Cass. Sez. III n. 7389 del 25 febbraio 2020 (UP 18 ott 2019)
Pres. Andreazza Est. Zunica Ric.Falini
Urbanistica.Abusi edilizi e responsabilità usufruttuario
In tema di reati edilizi, la mera qualità di usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato non è sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo necessaria, per l’attribuzione al predetto della qualifica di committente o di compartecipe con quest'ultimo nella commissione del reato, la sussistenza di un “quid pluris”, indicativo di tale concorso, desumibile da elementi concreti, come la presentazione della domanda di condono edilizio, la piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, l’interesse specifico a edificare la nuova costruzione, i rapporti di parentela o di affinità con l’autore materiale delle opere, la riscontrata presenza “in loco” e lo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18 ottobre 2018, la Corte di appello di Genova confermava la sentenza del 22 marzo 2016, con cui il Tribunale di Savona aveva condannato Loretta Falini e Lara Clemeno alla pena di mesi 3 di arresto ed euro 15.000 di ammenda ciascuna, in quanto ritenute colpevoli del reato di cui all’art. 44 lett. B) del d.P.R. n. 380 del 2001, a loro contestato perché, la prima quale usufruttuaria al 50% del terreno oggetto di intervento edilizio, e la seconda quale nuda proprietaria del medesimo terreno, realizzavano su quest’ultimo una villetta di circa mq. 110, in assenza di titolo edilizio; in Noli il 21 giugno 2013.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello ligure, la Falini e la Clemeno, tramite il loro comune difensore di fiducia, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
Con il primo, la difesa deduce la violazione degli art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, 192, 533 e 535 cod. proc. pen., nonché l’illogicità e contraddittorietà della motivazione, evidenziando che la Corte di appello ha indebitamente ritenuto sussistente la responsabilità penale delle ricorrenti, pur in assenza di prove di un contributo concorsuale all’attività edificatoria posta in essere, esclusivamente, da Antonio Clemeno, padre di Lara e marito della Falini.
La difesa rileva in particolare che la qualità di proprietario dell’area su cui viene realizzata un’opera edilizia abusiva non è sufficiente per affermare la penale responsabilità per la realizzazione dell’opera, atteso che l’art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001 non attribuisce alcuna posizione di garanzia al titolare del diritto reale sull’area di sedime o sull’immobile abusivamente realizzato; dunque il proprietario non poteva essere ritenuto responsabile dell’abuso commesso sul proprio immobile, nemmeno facendo ricorso al meccanismo di imputazione causale ex art. 40 cod. pen., posto che non esiste una fonte formale da cui far derivare un obbligo giuridico di controllo sui beni, finalizzato a impedire il reato.
Quanto alla posizione della Clemeno, la difesa osserva che l’unico indizio del possibile concorso nella realizzazione della costruzione consisterebbe nel vincolo parentale con l’esecutore materiale, ovvero il padre Antonio Clemeno: tuttavia, la circostanza che quest’ultimo fosse anche un usufruttuario del terreno eliderebbe ogni contenuto indiziario, posto che il padre poteva disporre del terreno, anche edificandolo, in assenza di ogni consenso della figlia.
Rispetto alla Falini, si osserva analogamente che la sua veste di usufruttuaria del terreno non era decisiva, posto che l’altro usufruttuario, Antonio Clemeno, poteva intervenire senza il suo assenso, mentre, quanto alla presentazione della istanza di condono, la difesa evidenzia che si trattava di un comportamento post delictum che solo la Falini poteva compiere e da cui comunque non poteva trarsi la conclusione che ella abbia concorso alla realizzazione del manufatto.
Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 62 bis cod. pen. in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, evidenziandosi che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il comportamento tenuto dalle imputate non ha violato il principio di lealtà processuale, essendosi limitate a sostenere una tesi di puro diritto, cioè la mancanza di prova circa la titolarità di diritti reali sul terreno, fondata sulle sole visure catastali, ritenute prive di valore certificativo, senza artefare le risultanze processuali, non essendosi tenuto conto, peraltro, della natura contravvenzionale del reato contestato, della condizione di incensurate delle ricorrenti e del fatto che la responsabilità, ove ritenuta sussistente, sarebbe fondata non sulla materiale esecuzione dell’opera, ma a titolo di concorso per omissione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso della Falini è inammissibile perché manifestamente infondato, mentre il primo motivo ricorso della Clemeno è fondato, per cui nei confronti della predetta ricorrente si impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per non aver commesso il fatto.
1. Iniziando dal primo motivo, deve in primo luogo premettersi che la sussistenza del reato dal punto di vista oggettivo non è controversa, essendo pacifica la realizzazione sine titulo di un fabbricato allo stato rustico, ma già suddiviso internamente, in un’area sottoposta a vincolo di inedificabilità.
Quanto all’ascrivibilità delle opere abusive, i giudici di merito hanno valorizzato, da un lato, le qualità di nuda proprietaria di Lara Clemeno e di usufruttuaria al 50% di Loretta Falini, qualità che conferivano a entrambe la disponibilità giuridica del terreno oggetto dei lavori, e, dall’altro, il loro stretto rapporto familiare con l’esecutore materiale delle opere, cioè l’originario coimputato Antonio Clemeno, poi deceduto, padre di Lara Clemeno e marito di Loretta Falini.
Parimenti significative, a livello indiziario, sono state poi ritenute talune ulteriori circostanze fattuali, come la presentazione della domanda di condono da parte della Falini e il fatto che entrambe le imputate risiedono a breve distanza dal terreno dove è stata edificata la costruzione abusiva, a ciò aggiungendosi che la Clemeno svolge attività di agente immobiliare, essendo dunque persona abituata a confrontarsi con le problematiche connesse agli interventi edilizi.
2. Orbene, l’impostazione seguita dai giudici di merito può essere ritenuta corretta solo rispetto alla posizione di Loretta Falini, mentre il quadro probatorio delineatosi a carico della Clemeno, per come riportato nelle sentenze di primo e secondo grado, non può ritenersi sufficiente al fine di giustificarne il giudizio di colpevolezza, imponendosi dunque per la predetta ricorrente l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per non aver commesso il fatto.
Al riguardo, al fine di inquadrare il tema oggetto di scrutinio, deve richiamarsi innanzitutto la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 25546 del 14/03/2019, Rv. 275564), secondo cui, in tema di reati edilizi, la mera qualità di usufruttuario dell’immobile abusivamente realizzato non è sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, essendo necessaria, per l’attribuzione al predetto della qualifica di committente o di compartecipe con quest'ultimo nella commissione del reato, la sussistenza di un “quid pluris”, indicativo di tale concorso, desumibile da elementi concreti, come la presentazione della domanda di condono edilizio, la piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, l’interesse specifico a edificare la nuova costruzione, i rapporti di parentela o di affinità con l’autore materiale delle opere, la riscontrata presenza “in loco” e lo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi.
In applicazione di tale premessa interpretativa, l’affermazione della penale responsabilità della Falini non presta il fianco alle obiezioni difensive, avendo i giudici di merito ragionevolmente rimarcato non solo la sua qualità di usufruttuaria al 50% del terreno dove vi è stata l’edificazione abusiva, ma anche il suo rapporto di coniugio con l’altro usufruttuario al 50%, Antonio Clemeno, di cui è pacifico il ruolo di protagonista dell’intervento edilizio sine titulo, essendo parimenti significativa la circostanza che la Falini abbia presentato l’istanza di condono edilizio, ciò a conferma del suo coinvolgimento nel conseguimento del manufatto, alla cui realizzazione ella aveva evidentemente un interesse diretto.
Rispetto alla posizione della Falini, dunque, il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito resiste ampiamente alle censure difensive, essendo fondata la tesi del concorso nel reato contestato su considerazioni tutt’altro che illogiche.
3. A considerazioni diverse deve pervenirsi invece rispetto alla posizione della Clemeno, non potendosi ritenere sufficiente in tal caso né la veste di nuda proprietaria del terreno dove sono avvenuti i lavori abusivi, né il legame filiale con l’autore degli abusi, trattandosi di elementi fattuali che, per quanto dotati di un certo spessore indiziario, tuttavia non consentono di affermare, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che l’imputata abbia concorso all’edificazione abusiva, non potendosi sottacere peraltro che l’aspettativa della ricorrente al pieno consolidamento del proprio diritto dominicale non era affatto immediata.
In ogni caso, al di là della veste formale di nuda proprietaria, non può affermarsi con adeguato grado di certezza che la Clemeno abbia offerto un suo contributo, anche in termini morali, alla realizzazione dell’abuso edilizio, essendo invero evanescenti gli ulteriori profili fattuali valorizzati nelle sentenze di merito, ovvero la circostanza che l’imputata abitasse non lontano dal terreno in questione e, ancor di meno, il fatto che la Clemeno svolga l’attività di agente immobiliare, essendo quest’ultimo elemento dotato di una modestissima valenza indiziaria.
La posizione della Clemeno pertanto non può essere parificata a quella della Falini, essendo differenti non solo le rispettive qualità rivestite e il rapporto con l’originario coimputato cui sono in primo luogo ascrivibili gli interventi abusivi, ma anche la consistenza indiziaria degli altri elementi fattuali disponibili.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio rispetto alla condanna di Lara Clemeno, la quale, in presenza di un quadro probatorio non esaustivo, deve essere assolta per non aver commesso il fatto.
5. Manifestamente infondato, infine, quanto alla posizione della Falini, è l’ultimo motivo, concernente il diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Al riguardo occorre richiamare il costante orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269), secondo cui, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione.
È stato inoltre precisato (cfr. ex multis Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899) che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione.
Orbene, in applicazione di tale premessa interpretativa, deve escludersi il vizio motivazionale evocato dalla difesa, avendo le due sentenze di merito, le cui argomentazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus motivazionale unitario, ragionevolmente rimarcato, in senso ostativo, l’entità non trascurabile delle opere abusive, consistite nella realizzazione di un fabbricato di significative dimensioni, mentre la condizione di incensurata della Falini è stata comunque considerata in sede di merito ai fini del riconoscimento in suo favore dei doppi benefici di legge, non potendosi in ogni caso sottacere che la pena è stata fissata in misura molto più prossima al minimo che al massimo edittale.
Di qui la manifesta infondatezza della doglianza difensiva.
5. In conclusione, il ricorso proposto nell’interesse della Falini deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente Falini versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Clemeno Lara per non aver commesso il fatto.
Dichiara inammissibile il ricorso di Falini Loretta che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 18/10/2019