TAR Lombardia (BS) Sez. II n. 400 del 22 marzo 2017
Rifiuti. Fanghi e limi di lavaggio degli inerti di cava

Limi e fanghi trattati con flocculanti contenenti poliacrilamide, possono essere qualificati come sottoprodotti e non anche come rifiuti, ogni volta che, rispettate le altre condizioni previste dall’art. 184 bis più volte citato, essi siano stati trattati con poliacrilamide contenente un residuo di acrilamide inferiore allo 0,1 % e, quindi, possano, per ciò stesso, garantire un residuo, nel prodotto trattato, inferiore a tale limite. L’opposta conclusione condurrebbe all’irrazionale risultato che l’utilizzo del poliacrilamide, normalmente ammesso anche per la depurazione dell’acqua, determinerebbe la classificazione del limo come rifiuto anziché come sottoprodotto.


Pubblicato il 22/03/2017

N. 00400/2017 REG.PROV.COLL.

N. 00758/2016 REG.RIC.



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 758 del 2016, proposto da:
Cava Suriana Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'avvocato Alberto Nevola, domiciliato in Brescia, ex art. 25 cpa, presso la Segreteria del T.A.R., via Carlo Zima, 3;

contro

Provincia di Bergamo, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Vavassori e Katia Nava, domiciliata in Brescia, ex art. 25 cpa, presso la Segreteria del T.A.R., via Carlo Zima, 3;

nei confronti di

Regione Lombardia, non costituita in giudizio;
Comune di Bagnatica, non costituito in giudizio;
Snf Italia Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Ughetta Bini, Roberto Invernizzi e Irene Soffiati, con domicilio eletto in Brescia presso lo studio della prima, via Ferramola, 14;

e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Snf S.a.s., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Ughetta Bini, Roberto Invernizzi e Irene Soffiati, con domicilio eletto in Brescia presso lo studio della prima, via Ferramola, 14;

per l'annullamento

- della Determinazione n. 771 del 20/04/2016, assunta dal Dirigente del Settore Pianificazione Territoriale, Attività estrattive, difesa del suolo e paesaggio della Provincia di Bergamo, notificata a Cava Suriana in data 27/04/2016, e recante ad oggetto: "Ditta Cava Suriana S.r.l. —Autorizzazione all'esercizio dell'attività estrattiva di sabbia e ghiaia nell'ambito territoriale ATEg16, in Comune di Bagnatica, località Cascina Suriana", nella parte in cui prescrive che dovrà essere ricercato il monomero acrilamide, con finalità di escluderne la presenza;

- di ogni altro atto ad essa presupposto, conseguente e connesso, quale, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, la nota informativa prot. n. 23188 dell'1/04/2016, recante ad oggetto "Impiego nel recupero ambientale di limi/fanghi di lavaggio inerti di cava ottenuti mediante utilizzo di sostanze flocculanti contenenti poliacrilamide", ancorché come precisato dalla stessa Provincia, in data 6/6/2016, con nota prot. 37975, la stessa non abbia carattere prescrittivo.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Bergamo e della Snf Italia Srl;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 marzo 2017 la dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Nell'ambito della sua attività, la ricorrente, società operante nel settore estrattivo e della commercializzazione dei materiali inerti, ha sempre utilizzato, per il lavaggio degli inerti scavati dalla propria cava in Bagnatica, un flocculante contenente poliacrilamide, ottenendo, al termine del processo di sedimentazione degli aggregati fini, un materiale inerte molto fine denominato "limo", in parte commercializzato come prodotto e, in parte, utilizzato per le operazioni di recupero ambientale, in virtù degli atti autorizzativi conseguiti negli anni, che non hanno mai vietato questo tipo di impiego.

Forte di tale esperienza, ultradecennale, la ricorrente, dopo l’approvazione, nel 2008, del nuovo Piano cave provinciale, ha presentato un progetto di gestione produttiva dell'ATEg16 di Bagnatica, che prevedeva la possibilità di utilizzare il limo per l'attività di recupero ambientale della cava, così come quella di poter vendere, come prodotto, la quota parte di limo non utilizzata direttamente in cava.

Tale progetto è stato approvato il 19 luglio 2011, con la determinazione n. 2035, in cui si legge "l'attività estrattiva di cava di cui al presente provvedimento non produce rifiuti di estrazione e pertanto non è necessaria l'elaborazione del Piano di Gestione dei Rifiuti ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. n. 117 del 30/05/2008". Con particolare riferimento al limo, l’autorizzazione dava atto della possibilità della sua qualificazione come sottoprodotto ai sensi dell’art. 184 bis del d. lgs. 152/2016, ricorrendo le condizioni previste da tale disposizione.

Nel corso del procedimento preordinato ad ottenere l’autorizzazione ad avviare la prima fase dell’attività estrattiva (durato oltre quattro anni, a causa delle vicissitudini giudiziarie del Piano provinciale), modificato il limite della cava previsto dal Piano in esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, la Provincia mutava il proprio precedente orientamento, imponendo che i limi prodotti dagli impianti di cava fossero gestiti come rifiuti da estrazione, ai sensi del D.Lgs. 117/2008, e non più come sottoprodotti, come era invece stato sino a quel momento.

In concreto, tale previsione ha onerato la ricorrente di predisporre un piano di gestione dei rifiuti di estrazione, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. 117/2008 e ha pregiudicato la possibilità, per la stessa, di commercializzare il limo, che, sino a quel momento, trovava molteplici impieghi, come prodotto, nel campo dell'ingegneria civile e dell'edilizia.

Le relative prescrizioni, contenute nel provvedimento autorizzatorio, fondate sul presupposto che in assenza di un valore limite per 1'acrilamide sarebbe impossibile qualificare come sottoprodotti i limi prodotti con l'utilizzo di flocculante, non essendo possibile garantire il rispetto del requisito di cui alla lettera d) dell'art. 184-bis comma 1 del D.Lgs. 152/2006, sarebbero, però, secondo quanto ritenuto dalla ricorrente, illegittime e, quindi, sono state impugnate con il ricorso in esame, nel quale sono stati dedotti i seguenti vizi:

1. Violazione degli artt. 97 e 117 Cost., 1 e 3 della L. 241/1990, dell’art. 114 e 288 T.F.U.E., del Regolamento 1272/2008/CE, delle direttive 2009/98/CE e 2015/1535/UE, dei Regolamenti 1907/2006/CE e 366/2011/UE (direttamente applicabili), dell’art. 184 bis D.Lgs. 152/2006; difetto di istruttoria e carenza di motivazione. Il provvedimento sarebbe illegittimo perché fondato sull’erroneo presupposto che non sussista un limite normativo all’utilizzo di sostanze contenenti l’acrilamide, mentre tale limite sarebbe normativamente posto dalla disciplina europea rappresentata dal Regolamento REACH (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e non sarebbe superato “né dalla sostanza poliacrilamide in sé, né gioco forza dal prodotto-miscela di SNF contenente la citata sostanza.”. Limite, peraltro, del tutto conforme anche a quello ricavabile da una corretta lettura del Regolamento 1272/2008/CE sulla classificazione, etichettatura e imballaggio delle sostanze e miscele pericolose.

Ne conseguirebbe che il provvedimento impugnato sarebbe lesivo anche dei principi europei di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci. Inoltre, il comportamento della Provincia sarebbe contraddittorio, in quanto, nonostante la dichiarata non precettività della nota dell’1 aprile 2016 e la comunicazione relativa al supplemento di istruttoria sulla questione, alla ricorrente è stato imposto di considerare i limi come rifiuti. Ciò, nonostante la stessa difesa erariale, nel giudizio proposto avanti al TAR Lazio, sub RG 9769/12 da IMGA s.r.l. avrebbe precisato che: “i residui della lavorazione di materiali lapidei contenenti flocculanti con poliacrilamide non possono essere considerati "materiali da scavo" ai fini previsti dal regolamento, qualora la percentuale di monomero residuo non reagito e contenuto nel prodotto finito sia tecnicamente significativa e superiore al limite di tolleranza dello 0,1%.”;

2. Carenza di istruttoria e motivazione; violazione degli artt. 1 e 3 della L. 241/1990, non essendo stato dimostrato che il mutamento dell’orientamento, successivamente al 2011, sarebbe giustificato da un imminente pericolo per l’ambiente e l’uomo per l’uso di prodotti come la poliacrilamide. L’Amministrazione non avrebbe in alcun modo dato conto delle ragioni per cui ha pretermesso i risultati delle analisi fornite da cava Suriana, le quali hanno sempre dimostrato una concentrazione di acrilamide nei propri fanghi inferiore a 0,01 mg/kg sul secco e quindi ben al di sotto dei limiti previsti dal Regolamento Reach, pari a 1000 mg/kg sul secco (addirittura di gran lunga inferiori a quelli prescritti nel settore alimentare).

La SNF Italia, società che commercializza il flocculante a base di poliacrilamide utilizzato per il trattamento dei fanghi e dei limi, dapprima si è costituita in giudizio, sostenendo la fondatezza di quanto dedotto nel ricorso e poi ha notificato anche un ricorso ad adiuvandum.

Si è costituita in giudizio anche la SNF France, produttrice del polimero, che ha depositato delle note illustrative che evidenziano come esista una normativa europea armonizzata, che la Provincia avrebbe dovuto applicare correttamente.

Entrambe le società hanno quindi avvallato le tesi poste a base del ricorso e ribadite dalla società Cava Suriana nella memoria depositata in vista della camera di consiglio fissata per la trattazione dell’incidente cautelare.

La Provincia, invece, dopo aver rappresentato che oltre alla Cava e alla società SNF Italia, anche il Comune di Bagnatica ha proposto ricorso (R.G. n. 797/2016) contro la Provincia di Bergamo e nei confronti di Cava Suriana S.r.l., ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse a ricorrere. La Cava Suriana, infatti, non avrebbe alcun interesse concreto ed attuale a caducare l’atto autorizzativo, ampliativo della sua sfera giuridica, che le ha permesso la coltivazione della cava, così provocando il fermo dell’attività produttiva.

Nel merito il ricorso sarebbe infondato. In particolare, la Provincia sostiene che nessuna contraddittorietà sarebbe ravvisabile nell’aver ritenuto non applicabili alla fattispecie di cui è controversia i regolamenti comunitari invocati, pur obbligatori nelle loro disposizioni, in quanto riguradanti solo i “prodotti” e non anche i “rifiuti”.

Ha, quindi, richiamato la sentenza del TAR Lazio n. 6187/2014, del 10/06/2014, con cui si è affermata la necessità “che al fine del conseguimento della possibilità di utilizzare il materiale da scavo come ‘sottoprodotto’, sia assicurato che gli elementi ed i composti contenuti nei materiali predetti proveniente da siti sottoposti a bonifica o a ripristino ambientale rispettino i valori-limite stabiliti dalle C.S.C., sì da non divenire pregiudizievoli per la salute umana e l’ambiente.”.

Infine, nessuna carenza di istruttoria o contraddittorietà nel comportamento tenuto dalla Provincia, sarebbero ravvisabili nel procedimento, atteso che, contrariamente a quanto sostenuto nella seconda censura, la Provincia non avrebbe mai, in nessuna delle autorizzazioni concesse nel tempo, qualificato i limi come sottoprodotti, ma, semmai come rifiuti non pericolosi impiegabili nel recupero ambientale.

In vista della pubblica udienza, la Provincia, dopo aver, in violazione al principio di sinteticità degli atti, integralmente riportato le prime tredici pagine della propria precedente memoria, contenenti la ricostruzione della situazione di fatto che ha condotto alla proposizione del ricorso in esame e di quelli ad esso collegati, ancorchè non connessi in senso tecnico, ha rappresentato di aver provveduto a dare esecuzione all’ordinanza n. 540/2016, riaprendo il procedimento per la corretta qualificazione dei limi: a tal fine ha interpellato i competenti organismi tecnici e amministrativi nazionali (Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con PEC prot. n. 57820 del 05/09/2016) e comunitari (richiesta di parere all’Agenzia Europea dell’Ambiente e alla Commissione Europea dell’Ambiente, con PEC prot. 69452 del 28/10/2016).

Nel contempo, essa ha disposto, fintanto che non fosse stata acquisita risposta alle richieste di parere inoltrate al Ministero dell’Ambiente e alla Commissione Europea per l’Ambiente, che dovesse considerarsi sospesa l’efficacia della prescrizione di cui al punto 6) del dispositivo della D.D. n. 771/2016.

Con PEC prot. 77 del 3/01/2017 del Ministero dell’Ambiente e della tutela e del territorio e del mare, acquisita al prot. prov. n. 334 del 4/01/2017, la Direzione Generale per i Rifiuti e l’Inquinamento ha sollecitato l’I.S.S. e l’I.S.P.R.A. all’invio del parere per dare seguito alla richiesta di chiarimenti da parte della Provincia di Bergamo in merito alle corrette modalità di gestione dei limi di lavaggio contenenti il flocculante a base di poliammide, ma nulla risulta pervenuto.

Ciò puntualizzato, sono state pedissequamente riproposte le stesse considerazioni di cui alla precedente memoria.

Cava Suriana ha replicato, sostenendo l’infondatezza dell’eccezione di carenza di interesse formulata da parte resistente e la possibilità di qualificare i residui della lavorazione dei materiali estratti come sottoprodotti, laddove non sia ravvisabile la volontà del produttore di disfarsene e sussistano, invece, le quattro condizioni qualificanti di cui all’art. 184 bis del d. lgs. 152/2006. Circostanza che nemmeno la stessa Provincia avrebbe in concreto escluso, dal momento che l’autorizzazione prevede la possibilità della commercializzazione di una quota parte del limo di cava, la quale presuppone necessariamente la sua qualificazione come sottoprodotto.

La mancata commercializzazione del 50 % del limo prodotto in tutto il periodo di durata dell’autorizzazione, comporterebbe un danno che, la ricorrente, ha quantificato in 1.036.772,00 (22 euro a tonnellata per 47.126 tonnellate di cui è stata preventivata la produzione).

Alla pubblica udienza dell’1 marzo 2017, la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

L’oggetto della controversia è rappresentato, nella fattispecie, dalla corretta qualificazione e, conseguentemente, dall’individuazione della disciplina applicabile ai fanghi e ai limi derivanti dall’esercizio delle cave di ghiaia e sabbie alluvionali, in cui si eseguono, tramite impianti di lavorazione, le operazioni di selezione, trattamento e lavaggio degli inerti estratti.

Le acque di lavaggio, in uscita dall’impianto di lavorazione degli inerti, presentano, in sospensione, materiale fine, che viene recapitato in apposite vasche di chiariflocculazione, nelle quali avviene un processo fisico di decantazione. Spesso alle acque di lavaggio degli inerti vengono aggiunte sostanze flocculanti, che provocano una sedimentazione accelerata dei solidi sospesi, così da consentire una più rapida separazione acqua-solido. In particolare, nel processo c.d. di “flocculazione” vengono, di regola, usate sostanze a base di poliacrilamide, polimero sintetico ottenuto dall’ammide acrilica (acrilamide), sostanza caratterizzata da elevata tossicità, tant’è che il monomero acrilamide è acclarato quale sostanza cancerogena.

I fanghi derivanti dal processo di lavaggio degli inerti, c.d. “limi”, vengono poi essiccati/disidratati e infine ammassati e destinati ad operazioni di recupero ambientale o alla cessione a terzi: per un decennio anche l’odierna ricorrente ha destinato, in parte, tali limi, sovrabbondanti rispetto alle proprie esigenze, alla vendita a terzi.

Ciò le risulta oggi precluso dalle prescrizioni contenute nell’autorizzazione alla coltivazione della cava da ultimo concessa e che sono oggetto della controversia in esame, in quanto presuppongo una qualificazione dei fanghi e dei limi risultanti dalla lavorazione come rifiuti, anziché come sottoprodotti.

Prima di procedere all’esame nel merito della controversia, deve, però, essere preliminarmente esaminata l’eccezione in rito introdotta da parte della Provincia, la quale, peraltro, deve essere respinta.

In primo luogo, il Collegio ritiene necessario puntualizzare come la controversia in esame sia tesa alla caducazione non dell’autorizzazione all’esercizio della cava, ma di quelle specifiche prescrizioni che presuppongono e discendono dalla qualificazione del limo ottenuto dall’utilizzo di flocculanti a base di poliacrilamide come rifiuti dell’attività di cava e non anche come sottoprodotti.

La corretta ricostruzione dell’oggetto del contendere nel senso ora detto, vale a mettere in evidenza come l’annullamento richiesto non determinerebbe il venir meno dell’autorizzazione all’esercizio della cava e, dunque, il blocco dell’attività, ma, invece, la possibilità di stoccare i limi prodotti senza il rispetto delle misure imposte dalla loro qualificazione come rifiuti e di poter alienare gli stessi a terzi: annullamento rispetto a cui parte ricorrente ha, quindi, un evidente interesse, concreto ed attuale.

Ritenuto ammissibile il ricorso, si ravvisa, altresì, l’opportunità di un inquadramento generale della problematica portata all’attenzione di questo giudice, prendendo le mosse da un necessario cenno alla vexata quaestio della distinzione tra rifiuti e sottoprodotti.

Quando si tratta di materiali residuali rispetto a procedimenti di lavorazione non destinati in via principale alla loro produzione, bisogna, in primo luogo, distinguere tra rifiuti e non rifiuti: dentro quest’ultima categoria rientrano i sottoprodotti, le materie prime secondarie MPS e gli End of waste (rifiuti recuperati secondo quanto previsto dall’art. 183 ter del d. lgs. 152/2006).

I sottoprodotti si differenziano dalle altre due categorie di “non rifiuti”, per il fatto di derivare da un processo produttivo (non direttamente destinato alla loro produzione), anziché da un processo di recupero di rifiuti.

Al fine di distinguere tra rifiuti e sottoprodotti occorre, in primo luogo, porsi nell’ottica esclusiva del soggetto che produce il materiale da classificare, essendo del tutto indifferente quella che è la volontà del soggetto interessato al suo utilizzo e, dunque, la volontà di quest’ultimo di utilizzare ulteriormente il materiale.

Per questo, la normativa comunitaria e l’art. 184 bis del d. lgs. 152/2006, prevedono chiaramente che il materiale risultante dalla lavorazione primaria può essere qualificato come sottoprodotto solo se sia chiara sin dall’inizio la sua destinazione al riutilizzo e non vi sia la mera volontà del produttore di “disfarsene”.

Questa, come le altre tre condizioni richieste dalla legge (art. 184 bis citato e cioè: a) la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; …omissis…c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana) debbono essere dimostrate dal soggetto che intende sostenere che oggetto della propria attività è un sottoprodotto e non un rifiuto.

La qualificazione del materiale come sottoprodotto rende lo stesso estraneo alla disciplina dei rifiuti.

I produttori che, invece, intendono smaltire il rifiuto non pericoloso presso i luoghi di produzione (autosmaltimento) o destinare lo stesso ad attività di recupero (Allegato C alla Parte IV del d. lgs. 152/2006), sono sottoposti a procedure semplificate, che prevedono l’invio di una comunicazione di inizio attività alla Provincia, la quale iscrive l’impresa in un apposito registro e verifica la sussistenza dei requisiti dichiarati.

Per quanto riguarda, in particolare, i fanghi e limi in questione, la disciplina di riferimento è ricavabile dall’art. 185 del d. lgs. 152/2006, il quale:

a) al comma 2, lett. d), esclude dall'ambito di applicazione della parte quarta del decreto stesso e, dunque, anche dell’art. 184 bis del d. lgs. 152/2006, dedicato ai sottoprodotti, in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, “i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave, di cui al decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117”;

b) al comma 4, però, con specifico riferimento al materiale escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, prevede che se i materiali sono utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati scavati, “devono essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184 bis e 184 ter”: essi, dunque, non sono affatto esclusi dalla disciplina del recupero, ma, al contrario, l’applicazione agli stessi delle norme citate può determinare, se utilizzati da soggetti terzi, extra sito, la loro qualificazione come sottoprodotto oppure come Mps.

Pertanto, quanto affermato dalla Provincia, laddove sostiene la non applicabilità a fanghi e limi derivanti dal lavaggio del materiale cavato della Parte IV del d. lgs. 152/2006 (e in particolare dell’art. 184 bis) è solo parzialmente conforme al dato normativo. Lo è con riferimento a quella parte di essi che è destinata allo smaltimento come rifiuto e/o al recupero ambientale dello stesso sito oggetto del medesimo progetto di gestione che ha portato allo loro produzione. In questo caso troverà applicazione la disciplina che regola il loro autosmaltimento a riempimento dei vuoti generati dall’escavazione (rinvenibile nel decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 117).

Non lo è, invece, con riferimento ai residui che il progetto di gestione prevede siano destinati alla cessione a terzi, i quali risultano assoggettati alla disciplina della Parte IV del d. lgs. 152/2006 e debbono essere qualificati come sottoprodotti, ai sensi dell’art. 184 bis del medesimo d. lgs. 152/2006, se ne ricorrono le condizioni.

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, si può passare all’esame del merito del ricorso, sgombrando, preliminarmente il campo dal dubbio, insinuato con la seconda censura, che la Provincia abbia tenuto un comportamento incoerente ed illogico, prima ancora che immotivato.

Per accertare la fondatezza di quanto dedotto si deve ricordare che, nell’autorizzazione da ultimo rilasciata alla ricorrente (oggetto del ricorso in esame), all’allegato 1 (Scheda riepilogativa amministrativa – tecnica e parere d’ufficio), pag. 18, nello spazio dedicato ai “Precedenti pareri pervenuti in sede di NIVIA e recepiti nel Decreto di pronuncia di compatibilità ambientale n. 1871 del 02.03.2011”, al punto 3 della parte dedicata al Recupero morfologico, si legge: “Dall’attività di lavorazione svolta all’interno dell’insediamento produttivo del toutvenant di cava del giacimento locale si generano aggregati fini limoso-argillosi che vengono depositati nelle vasche di essicazione ove avviene una sedimentazione accelerata del fine in sospensione provocata dall’azione di apposito flocculante costituito da polielettrolita organico. Tale tipologica di organico verrà in alternativa: a) commercializzato come prodotto una volta caratterizzato secondo procedure interne certificate da organismo esterno abilitato ed identificato “LM: limo fine-plastico” con la marcatura CE della norma UNI-EN 13442 (n.d.r. la dicitura corretta riportata nel certificato di conformità è UNI-EN 13242) “aggregati per materiali non legati con leganti idraulici per l’impiego in opere di ingegneria civile e nella costruzione delle strade; b) oppure in alternativo classificato come rifiuto di estrazione ex d.lgs. 117/2008 e riutilizzato per le opere di ripristino ambientale all’interno del sito.”. Al successivo punto 4, però, si legge che le frazioni argilloso-limose (provenienti dall’esterno, per la precisione, ma non pare che ciò possa determinare alcuna differenza, per quanto di interesse) possono essere qualificate come sottoprodotti ai sensi dell’art. 184 bis del d. lgs. 152/2006, ma solo se prodotti da impianti che non utilizzano flocculanti.

Precedentemente, in sede di approvazione del progetto di gestione produttiva dell’ATEg16 del 2011, la Provincia prescriveva “che i materiali inerti (limi di lavaggio e scarti di cava,…omissis…) utilizzati per gli interventi di recupero ambientale rispettino i requisiti indicati negli artt. 184 bis e 186 del d. lgs. 152/06”., ma nella Scheda riepilogativa amministrativa – tecnica e parere d’ufficio, a pag. 14, nello spazio dedicato ai “Precedenti pareri pervenuti in sede di NIVIA e recepiti nel Decreto di pronuncia di compatibilità ambientale n. 1871 del 02.03.2011”, si legge che le frazioni argillo-limose provenienti dalla lavorazione negli impianti interni debbono essere qualificate come “rifiuti di estrazione”, utilizzabili per il recupero ambientale, se in possesso dei requisiti di “compatibilità ambientale”. Nella successiva pag. 15, però, si subordinava la possibilità di qualificare le frazioni argilloso-limose come sottoprodotti all’accertamento della compresenza della quattro condizioni dettate dall’art. 184 bis (vedi sopra), da operarsi di volta e in volta e tenuto conto che, in sede di autorizzazione, avrebbero dovuto essere puntualmente accertati i requisiti di cui alle lettere c) e d) di tale articolo.

In qualche modo, dunque, la Provincia ammetteva la possibilità di qualificazione dei limi e dei fanghi come sottoprodotti, ancorché nel rispetto delle condizioni di legge, da verificare di volta in volta, in particolare per quanto riguarda la necessità che il materiale non porti a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana (così come previsto dall’art. 184 bis del d. lgs. 152/2006).

Ed è proprio con riferimento a quest’ultimo aspetto che si è consumato il successivo cambio di rotta della Provincia, che ha condotto all’avversata imposizione della prescrizione.

Come evidenziato nella difesa provinciale, la sua inclusione nell’autorizzazione alla gestione dell’ambito riposa sui risultati degli approfondimenti compiuti dalla Provincia, in particolare richiedendo, il 23 novembre 2011, un apposito parere ad ARPA, circa la qualificabilità dei limi di lavaggio come sottoprodotti. ARPA, il 28 febbraio 2012, ha ritenuto di non poter esprimere un parere sull’ecocompatibilità richiesta dall’art. 184 bis del d. lgs. 152/06, richiamando, a tal fine, i pareri del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare prot. n. 33616 del 07/11/2011, dell’ISPRA del 7/10/2011 prot. n. 33189 e dell’Istituto Superiore di Sanità del 27/09/2011 prot. n. 40208.

Trattasi degli stessi pareri posti a base della informativa datata 1 aprile 2016, con cui è stata portata a conoscenza di tutti gli interessati la decisione della Provincia di Bergamo di qualificare come rifiuti e non anche come sottoprodotti i fanghi e i limi derivanti dal lavaggio del materiale inerte con flocculanti a base di poliacrilamide.

La loro acquisizione alla base del provvedimento censurato giustifica il diverso orientamento della Provincia e determina, dunque, l’impossibilità di configurare la dedotta contraddittorietà del suo comportamento e la controversia può essere risolta, conseguentemente, solo accertando la legittimità dell’esclusione della natura di sottoprodotto dei fanghi di lavorazione e dei limi, che la Provincia ha ritenuto di dover operare proprio sulla scorta di tali pareri.

Un precedente in termini è rappresentato dalla sentenza del TAR L’Aquila 185/2016, che, però, riconosce al materiale in questione la qualità di “sottoprodotto” solo limitandosi a richiamare la sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila che ha escluso che lo stoccaggio di fanghi potesse essere qualificato come illegittima gestione di rifiuti non pericolosi, proprio in quanto da classificarsi come sottoprodotti. Nella pronuncia si legge: “i fanghi derivano dal processo di produzione, la loro produzione non è lo scopo primario della frantumazione degli inerti di cava, essi possono essere utilizzati senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale e l’ulteriore utilizzo è legale”. Utilizzo giudicato “altamente verosimile”, in quanto i fanghi erano destinati al ritombamento della cava. Conseguentemente, si è ritenuto, in quell’occasione, che gli stessi presentassero tutte le caratteristiche del “sottoprodotto”.

Tali conclusioni appaiono condivisibili, ancorché non vi sia uniformità in giurisprudenza (cfr. Corte di Cassazione, sez. III penale, sentenza 12 maggio 2015, n. 49985, che ha ritenuto che i fanghi trattati debbano essere considerati alla stregua di rifiuti).

Invero, il parere dell’Istituto di Sanità del 2011 prende le mosse dalla considerazione che il recupero dei rifiuti in procedura semplificata può avvenire solo se non vi sia alcun rischio per l’ambiente e la salute. Come rilevato dall’Istituto, “acrilamide e poliacrilamide sono dotate di proprietà intrinseche distinte e di un diverso comportamento nell’ambiente; in particolare, la tossicità della poliacrilamide per l’uomo e per gli animali è relativa al contenuto residuo di monomero libero (acrilamide).”. Il parere si basa, dunque, sulla presunzione che l’utilizzo della poliacrilamide comporti il contemporaneo rilascio di una quantità non meglio precisata di acrilamide monomero, indubbiamente pericolosa per la salute, oltre una certa concentrazione che, però, non è stata individuata dal legislatore e ciò determinerebbe un aumento del rischio, rispetto al rifiuto di origine, “comportando l’esclusione dell’utilizzo di detto agente flocculante dalle pratiche di recupero, anche in R10” (così sempre il parere del 2011).

Sarebbe, dunque, necessario - secondo l’opinione che, in situazione di incertezza, sulla base di mere ipotesi e in violazione dei principi posti alla base del contemperamento degli opposti interessi alla tutela dell’iniziativa economica e della salute pubblica, tende al “rischio zero” -, accertare l’assenza del monomero, per consentire l’utilizzo di fanghi e limo trattati con il floculante in questione.

Molto più convincente, perché caratterizzato da maggiore oggettività, appare, però, il parere dell’ISPRA, n. 33189 del 7 ottobre 2011. Esso, nel valutare la possibilità di attuare la procedura semplificata di cui al DM 5 febbraio 1998 ai fini del recupero dei limi di lavaggio di inerti, ha confermato, pur nella mutata normativa (Regolamento 2014/1357/EU), che “un rifiuto è dunque classificato pericoloso se contiene acrilamide in concentrazione superiore allo 0,1 %”.

Tale principio si pone perfettamente in linea con la prescrizione del Regolamento UE n. 366 del 2011. Esso riguarda l’impiego dell’acrilamide nelle malte da iniezione destinate ad applicazioni su piccola e larga scala e non anche l’utilizzo di materiale di scavo trattato con poliacrilamide, ma ciò non appare sufficiente a escludere che esso, in assenza di specifica normativa nazionale, possa avere rilevanza ai fini della qualificazione di un materiale diverso, ma confrontabile per caratteristiche e uso, come i fanghi e i limi in questione.

Il citato Regolamento comunitario ha precisato che: “L’acrilamide è classificata come sostanza cancerogena di categoria 1B e mutagena di categoria 1B. I rischi collegati a tale sostanza sono stati valutati in applicazione del regolamento (CEE) n. 793/93 del Consiglio, del 23 marzo 1993, relativo alla valutazione e al controllo dei rischi presentati dalle sostanze esistenti”. E, ancora: “Secondo i risultati della valutazione dei rischi a livello europeo è necessario limitare il rischio per il comparto acquatico derivante dall’impiego di malte da iniezione a base di acrilamide nel settore delle costruzioni ed il rischio per altri organismi derivante dall’esposizione indiretta attraverso acque contaminate dalla stessa applicazione. Sono inoltre stati espressi timori per l’esposizione dei lavoratori e delle persone attraverso l’ambiente, vista la natura cancerogena e mutagena dell’acrilamide, la sua neurotossicità e la sua tossicità per la riproduzione, conseguenti all’esposizione derivante dall’impiego su piccola e larga scala di malte da iniezione a base di acrilamide.”

Conseguentemente, con tale Regolamento comunitario, si è disposto “Al fine di proteggere la salute umana e l’ambiente” di “limitare l’immissione sul mercato e l’uso della acrilamide nelle malte da iniezione e in tutte le applicazioni di consolidamento del suolo” al valore dello “0,1 %”.

Se così è, deve escludersi che un materiale possa essere considerato “rifiuto” solo per il fatto che sia possibile esso contenga un residuo di sostanza inquinante, in ragione del fatto che esso è stato trattato con un prodotto contenente una concentrazione di sostanza pericolosa, se non è dimostrato che nel materiale stesso sia rinvenibile una concentrazione di quest’ultima superiore a 0,1 %.

Ricorrendo il rispetto di tale limite, non si ravvisa ragione per cui il limo (o il fango) non possa essere comunque commercializzato e utilizzato per l’edilizia, avendo lo stesso grado di pericolosità del prodotto assunto a riferimento (e cioè una concentrazione di acrilamide inferiore a 0,1 %, al pari di quanto prescritto per le malte il cui uso è espressamente autorizzato dal regolamento europeo).

Il fatto che il Regolamento comunitario abbia a oggetto prodotti e non “rifiuti”, anziché escluderne l’applicazione alla fattispecie in esame, rende ancor più tutelante (dell’ambiente e della sanità pubblica) il rispetto dei parametri di sicurezza in esso indicati.

Se, infatti, una determinata concentrazione di sostanza pericolosa può ritenersi comunque accettabile in un prodotto, a maggior ragione deve ritenersi tale in uno scarto di lavorazione, classificabile, quindi, a seconda della volontà del produttore, come rifiuto non pericoloso (se non intenda favorirne il riuso) o come sottoprodotto commerciabile.

Tutto ciò premesso, si può sinteticamente evidenziare che:

a) l’acrilamide è usata come intermedio nella produzione di poliacrilamide, sicché è necessario considerare il potenziale rilascio del monomero (acrilamide) dal polimero durante l’uso della poliacrilamide. A tale proposito, la nota del Ministero dell’Ecologia e dello Sviluppo francese del 22 marzo 2011 (allegato 1 all’atto di intervento di SNF Italia) afferma che “Per quel che concerne la poliacrilamide, lo studio europeo sulla valutazione dei rischi sull’acrilamide e suoi composti curato dall’Istituto per la Salute e la protezione dei consumatori indica che le poliacrilamidi non degradano in acrilamide, sostanza cancerogena e mutogena. Potrà perciò reputarsi che prodotti di scarto di lavorazione trattato con flocculante avente un contenuto di acrilamide abbastanza basso (nel poliacrilamide di base) siano considerati inerti. Un tasso inferiore a 0,1 % di monomero residuo nel poliacrilamide è considerato accettabile”;

b) il DM 161/2012, peraltro ora abrogato, non ha escluso la qualificazione come sottoprodotto del materiale scavato che contenga materiale inquinante, purché entro i limiti indicati nello specifico allegato;

c) in assenza del parametro normativo disciplinante le caratteristiche del materiale in questione, può essere fatto riferimento alle concentrazioni di cui al Regolamento Reach già più volte citato.

Si può, dunque, ritenere che l’utilizzo di poliacrilamide non possa, di per sé, determinare la qualificazione come rifiuto del materiale con esso trattato, se non siano riscontrabili concentrazioni di sostanze inquinanti oltre il limite di legge. Tale limite non è previsto dalla legge italiana, ma ben può essere recuperato da quella europea, posto che non è stata individuata nessuna ragione tecnica perché il parametro ritenuto accettabile nell’utilizzo per le malte e per il consolidamento del terreno non potrebbe essere lo stesso nel caso di materiale destinato al riutilizzo per il ripristino ambientale e altri usi in edilizia (diretto o mediante cessione a terzi).

Se, infatti, si parte dal presupposto che il polimero (contenente acrilamide a una concentrazione inferiore a 0,1 %) non degrada in acrilamide e, dunque, la concentrazione residua di acrilamide nel materiale trattato con il polimero non può essere superiore a quella di partenza, in esso contenuta e si prende atto che la stessa concentrazione (inferiore a 0,1 %) è ritenuta accettabile nel regolamento europeo Reach in altri materiali, utilizzati in edilizia e nel consolidamento dei terreni, al pari dei fanghi e limi in questione, non può ritenersi che quest’ultimi non siano suscettibili di essere qualificati come sottoprodotti sotto il profilo della loro pericolosità per l’ambiente e la salute.

Non può, a tal fine, essere rilevante nemmeno il fatto che, come sostenuto dalla Provincia nella propria memoria conclusiva, manchi, a livello di ordinamento nazionale, un valore limite fissato per l’acrilamide come C.S.C. (Concentrazione Soglia di Contaminazione) nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti. Può, infatti, ritenersi, per quanto più sopra chiarito, che tale concentrazione dello 0,1 % dell’inquinante nel prodotto utilizzato per il trattamento dei fanghi e dei limi sia già di per sé sufficiente a garantire contro eventuali cessioni nel suolo e nelle acque dell’inquinante oltre il livello di tollerabilità di esso.

Peraltro, la Provincia, nella memoria conclusionale, ha evidenziato come la Commissione europea abbia risposto al quesito formulato, affermando che la questione dovrebbe essere risolta di volta in volta, chiedendosi “se l’uso previsto sia equivalente ad un’operazione relativa ai rifiuti come lo smaltimento, oppure se i limi di cava siano utilizzati come (sotto)prodotto.”.

Precisato che, nel contenzioso in esame, non è revocato in dubbio che la volontà sia quella di utilizzare limi e fanghi e non di avviarli allo smaltimento come rifiuti, il parere reso dalla Commissione europea non pare porsi in contrasto con quanto sostenuto dalla ricorrente e, al contrario, mette in evidenza la debolezza della classificazione effettuata “a priori” e senza condurre alcuna istruttoria, da parte della Provincia.

Appare del tutto condivisibile, dunque, la tesi secondo cui, al fine di stabilire se limi e fanghi possano essere o meno “sottoprodotti”, dovrà essere di volta in volta verificata la sussistenza dei parametri a tal fine individuati sia dalla normativa europea che nazionale, in particolare anche con riferimento al deposito dei materiali per un tempo indeterminato e alla difficoltà di distinguere se, in tal caso, vi sia la volontà di disfarsene (deposito che, per quanto riguarda il recupero ambientale avviene fisiologicamente per un tempo lungo, in quanto lungo è il tempo necessario ad accumulare il materiale destinato al recupero, al pari di quella necessaria per procedere all’attività di estrazione).

Tutto ciò, però, non può in alcun modo pregiudicare la possibilità che, presentando le caratteristiche richieste e, dunque, anche la volontà del riutilizzo, materiali trattati con flocculanti contenenti poliacrilamide siano suscettibili di essere qualificati come sottoprodotti, se il polimero contenga una concentrazione di monomero inferiore allo 0,1 per cento.

Deve, dunque, concludersi che limi e fanghi trattati con flocculanti contenenti poliacrilamide, possono essere qualificati come sottoprodotti e non anche come rifiuti, ogni volta che, rispettate le altre condizioni previste dall’art. 184 bis più volte citato, essi siano stati trattati con poliacrilamide contenente un residuo di acrilamide inferiore allo 0,1 % e, quindi, possano, per ciò stesso, garantire un residuo, nel prodotto trattato, inferiore a tale limite.

L’opposta conclusione, sostenuta dalla Provincia, condurrebbe all’irrazionale risultato che l’utilizzo del poliacrilamide, normalmente ammesso anche per la depurazione dell’acqua, determinerebbe la classificazione del limo come rifiuto anziché come sottoprodotto.

Non può, invece, trovare accoglimento la domanda risarcitoria (1.036.772 euro per la mancata vendita del limo prodotto fino alla scadenza dell’autorizzazione). A prescindere dall’inaccettabilità della quantificazione del danno con riferimento a lesioni future che non potranno derivare dal provvedimento che con la presente pronuncia si va a caducare, nella fattispecie concreta la posizione della ricorrente non è stata, di fatto, incisa, se non per pochissimi giorni. Subito dopo l’adozione della misura cautelare, infatti, la Provincia ha chiaramente esplicitato di intendere sospesa la prescrizione censurata, fino all’acquisizione dei nuovi pareri richiesti o fino all’udienza per la trattazione del merito, riconoscendo alla ricorrente di poter procedere, sotto la propria responsabilità, al trattamento del limo come un sottoprodotto.

Ciò può ragionevolmente escludere la sussistenza di qualsivoglia danno di cui, peraltro, parte ricorrente non ha fornito alcun principio di prova.

Le spese del giudizio possono trovare compensazione tra le parti in causa, attesa la natura prettamente interpretativa della questione dedotta.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

- lo accoglie e per l’effetto annulla l’atto impugnato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione intenderà adottare;

- rigetta la domanda risarcitoria;

- dispone la compensazione delle spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 1 marzo 2017 con l'intervento dei magistrati:

Alessandra Farina, Presidente

Mara Bertagnolli, Consigliere, Estensore

Alessio Falferi, Primo Referendario

         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Mara Bertagnolli        Alessandra Farina