispecie di modesta gravità - la maggioranza delle infrazioni giudicate – che prima potevano vedere un felice sbocco attraverso il citato meccanismo. Il senso di questo drastico mutamento di rotta è del tutto incomprensibile.

Il disagio aumenta se si pensa che l’istituto in oggetto avrebbe invece avuto bisogno di alcune correzioni, prima fra tutte un definitivo chiarimento del legislatore sulla classe di contravvenzioni suscettibili di accedere alla procedura estintiva: alludiamo al fatto che nel D.Lgs. n. 152/2006 non è specificato se il meccanismo si applichi anche ai reati puniti con pena congiunta (o addirittura con la sola pena dell’arresto) sicchè, come si registra in pratica [9] , le Procure della Repubblica sono divise tra quelle per cui vale l’interpretazione più estesa e quelle contrarie. L’incertezza e la disparità di trattamento derivanti dalla esposta situazione dovevano dunque indurre il legislatore ad intervenire sul punto, anziché creare nuovi problemi in materia.

Tornando ora al nostro tema principale, il decreto legge esclude anche la possibilità di beneficiare della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis cod. pen.). Per vero, questo istituto non è esente da perplessità che derivano però non dal suo assetto formale (giacchè la legge è sufficientemente chiara nello stabilire quando la causa di non punibilità si applichi [10] ), ma dall’idea, che si è fatta strada nella prassi, che tende a considerare tenue non tanto il fatto concreto, ma il reato nella sua astrattezza tipologica. Desta perciò un certo stupore che il decreto in commento abbia sbarrato questa strada per illeciti che, ancorchè classificati dal 9 agosto come delitti, hanno comunque connotati per i quali, con la giusta ponderazione, la causa di non punibilità poteva essere applicata, con i conseguenziali effetti deflattivi.

II. In questo desolante quadro generale, è utile soffermarsi su alcune specifiche criticità delle nuove disposizioni.

Senza dubbio, un posto d’onore, in questa breve rassegna, spetta alla predisposizione di una maggiore (e sproporzionata) severità sanzionatoria quando dalle condotte “base” in tema di abbandono, gestione di rifiuti e realizzazione di discarica derivi pericolo per la vita o l’incolumità delle persone ovvero pericolo di compromissione o deterioramento: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna; oppure quando il fatto sia commesso in siti contaminati o potenzialmente contaminati ai sensi dell’art. 240 D.Lgs. n. 152/2006 o comunque sulle strade di accesso ai predetti siti e relative pertinenze.

A parte ogni altra considerazione, la razionalità del sistema penale in tema di inquinamenti vacilla drasticamente.

Come è stato già osservato [11] , “il pericolo di compromissione o deterioramento: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna” costituisce elemento costitutivo del delitto di pericolo di inquinamento (art. 452- quinquies, co. 2 c.p.), reato a forma libera, rispetto al quale il delitto in esame parrebbe porsi come figura speciale, con condotta a forma vincolata. Se così fosse, nel caso di pericolo di inquinamento conseguente ad abbandono o deposito di rifiuti si applicherebbe il solo art. 255- bis d.lgs. n. 152/2006, con pena (da sei mesi a cinque anni) più elevata sia nel minimo che soprattutto nel massimo rispetto a quella prevista dal delitto di pericolo di inquinamento ambientale (pena da due a sei anni, ridotta da un terzo a due terzi e quindi di un ulteriore terzo ai sensi dell’art. 452- quinquies, co. 1 e 2 c.p., pari cioè a 5 mesi e 10 giorni di reclusione nel minimo, e 2 anni e 8 mesi nel massimo). Se la volontà era di punire di più il risultato è raggiunto, ma a prezzo di una complessiva irrazionalità del sistema sanzionatorio rispetto agli stessi eventi di pericolo causati da altre fonti di inquinamento (ad es. scarichi idrici o emissioni in atmosfera)”.

In realtà, le innovazioni di cui al decreto legge creano solo confusione e aumentano le torsioni sul piano della tassatività e determinatezza delle fattispecie criminose.

Ad esempio, la locuzione “se dal fatto deriva pericolo per la vita o l’incolumità delle persone …” va intesa nel senso di richiamare il tradizionale concetto di “incolumità pubblica”, oppure è sufficiente il pericolo di morte o di lesioni anche solo di alcune persone?

In secondo luogo, mentre l’art. 452 bis c.p. richiede che la compromissione o il deterioramento del bene ambientale siano “significativi e misurabili”, nel nuovo reato di pericolo mancano queste aggettivazioni e il rischio è l’evanescenza della fattispecie.

In terzo luogo, non è del tutto chiara la ragione per cui dovrebbe essere più grave abbandonare rifiuti non pericolosi in un sito già contaminato rispetto ad abbandonarli in un sito “normale”.

Passiamo ora all’art. 259-bis, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “Il titolare dell'impresa o il responsabile dell'attività comunque organizzata [12] è responsabile anche sotto l'autonomo profilo dell'omessa vigilanza sull'operato degli autori materiali del delitto comunque riconducibili all'impresa o all'attività stessa”.

La stessa disposizione già integrava il comma 3 dell’art. 256 bis D.Lgs. n. 152/2006 (Combustione illecita di rifiuti) e aveva dato adito a non pochi dubbi interpretativi. Ora i problemi sono aumentati.

Infatti, ci chiediamo se la norma si applichi solo alle ipotesi di cui agli artt. 256, 256- bis e 259, richiamati nel comma 1 dello stesso art. 259-bis, o anche alla fattispecie concernente l’abbandono dei rifiuti [13] che ha trovato collocazione in varie disposizioni a seconda che si tratti di rifiuti non pericolosi oppure pericolosi o che autore del fatto sia un privato cittadino oppure un titolare di impresa o un responsabile di ente (in conformità con il previgente regime che giust’appunto distingueva la qualificazione dell’illecito in funzione della qualifica del suo autore).

Il quesito non è peregrino perché in molti casi - sfociati in giudizio - l’illecito abbandono dei rifiuti, commesso nell’ambito di un’impresa, era il frutto di una classica culpa in vigilando. In futuro, questo profilo sarà ancora invocabile per punire l’imprenditore, che non abbia materialmente commesso il fatto, oppure sarà precluso se si dovesse opinare che il precetto sopra riportato non sia estensibile al reato di abbandono di rifiuti?

Un altro problema, forse ancora più serio, è legato al fatto che la norma in esame non richiama testualmente l’art. 259 ter D.Lgs. n. 152/2006 che incrimina i fatti di cui agli artt. 255-bis, 255-ter, 256 e 259 commessi per colpa: se fosse così, si potrebbe ritenere che il titolare dell'impresa o il responsabile dell'attività comunque organizzata, responsabile sotto l'autonomo profilo dell'omessa vigilanza sull'operato degli autori materiali del delitto, sia punibile solo se abbia agito con dolo e non con colpa, il chè è un bel passo indietro rispetto al sistema previgente.

Inoltre, lo stesso art. 259 bis, comma 1, stabilisce che le pene rispettivamente previste dagli artt. 256, 256- bis e 259 sono aumentate se i fatti sono commessi nell'ambito dell'attività di un'impresa o comunque di un'attività organizzata. Orbene, a parte la previsione dell’art. 256 bis e 259 – in cui manca una specifica soggettivizzazione dell’autore dell’illecito - l’art. 256, comma 1 (gestione abusiva dei rifiuti), pur esordendo con il richiamo al generico “chiunque”, vede come suo effettivo destinatario solo chi esercita in forma di impresa, di fatto o di diritto, un’attività tra quelle per cui è prescritta l’autorizzazione, l’iscrizione o la comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 D.Lgs. n. 152/2006: poiché nessuna di queste disposizioni riguarda il privato cittadino, se ne ricava che il soggetto attivo del reato non può che essere il titolare di impresa. Una riprova è fornita dalla tesi, affermatasi da circa un decennio nella giurisprudenza, che il reato di cui trattasi vada escluso quando risulti la natura «assolutamente occasionale» del fatto: tale situazione non ricorre quando, in base a indici sintomatici, quali ad esempio l’eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita, deposito, si ricava che il singolo episodio rientri nell’ambito di un’attività svolta con modalità, anche se rudimentali, ma organizzate e continuative.

Ciò precisato, ne deriva che applicare l’aggravante in questione al reato di cui al comma 1 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006 si traduce nella sostanziale violazione del bis in idem perché viene punita due volte la stessa circostanza (la qualifica soggettiva dell’autore del fatto). L’aggravante potrà invece essere contestata in relazione alle ipotesi dell’art. 256 che puniscono la realizzazione o gestione di una discarica non autorizzata di rifiuti perché queste si rivolgono al quisque de populo.

Un altro esempio di modifica normativa che non brilla per razionalità è quello del comma 4 dell’art. 256 secondo cui le pene di cui ai commi 1, 1-bis, 3 e 3-bis, sono ridotte della metà nelle ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni. Nella versione originaria, si trattava di fattispecie contravvenzionali in cui l’inosservanza del titolo abilitativo era per lo più “formale”. D’ora in poi, anche questa specifica violazione impegnerà non poco gli uffici giudiziari perché anche per fatti molto spesso di gravità sostanziale del tutto irrisoria, è configurato un delitto.

Avviandoci alla conclusione, ricordiamo che, in questo momento, è in corso l’esame del decreto-legge per la sua conversione e non possiamo che augurarci la radicale revisione del provvedimento con almeno due obbiettivi prioritari: in primo luogo, ripristinare le originarie contravvenzioni, eventualmente aumentando i massimi della pena (anche in ossequio all’art. 5 della Direttiva UE 2024/1203); in secondo luogo, eliminare le ipotesi di aggravamento dei reati “base” in casi particolari.



[1] Rinviamo, all’uopo, ai primi, efficaci, interventi in materia: Ruga Riva, Il c.d. decreto terra dei fuochi sui rifiuti: tra Greta, Dracone e Tafazzi , in Sist. pen., 9/2025, 5 ss.; Compostella, La riforma dei reati ambientali introdotta – a sorpresa – dal d.l. 8 agosto 2025, n. 116. Note di (primissima) lettura ed aspetti controversi , in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 9; Della Sala, Il d.l. 116/2025 sul riordino dei reati ambientali: un primo commento , in RGAonline, N. 67 Agosto-Settembre 2025.

[2] Situazione che tuttavia si trascina da lunghissimo tempo sicchè è lecito anche chiedersi se sussistano i requisiti di necessità ed urgenza tipici dello strumento normativo adottato.

[3] E’ vero che è prevista anche la forma colposa, ma questo dato non elimina il senso di quanto da noi sostenuto. Infatti, è fuorviante ritenere che sanzionare un illecito come delitto, anziché come contravvenzione, sia di per sé un valore positivo.

[4] Non per nulla le contravvenzioni che hanno dominato la scena finora sono reati di pericolo presunto o astratto.

[5] Per chiarezza, precisiamo che, in linea puramente astratta, non contestiamo la bontà delle nuove misure.

[6] Altrochè perseguire obbiettivi di riduzione del carico giudiziario, come si riprometteva la riforma Cartabia emanata proprio per “l'efficienza del processo penale”!

[7] In generale, ai sensi del comma 3 dell’art. 593 cod. proc. pen. sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.

[8] L’adempimento della prescrizione, non dimentichiamolo, assicura anche una effettiva, sia pure tardiva, tutela dell’ambiente.

[9] V. Linee guida SNPA per l'applicazione della procedura di estinzione delle contravvenzioni ambientali, ex parte VI- bis d.lgs.152/2006, aggiornamento 2021, https://www.snpambiente.it/wp-content/uploads/2016/12.

[10] Tra l’altro, l’istituto si è arricchito di un nuovo parametro, e cioè la condotta riparativa successiva al reato, rendendo così possibile la sua applicazione in un numero maggiore di casi.

[11] V. Ruga Riva, Il c.d. decreto terra dei fuochi,cit., 12.

[12] Forse sarebbe stato meglio utilizzare la locuzione “responsabili di enti” per coerenza con altre disposizioni.

[13] Non si dimentichi che in tutte le norme, la cui rubrica è “abbandono di rifiuti”, continua ad essere incriminato anche colui che deposita – in modo incontrollato: ndr - rifiuti ovvero li immette nelle acque superficiali o sotterranee.