CHI TRASPORTA SALTUARIAMENTE RIFIUTI PROPRI DEVE ESSERE ISCRITTO ALL’ALBO ?
a cura di Gianfranco Amendola
a cura di Gianfranco Amendola
pubblicato su Ambiente e sicurezza sul lavoro 2009, n. 12 (si ringraziano Autore ed Editore)
Già da tempo[1] la dottrina ha invocato, purtoppo senza successo, un chiarimento legislativo per rispondere al quesito riassunto nel titolo.
Nel frattempo, tuttavia, la giustizia deve fare il suo corso, e, quindi, occorre capire se, salvo che arrivi il chiarimento richiesto, non sia possibile risolvere il problema in via interpretativa.
Ma andiamo con ordine e riassumiamo ancora una volta i termini attuali della questione, rinviando ad altre opere per un quadro storico più esauriente [2].
Sintesi storica
1) L’obbligo di iscrizione all’Albo per le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti è di diretta derivazione comunitaria, in quanto previsto dall’ art. 12 della direttiva 91/156/CEE per <<gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) >>[3].
2) Trasponendo questo articolo, il legislatore italiano operava, ad iniziare dal decreto Ronchi (D. Lgs 22/97), una serie di integrazioni e modificazioni con cui, in sostanza, esonerava dall’obbligo di iscrizione all’Albo le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi ovvero quelli pericolosi non eccedenti la quantità di 30 kg. al giorno o di 30 litri al giorno, purchè si trattasse di rifiuti da esse stesse prodotti. Insomma, il trasporto di rifiuti propri non pericolosi non era comunque soggetto all’obbligo di iscrizione e si prescindeva del tutto dal requisito della professionalità imposto dalla direttiva.
3) Il contrasto con la direttiva era, quindi, così marcato che doveva intervenire la Corte europea di giustizia la quale, con sentenza della terza sezione 9 giugno 2005, concludeva che:
<<la Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza dell’art. 30, comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, che ha trasposto le direttive 91/156/CEE, relativa ai rifiuti, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e 94/62/CE, sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, come modificato dall\'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998, n. 426:
– di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare senza obbligo di essere iscritte all’Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti, e
– di trasportare i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano i 30 chilogrammi e i 30 litri al giorno, senza obbligo di essere iscritte al medesimo Albo,
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 12 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE.>>.
Censurando l’Italia, quindi, la Corte europea ribadiva che nessuna deroga era ammissibile e che anche il trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti in proprio deve essere soggetto all’obbligo di iscrizione all’Albo se effettuato a titolo professionale.
4) Costretto ad intervenire, il legislatore italiano reagiva “all’italiana”, introducendo nell’art. 212, comma 8, D. Lgs 152/2006 (cd. TUA. testo unico ambientale) un obbligo meramente simbolico di iscrizione (l’iscrizione si otteneva automaticamente con la semplice domanda ed il versamento di 50 euro l’anno) per <<le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare nonché le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano trenta chilogrammi al giorno o trenta litri al giorno>>. Comunque, questo obbligo (simbolico) – è bene rilevarlo- non riguardava i trasporti di rifiuti propri non effettuati come attività ordinaria e regolare (e cioè come “attività professionale”). Al pari della direttiva che, come si è visto, impone l’obbligo di iscrizione solo per i trasporti di rifiuti (propri o di terzi) a titolo professionale.
5) Il pasticcio si verificava con il decreto correttivo n. 4/2008, quando il legislatore italiano stravolgeva nuovamente la materia riformulando il comma 5 dell’art. 212 nel senso che oggi l’obbligo di iscrizione riguarda le <<attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, ….., >>; eliminando, cioè, la limitazione ai soli rifiuti “prodotti da terzi” per la raccolta ed il trasporto di rifiuti non pericolosi. E poi, nel comma 8, stabiliva che le disposizioni relative all’obbligo di iscrizione di cui al comma 5 (con i commi 6 e 7) <<non si applicano ai produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, né ai produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto di trenta chilogrammi o trenta litri al giorno dei propri rifiuti pericolosi, a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell’organizzazione dell’impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti>>. Queste imprese << sono iscritte in un’apposita sezione dell’Albo>> sulla base di un’autocertificazione e del solito versamento di 50 euro l’anno.
Osservazioni
A questo punto, non c’è dubbio che i produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti come attività ordinaria e regolare sono soggetti solo a questo obbligo (si fa per dire) di iscrizione semplificata di cui al comma 8 e non a quello “normale” di cui al comma 5 (6 e 7).
Ma quale obbligo si configura se si tratta di operazioni saltuarie ed occasionali di trasporto di rifiuti propri ? In tal caso, infatti, non potendosi applicare la deroga dell’articolo 8, a livello puramente letterale sembra debba applicarsi la regola generale, e cioè il comma 5, che ora, come abbiamo visto prevede obbligo di iscrizione “normale”, e senza alcun richiamo al requisito della professionalità, per tutte le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti non pericolosi (senza più distinguere fra rifiuti prodotti in proprio o da terzi).
Si giunge così a sancire esattamente il contrario, in sostanza, di quanto stabilisce la direttiva che impone l’obbligo (ovviamente “normale”) solo e proprio per le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti a titolo professionale, e cioè come attività ordinaria e regolare. Con l’aberrante risultato, sottolineato opportunamente dalla dottrina, che “la fattispecie meno grave è disciplinata dalla legge in modo sensibilmente più severo dell’ipotesi più grave”[4].
Ed è per questo che sin dal 2008 avevamo sollecitato un intervento correttivo del legislatore italiano, pur adombrando la possibilità di giungere ad una conclusione più ragionevole ed armonica rispetto alla direttiva, in via interpretativa.
Purtroppo, tale intervento del legislatore non è neppure all’orizzonte[5] e, sempre purtroppo, la Suprema Corte, nell’unico caso in cui si è occupata di tale problematica, non si è minimamente posta la questione della ragionevolezza della norma e dei suoi rapporti con la normativa comunitaria, limitandosi a richiamare la formulazione letterale dell’art. 212[6] senza alcun approfondimento.
Conclusioni
A questo punto, a nostro sommesso avviso, restano due possibilità.
La prima è quella di rimettere la questione alla Corte costituzionale per evidente irragionevolezza della normativa anche con riferimento alla normativa comunitaria.
La seconda è quella di continuare nella direzione già da noi indicata nel 2008 e verificare se non sia possibile giungere oggi, in via interpretativa, ad una conclusione diversa da quella che, a prima vista, traspare a livello letterale.
C’è, infatti, qualcosa da osservare proprio a proposito della formulazione della norma: l’art. 212, se pure nel testo attuale ha eliminato, nel comma 5, la locuzione “prodotti da terzi” con riferimento all’obbligo di iscrizione previsto per il trasporto di rifiuti non pericolosi, tuttavia, nel comma 8 ha espressamente escluso l’applicabilità del comma 5 (e cioè della disciplina ordinaria) delineando, in sostanza, un regime speciale per i rifiuti propri, che risultano soggetti ad obbligo “particolare” di iscrizione solo se si agisce a titolo professionale. Se, quindi, al di là della formulazione letterale, si ritiene che il legislatore con il comma 8 abbia voluto differenziare nettamente il regime del trasporto di tutti i rifiuti prodotti in proprio, da quello ordinario di cui al comma 5, consegue che, alla pari di quanto stabilisce la direttiva comunitaria, l’obbligo di iscrizione per il trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti in proprio riguarda solo i casi in cui ciò avvenga a titolo professionale. Ovviamente, al trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi continuerebbe ad applicarsi il comma 5.
Con evidente parallelismo, del resto, l’art. 193, comma 4, D. Lgs 152/06, pur dopo le correzioni del 2008, esclude dall’obbligo di formulario il trasporto di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri. E, quindi, adottando l’interpretazione letterale, si arriverebbe al paradosso che per lo stesso trasporto occasionale di rifiuti propri una impresa deve essere iscritta all’Albo in via ordinaria (neppure semplificata) ma non deve avere il formulario di trasporto.
Peraltro, sotto il profilo sostanziale, si deve considerare che la legge italiana prevede, come pena accessoria, la confisca obbligatoria dei mezzi in caso di trasporto senza iscrizione, sanzione che appare adeguata se riferita a chi esercita per professione il trasporto di rifiuti prodotti da terzi ma che appare certamente eccessiva nel caso di un trasporto di (propri) rifiuti non pericolosi prodotti da una piccola impresa in un contesto del tutto occasionale.
Insomma, a nostro sommesso avviso, vi sono elementi concordi per ritenere che l’attuale formulazione letterale della norma sia frutto, come tanto spesso accade, della fretta del legislatore del 2008, il quale ha semplicemente omesso di rileggere l’art. 212 nella sua intierezza dopo le modifiche concordate convulsamente in sede ministeriale mentre la legislatura volgeva rapidamente verso un epilogo anticipato. E vi sono, quindi, fondati motivi per rimediare a questa assurda situazione e rientrare nell’alveo comunitario sostenendo, come peraltro già recentemente adombrato da autorevole dottrina[7], che, di fronte ai tanti elementi di dubbio e di irrazionalità, occorre privilegiare la conclusione più ragionevole e conforme al dettato comunitario (da cui deriva la normativa italiana). E concludere che, nonostante la ambigua formulazione letterale, per i trasporti di rifiuti propri non pericolosi, eseguiti occasionalmente ed isolatamente non vi sia alcun obbligo di iscrizione all’Albo
[1] Cfr. il nostro Gestori ambientali, ecco un vademecum per iscriversi all’Albo, in Ambiente e sicurezza sul lavoro 2008, n. 5, pag. 90 e segg.
[2] Per approfondimenti, da ultimo, ci permettiamo rinviare al nostro L’iscrizione all’albo nazionale gestori ambientali dopo il decreto correttivo, in Foro it. 2009, 2, c. 976 e segg.
[3] Anche la direttiva ultima 2008/98/CE prevede all’art. 26 obbligo di registrazione per gli enti e imprese che provvedono alla raccolta ed al trasporto di rifiuti a titolo professionale ovvero per i commercianti e gli intermediari
[4] PAONE, Il regime autorizzatorio del trasporto di rifiuti propri non pericolosi, in Ambiente e sviluppo 2009, n. 6, pag. 513
[5] Anzi, come se non bastasse, recentemente il nostro legislatore ha ancor più ingarbugliato questo pasticcio, aggiungendo, con l’art. 4-quinquies, primo comma, del decreto-legge 3 novembre 2008, n. 171, recante misure urgenti per il rilancio competitivo del settore agroalimentare, convertito con legge 30 dicembre 2008 n. 205,all’art. 212, comma 8 del TUA, un periodo per sancire che non e\' comunque richiesta l\'iscrizione all\'Albo per il trasporto dei propri rifiutiderivanti da attività agricole e agro-industriali, ”purche\' lo stesso trasporto sia esclusivamente finalizzato al conferimento al gestore del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani con il quale sia stata stipulata una convenzione”.
[6] Cass. pen., sez. 3, 25 novembre 2008, n. 9465, riportata in calce all’articolo di PAONE, citato nella nota che precede, il quale ne ha accuratamente evidenziato i limiti e le incongruenze.
[7] PAONE, op. loc. cit.