Sez. 3, Sentenza n. 10049 del 01/02/2005 Cc. (dep. 15/03/2005 ) Rv. 230852
Presidente: Papadia U. Estensore: Amoroso G. Relatore: Amoroso G. Imputato: Bonucci ed altro. P.M. Ciampoli L. (Conf.)
(Rigetta, Trib. Perugia, 13 Ottobre 2004)
EDILIZIA - LICENZA DI COSTRUZIONE - Opere eseguite dai Comuni - Concessione edilizia - Necessità - Fattispecie.
Massima (Fonte CED Cassazione)
Le opere eseguite dai Comuni necessitano di concessione edilizia, giacchè la speciale procedura di cui all'art. 81 del d.P.R. n. 616 del 1977, peraltro sostituita con il procedimento di localizzazione di cui all'art. 4 del d.P.R. n. 383 del 1994 - che prescrive la verifica della conformità dell'opera alle prescrizioni dei piani urbanistici ed edilizi - si applica solo agli interventi dello Stato e non a quelli di altri enti pubblici territoriali. (La Corte ha anzitutto osservato che l'art. 8 del D.L. n. 193 del 1995, non convertito in legge ma riprodotto in quelli successivi, secondo il quale "non sono soggette a concessione edilizia né a denuncia di inizio attività le opere pubbliche comunali", dimostra come una simile espressa previsione non sarebbe stata necessaria se dette opere non fossero state in precedenza soggette all'obbligo di concessione edilizia; e così ha confermato il carattere abusivo dell'edificio realizzato dal Comune e adibito a palazzo di giustizia, in quanto anche qualificando l'opera di interesse statale, sarebbe stato necessario un atto di accertamento della conformità urbanistica ed edilizia da parte dell'Amministrazione statale, mentre, nel caso concreto, l'originario titolo di legittimazione dell'opera era costituito da una delibera della Giunta municipale, il cui termine di efficacia triennale risultava scaduto).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. PAPADIA Umberto - Presidente - del 01/02/2005
Dott. GRASSI Aldo - Consigliere - SENTENZA
Dott. MANCINI Franco - Consigliere - N. 152
Dott. VANGELISTA Vittorio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere - N. 42121/2004
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BONUCCI Domenico, n. Spoleto il 2 marzo 1951 e COCCETTA Massimo n. Spoleto il 9 luglio 1956;
avverso l'ordinanza del 13 ottobre 2004 del Tribunale di Perugia di conferma del sequestro preventivo del 10 settembre 2004 del g.i.p. di Spoleto;
Udita la relazione fatta in Camera di consiglio dal Consigliere Giovanni Amoroso;
Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale Dott. CIAMPOLI Luigi che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Uditi i difensori degli indagati, avv. FELIZIANI Paolo e CAMPAGNOLA Antonio, che hanno concluso per l'accoglimento del ricorso. la Corte osserva:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. In data 13 settembre 2004, il G.I.P. del Tribunale di Spoleto ha disposto, su richiesta del P.M., il sequestro preventivo dell'area di pertinenza del Palazzo di Giustizia di proprietà del Comune di Spoleto presso la quale erano in corso i lavori di costruzione e sistemazione di un nuovo parcheggio.
Il G.I.P., muovendo dai capi di imputazione contestati a vari soggetti, ritenuti dal P.M. responsabili di varie ipotesi di reato, ha ritenuto, nell'adozione del provvedimento, di tener conto solo dei reati di natura urbanistica (artt. 110, 112, primo comma, n. 1, c.p. e 7 e 20, lett. c), legge 28 febbraio 1985 n. 47) ed ambientale (artt. 110, 112, primo comma, n. 1, 151 e 163 d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490). Circoscritto in tale ambito il merito della questione, il G.I.P. ha sostenuto che il decreto di sequestro trovava il suo fondamento nel fatto che l'opera pubblica, in corso di ultimazione, era sfornita del titolo edilizio (individuato nella delibera della Giunta comunale n. 302/97 del 15 aprile 1997 di approvazione del progetto definitivo dell'opera), poiché questo ultimo risultava scaduto per la decorrenza del termine triennale di efficacia, così come previsto dalla legge n. 10/1977, e comunque per difformità rispetto alla realizzazione delle opere, nonché era privo di autorizzazione paesaggistica perché quella rilasciata a suo tempo (delibera della Giunta della Regione Umbria del 1 giugno 1995 n. 4126) era scaduta per decorso del termine quinquennale. In ordine poi al pericolo, il G.I.P. ha tenuto conto del fatto che, nonostante l'opera pubblica fosse pressoché ultimata, la possibilità che la stessa potesse essere liberamente fruita poteva aggravare le conseguenze lesive antigiuridiche.
2. Con ricorsi ex art. 324 c.p.p. al Tribunale di Perugia è stato richiesto il riesame del provvedimento.
Con l'ordinanza depositata in data 13.10.2004 l'adito Tribunale ha ritenuto l'"abusività" dell'opera e l'esistenza del periculum riconnesso alla possibilità dell'utilizzo del parcheggio in difetto del provvedimento di agibilità e, per l'effetto, ha confermato il provvedimento di sequestro.
3. Avverso questa ordinanza hanno proposto ricorso per Cassazione il Bonucci con quattro motivi ed il Coccetta con due motivi, che però ripercorrono sostanzialmente le censure mosse nei quattro motivi del primo ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I primi tre motivi del ricorso del Bonucci ed il primo motivo del ricorso del Coccetta riguardano, sotto più profili, il fumus commissi delicti.
In particolare i ricorrenti deducono che nella specie per l'opera comunale in questione non occorreva la concessione edilizia ed invocano le disposizioni poste dall'art. 1 legge 3 gennaio 1978 n. 1 e dall'art. 81, comma 3, d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, allegando, in riferimento ad esse, il vizio di violazione di legge. Deducono poi anche la violazione dell'art. 4, comma 16, d.l. 5 ottobre 1993 n. 398, conv. in l. 4 dicembre 1993 n. 493 e degli artt. 7 e 15 d.lgs. 6 giugno 2001 n. 380. Secondo la difesa degli indagati troverebbe applicazione nella specie l'art. 7 d.lgs. 6 giugno 2001 n. 378 che esclude che alle opere pubbliche dei comuni deliberate dal consiglio comunale o dalla giunta comunale, se assistite dalla "validazione del progetto" ai sensi dell'art. 47 d.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, si applichino le disposizioni del titolo 2^ (sui titoli abilitativi) tra cui l'art. 15 che disciplina l'efficacia temporale del permesso a costruire (già concessione edilizia). Censurano l'ordinanza impugnata per aver omesso ogni accertamento della sussistenza del reato ipotizzato.
Con il quarto motivo del Bonucci ed il secondo motivo del Coccetta i ricorrenti, denunciando la violazione degli artt. 321 e 324 c.p.p.;
lamentano che non vi sarebbero le esigenze cautelari a giustificazione della misura cautelare adottata.
2. I ricorsi - i cui motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi - non sono fondati.
3. Va innanzi tutto affermata l'ammissibilità dei ricorsi ancorché proposti da indagati che non sono ne' proprietari dell'opera, ne' committenti della stessa, ne' appaltatori; ma rispettivamente il Coccetta è il dirigente dell'Ufficio tecnico del Comune di Spoleto, committente dell'opera, e il Bonucci, addetto allo stesso ufficio, è responsabile del procedimento amministrativo.
Va infatti ribadito l'orientamento, ancorché non del tutto univoco, espresso in proposito da Cass., sez. 3^, 6 marzo 1996, n. 1052, Mora, secondo cui all'indagato è sempre riconosciuto l'interesse a proporre richiesta di riesame contro il sequestro (preventivo) indipendentemente dal fatto che i beni oggetto del provvedimento siano stati sottratti alla sua disponibilità o a quella di terzi. 4. Passando al merito dei motivi dei ricorsi, giova innanzi tutto ribadire che - secondo l'orientamento in materia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 20 novembre 1996, Bassi) - in sede di riesame di sequestro preventivo l'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti deve essere compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati sul piano fattuale, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti al fine di verificare se essi consentano di sussumere l'ipotesi accusatoria formulata in quella tipica, senza che si instauri un processo nel processo.
Questo orientamento è stato più volte confermato da questa Corte:
cfr. Cass., sez. 6^, 3 marzo 1998, Campo; Cass., sez. 6^, 1 marzo 1999, Molinaro Sonni; Cass., sez. 3^, 11 maggio 1999, Tamburini;
Cass., sez. 1^, 25 giugno 1999, Visconti; Cass., sez. 3^, 27 gennaio 2000, Cavagnoli; pronunce queste che hanno puntualizzato che alla giurisdizione compete il potere-dovere di espletare il controllo di legalità nell'ambito delle indicazioni di fatto offerte dal P.M., talché l'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati dall'accusa. In particolare Cass., sez. 3^, 27 gennaio 2000, Cavagnoli, cit., ha ribadito che la legittimità del sequestro preventivo implica l'astratta riconducibilità dei fatti rappresentati dal P.M. ad un'ipotesi di reato e la sussistenza in concreto del fumus di detto reato, da intendersi nel senso di una ragionevole prospettiva che esso possa essere in seguito considerato come davvero esistente.
Nella specie questa necessaria - e così limitata - valutazione di congruità degli elementi rappresentati dal P.M. appare corretta ed immune dal vizio di violazione di legge che è l'unico deducibile ex art. 325 c.p.p..
5. Passando poi all'esame specifico delle singole censure mosse dai ricorrenti all'ordinanza impugnata, deve considerarsi innanzi tutto che non vale ad inficiare la legittimità dell'impugnata ordinanza il richiamo, fatto dalle difese degli indagati, all'art. 81 d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616, disposizione questa che, nel contesto del trasferimento (a quell'epoca) delle funzioni amministrative alle regioni, ha individuato, nell'art. 81, alcune competenze che rimanevano allo Stato. In particolare l'(invocato) terzo comma di tale disposizione prevedeva che per le opere da eseguirsi da amministrazioni statali l'accertamento della conformità alle prescrizioni delle norme e dei piani urbanistici ed edilizi fosse fatta dallo Stato stesso d'intesa con la regione interessata. Tale disposizione quindi riguardava esclusivamente le opere statali. Invece le opere pubbliche di interesse statale, realizzate da altri enti, quali gli enti locali, erano disciplinate dal successivo quarto comma che prevedeva (soltanto) che la loro progettazione, per quanto concerneva la loro "localizzazione e le scelte di tracciato" era fatta dall'Amministrazione statale, sempre d'intesa con la regione interessata e sentito preventivamente l'ente locale nel cui territorio era previsto l'intervento; invece per la conformità urbanistica ed edilizia valevano le regole generali. Quindi la disposizione non esonerava le opere comunali, seppur di interesse statale, dalla concessione edilizia quale provvedimento di stretta competenza del sindaco, tanto più che - come ha notato la dottrina - l'art. 9, lett. f), della cit. legge n. 10 del 1977 nell'elencare i casi di concessione gratuita, faceva testualmente riferimento alle "opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti", secondo una terminologia pressoché coincidente con quella di cui all'art. 81, 3 comma, cit.. Inoltre - come ha rilevato altra dottrina - ciò poteva desumersi indirettamente anche dall'art. 22 legge 1 dicembre 1986 n. 879 che ha previsto un'eccezionale ipotesi di sanatoria di opere eseguite dai comuni senza concessione edilizia.
Comunque la disposizione invocata dalle difese degli indagati (art. 81, terzo comma, cit.) è stata abrogata dall'art. 4 del d.P.R. 18 aprile 1994 n. 383, che ha dettato il regolamento recante la disciplina dei procedimenti di localizzazione delle opere di interesse statale. Il cui art. 2, in vero, prevede sì una nuova disposizione analoga a quella abrogata, prescrivendo ancora l'intesa tra l'Amministrazione statale e la Regione interessata e demandando alla stessa Amministrazione statale, previo tale intesa, la verifica della conformità alle prescrizioni delle norme e dei piani urbanistici ed edilizi; e ciò riguarda le opere pubbliche - come specifica il precedente art. 1 - da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale e quelle di interesse statale da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti. Ma in ogni caso - ove anche l'opera in questione potesse essere qualificata come di interesse statale perché servente il palazzo di giustizia sito nel comune - il procedimento speciale previsto da tale normativa avrebbe richiesto un atto di accertamento dell'Amministrazione statale di conformità urbanistica ed edilizia dell'opera e la previa intesa tra Stato e Regione interessata; il che nella specie è comunque mancato del tutto perché l'originario titolo legittimante dell'opera in questione è costituito solo dalla delibera della Giunta municipale n. 302/97 del 15 aprile 1997, ossia da un atto dell'ente locale.
Infine la tesi dei ricorrenti è contraria anche alla giurisprudenza di legittimità sul punto. Infatti questa Corte (Cass., sez. 3^, 7 giugno 1995, Pruneri) ha già affermato che le opere eseguite dai Comuni necessitano di concessione edilizia, giacché la speciale procedura di cui all'art. 81 d.p.r. n. 616 del 1977 si applica solo agli interventi dello Stato e non a quelli di altri enti pubblici territoriali, mentre l'art. 8, 13 comma, d.l. n. 193 del 1995, non convertito in legge, ma riprodotto in quelli successivi (per questo aspetto v. anche infra), secondo il quale "non sono soggette a concessione edilizia ne' a denuncia di inizio dell'attività le opere pubbliche comunali" dimostra come una simile espressa previsione non sarebbe stata necessaria se dette opere non fossero state in precedenza soggette all'obbligo di concessione edilizia; la stessa disposizione stabilisce, poi, una determinata procedura, in cui il progettista abilitato assume una posizione di garanzia, dovendo attestare la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonché l'esistenza dei nulla osta di conformità alle norme di sicurezza sanitarie, ambientali e paesistiche, sicché anche l'opera pubblica comunale dovrà essere conforme alla legislazione ed alla strumentazione urbanistica.
Inoltre in precedenza Cass., sez. 3^, 19 gennaio 1984, n. 83, D'Amico, ha ritenuto che è configurabile l'ipotesi di reato di cui all'art. 17, lett. d), legge n. 10 del 10 gennaio 1977 nel caso di opera pubblica deliberata dal Consiglio comunale e realizzata direttamente dall'amministrazione senza il preventivo rilascio formale della concessione edilizia da parte del Sindaco nella sua specifica funzione impostagli dalla legge urbanistica. 6. Le difese dei ricorrenti hanno poi invocato l'art. 1 legge 3 gennaio 1978 n. 1 che però parimenti non è idoneo a svelare alcun vizio di legittimità dell'impugnata ordinanza. Infatti tale disposizione - anch'essa abrogata, ma dopo l'adozione della citata delibera della Giunta municipale del 1997 (segnatamente dall'art. 58 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 325), e quindi astrattamente applicabile, peraltro nel testo precedente la novella dell'art. 4 legge 18 novembre 1998 n. 415 che ha modificato proprio il terzo ed il quarto comma dell'art. 1 cit. - riguarda la possibile variante degli strumenti urbanistici ove l'opera pubblica, il cui progetto sia stato approvato dal Comune, non sia conforme alle specifiche destinazioni di piano, distinguendosi l'ipotesi in cui non è necessaria alcuna variante (quarto comma) e quella in cui la variante è necessaria, ma in tal caso vi è un procedimento semplificato (non c'è necessità dell'autorizzazione regionale preventiva, ma è sufficiente l'approvazione successiva del progetto definitivo ed esecutivo dell'opera pubblica assentito dal Comune che vale quale adozione di variante dello strumento urbanistico).
Nella specie però non si fa questione di conformità, o meno, del progetto approvato allo strumento urbanistico; ma di durata - limitata (a tre anni) o illimitata - dell'idoneità di tale progetto a legittimare l'esecuzione dell'opera in questione. Quindi l'invocato art. 1 legge 3 gennaio 1978 n. 1 cit. è in realtà inconferente. 7. Il ricorrenti poi deducono la violazione dell'art. 4, comma 16, d.l. 5 ottobre 1993 n. 398, conv. in l. 4 dicembre 1993 n. 493 e degli artt. 7 e 15 d.lgs. 6 giugno 2001 n. 380. Orbene è vero - come sostengono le difese dei ricorrenti - che l'art. 7 d.lgs. 6 giugno 2001 n. 378 esclude che alle opere pubbliche dei comuni deliberate dal consiglio comunale o dalla giunta comunale, se assistite dalla "validazione del progetto" ai sensi dell'art. 47 d.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, si applichino le disposizioni del titolo 2^ (sui titoli abilitativi) tra cui l'art. 15 che disciplina l'efficacia temporale del permesso a costruire (già concessione edilizia). Ma tale rilievo della difesa dei ricorrenti è destituito di fondamento atteso che si tratta di normativa inapplicabile ratione temporis essendo il progetto di approvazione dell'opera in questione (del 1997) antecedente non solo alle nuove disposizioni in materia edilizia di cui al cit. d.lgs. n. 380 del 2001, ma anche al cit. regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici che ha disciplinato la "validazione del progetto", la quale condiziona l'esclusione delle opere pubbliche dei comuni dall'applicazione delle disposizioni del titolo 2^ del cit. d.lgs. n. 380/2001. La nuova normativa dettata dal cit. testo unico in materia edilizia, e segnatamente, per quanto riguarda in questo giudizio, il suo art. 7, si applica alle opere pubbliche comunali la cui delibera di approvazione, previa validazione del progetto, sia successiva alla sua entrata in vigore (30 giugno 2003).
Senza fondamento è poi il richiamo, che le difese dei ricorrenti fanno, dell'art. 8 d.l. 26 maggio 1995 n. 193, specificando (erroneamente) che trattasi di "decreto regolarmente convertito in legge"; disposizione questa che ha sì previsto che non sono soggette a concessione edilizia le opere pubbliche comunali. Però, come già rilevato, tale decreto legge non è stato affatto convertito in legge, ma gli atti ed i provvedimenti adottati in forza dello stesso (e di altri successivi riproduttivi del medesimo, quali il d.l. 20 settembre 1995 n. 400 ed il d.l. 25 novembre 1995 n. 498) sono stati fatti salvi dall'art. 2, comma 61, legge 23 dicembre 1996 n. 662. Ciò comporta che l'art. 8 cit. (al pari della corrispondente disposizione contenuta dei successivi decreti legge reiterati e anch'essi non convertiti) non può avere alcuna incidenza su una delibera comunale di approvazione del progetto di un'opera pubblica adottata due anni dopo. C'è invece da considerare che nella cit. legge n. 662/96 il legislatore non ha ulteriormente riprodotto la norma dell'art. 8 cit., ma ne ha formulato una diversa: non si parla più di non assoggettamento a concessione edilizia, bensì di equipollenza del progetto approvato alla concessione edilizia. Infatti il comma 60 dell'art. 2 della legge n. 662/96, nel sostituire l'art. 4 d.l. 5 ottobre 1993 n. 398, conv. in l. 4 dicembre 1993 n. 493, prevede, al comma 16 dell'art. 4 novellato, che per le opere pubbliche dei comuni la deliberazione con la quale il progetto viene approvato ha i medesimi effetti della concessione edilizia (testo rimasto sostanzialmente invariato, per quanto interessa, anche a seguito delle modifiche correttive introdotte con d.l. 31 dicembre 1996 n. 669, conv. in l. 28 febbraio 1997 n. 30).
8. In breve, nella fattispecie è applicabile proprio tale ultima disposizione: l'art. 4, comma 16, d.l. 5 ottobre 1993 n. 398, conv. in l. 4 dicembre 1993 n. 493, nella formulazione introdotta dall'art. 2, comma 60, legge 23 dicembre 1996 n. 662, prima che anche tale disposizione fosse abrogata dall'art. 136 d.lgs. 6 giugno 2001 n. 378; disposizione alla quale occorre far riferimento ratione temporis. Essa - come appena rilevato - prevede(va), al sedicesimo comma, che per le opere pubbliche dei comuni la deliberazione con la quale il progetto viene approvato ha "i medesimi effetti della concessione edilizia". Aggiunge poi la medesima disposizione: il progettista è tenuto ad attestare la conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, nonché l'esistenza dei nulla osta di conformità alle norme di sicurezza, sanitarie, ambientali e paesistiche.
Quindi da una parte l'approvazione del progetto vale concessione edilizia; d'altra parte l'opera non è esentata dall'autorizzazione ambientale e paesistica. Questa equipollenza tra approvazione del progetto e concessione edilizia comporta altresì che trova applicazione anche il termine triennale previsto (all'epoca) dall'art. 4, comma 4, legge 28 gennaio 1977 n. 10 per il completamento dell'opera, salva la possibilità della proroga. Avendo l'approvazione del progetto "i medesimi effetti della concessione edilizia", essa ha conseguentemente anche la stessa durata triennale quanto ad idoneità a legittimare l'esecuzione dell'opera, salva la possibilità dell'approvazione di un nuovo progetto per la parte non ultimata.
9. Analoga considerazione può svolgersi quanto all'autorizzazione paesistica. È vero - come sostenuto dalle difese dei ricorrenti che parimenti hanno invocato tale disposizione per dedurre sotto questo ulteriore profilo il vizio di legittimità dell'impugnata ordinanza - che l'art. 46 d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 prevede, al secondo comma, che dal rilascio del provvedimento di autorizzazione paesistica e sino all'inizio dei lavori decorre il termine di validità di cinque anni previsto dall'art. 16 r.d. 3 giugno 1940 n. 1357, dell'autorizzazione stessa; ed aggiunge: qualora i lavori siano iniziati nel quinquennio, l'autorizzazione si considera valida per tutta la durata degli stessi.
Ma ancora una volta si tratta di normativa successiva alla menzionata delibera municipale del 1997 e quindi inapplicabile ratione temporis. Trova invece applicazione il quarto comma dell'art. 16 r.d. 3 giugno 1940 n. 1357, la cui perdurante vigenza anche dopo l'abrogazione (ad opera dell'art. 166 d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490) della legge 29 giugno 1939 n. 1497 sulla protezione delle bellezze naturali di cui il cit. regio decreto costituiva il regolamento, come risulta (oltre che dallo stesso art. 166 cit., in quanto atto normativo non incluso nel catalogo delle disposizioni abrogate, anche) dallo stesso cit. art. 46, secondo comma, che, nel richiamare espressamente l'art. 16 cit. (contestandone così la perdurante vigenza), ne ha, da una parte, modificato la portata normativa assegnando all'autorizzazione validità fino all'ultimazione dei lavori nell'ipotesi in cui questi siano iniziati nel quinquennio e, d'altra parte, ha confermato la durata quinquennale della stessa nella diversa ipotesi in cui i lavori non siano invece iniziati nel quinquennio con la precisazione che il termine decorre dal rilascio dell'autorizzazione paesistica.. Tale disposizione (art. 16, quarto comma, cit.), nella sua originaria formulazione, prevede appunto che l'autorizzazione paesistica vale per un periodo di cinque anni trascorso il quale l'esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione. Nella specie, risalendo l'autorizzazione in questione al 1995, il quinquennio è decorso prima della menzionata modifica normativa (art. 46, comma 2, d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327), che pertanto non è rilevante.
10. Conclusivamente, tenuto conto dei rilevati limiti, nella sede cautelare, della cognizione, necessariamente sommaria, del contestato reato, deve ritenersi che l'ordinanza impugnata ha motivato adeguatamente ed in modo non contraddittorio quanto alla sussistenza del fumus commissi delicti.
Dalle considerazioni svolte in diritto emerge che correttamente il tribunale ha ritenuto che quel titolo abilitativo urbanistico (approvazione del progetto edilizio con la citata delibera della Giunta comunale di Spoleto n. 302/97 del 15 aprile 1997) era divenuto inefficace per mancata realizzazione dell'opera nel triennio. A corollario di questa affermazione - sulla quale si sono appuntate le censure dei ricorrenti dirette a sostenere, con le plurime argomentazioni sopra esaminate, che tale termine triennale non poteva ritenersi operante - mette conto svolgere una considerazione ulteriore in ordine ad una circostanza di fatto che è rimasta sostanzialmente in ombra e che quindi non ha avuto rilievo in questo giudizio: l'adozione di due delibere della Giunta comunale del 2002. Il g.i.p. che ha disposto l'impugnato sequestro, ha ritenuto a questo proposito, richiamando i rilievi dei consulenti tecnici del P.M., che queste due delibere (riguardanti l'approvazione di una perizia di variata distribuzione di spesa e di una perizia di variante suppletiva) non costituissero un atto espresso o equipollente che autorizzasse la realizzazione dell'opera in questione. Questo convincimento può ritenersi implicitamente confermato dal tribunale per il riesame che menziona le due delibere, quali aventi ad oggetto la 3^ e la 4^ perizia di variante, e riferisce invece l'approvazione del progetto dell'opera alla precedente delibera del 1997. A questo proposito i ricorrenti a loro volta non argomentano più di tanto perché si limitano ad affermare che con la seconda delle due menzionate delibere del 2002 veniva approvato definitivamente il progetto, laddove invece nell'ordinanza impugnata l'approvazione del progetto è riferita alla citata delibera del 1997, mentre le due successive delibere avrebbero riguardato solo varianti. Comunque la genericità dell'affermazione dei ricorrenti, meramente assertiva e nient'affatto sviluppata con l'allegazione in dettaglio del contenuto delle delibere stesse, rende irrilevante, in questo giudizio, tale circostanza di fatto.
Inoltre, quanto al profilo della tutela ambientale, altrettanto correttamente il tribunale per il riesame ha ritenuto che anche l'autorizzazione paesaggistica (delibera della Giunta della Regione Umbria 1 giugno 1995 n. 4126) era divenuta inefficace per il decorso di un quinquennio dal suo rilascio.
Deve poi anche aggiungersi che il fumus commissi delicti risulta rafforzato, sotto il profilo in esame, dall'ulteriore rilievo in fatto, che svolge il tribunale, secondo cui comunque l'opera quasi completata era risultata in sostanziale difformità da quella di cui all'originario progetto approvato (diversità consistente nel numero di posti realizzati e nella struttura completamente metallica, in luogo di quella mista, in parte metallica ed in parte in cemento armato).
11. Quanto infine alla doglianza dei ricorrenti secondo cui nella specie non vi sarebbero le esigenze cautelari a giustificazione della misura cautelare adottata, è sufficiente rilevare che l'ordinanza impugnata ha preso in considerazione ed ha verificato anche la sussistenza del periculum, consistente nella specie nel maggior carico urbanistico; ed ha ampiamente argomentato in fatto con motivazione sufficiente e non contraddittoria, non censurabile con ricorso ex art. 325 c.p.p. limitato solo alla violazione di legge. In punto di diritto può ribadirsi quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 20 marzo 2003 n. 12878, Innocenti) secondo cui il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già perfezionatasi, purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa - che va accertato dal giudice con adeguata motivazione - presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del reato. Nella specie il tribunale ha posto in rilievo il maggiore carico urbanistico conseguente all'utilizzo del parcheggio in ragione - si afferma nell'ordinanza - dell'"incremento del numero di veicoli e di persone destinati a gravare nell'area"; valutazione questa di merito, non implausibile, che non ridonda in alcun vizio di legittimità censurabile in cassazione ex art. 325 c.p.p..
Al pari correttamente il tribunale ha osservato che la pur possibile sanatoria dell'opera non rileva perché, fino al momento in cui essa non interviene, permane l'illegittimità della stessa (Cass., sez. 3^, 6 febbraio 1996, Fusco).
12. I ricorsi del Bonucci e del Coccetta sono quindi, nel loro complesso, da rigettare, con conseguente obbligo degli stessi di pagare le spese processuali.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2005